Ci sono opere d’arte che meritano
forse più di altre questo nome. Sono quelle che, una volta fruite, permettono
al beneficiario di effettuare un salto gestaltico, e nella percezione del corrispettivo ambito
in cui esse si collocano (cinema, pittura, musica ecc.) e nel più generale campo
della propria esistenza. Restringendo il nostro raggio di analisi, possiamo
dire che ci sono film che rapiscono fin dai primi secondi di proiezione,
rendendo lo spettatore consapevole di trovarsi davanti a un capolavoro. Birdman del regista messicano Iñárritu è
senz’altro uno di questi. Ammetto di essere entrato in sala prevenuto, dal
momento che la notizia della vittoria agli Oscar 2015 della pellicola in
questione (aggiudicandosi ben quattro statuine) era stata data il giorno stesso
della proiezione a cui ho assistito. Tuttavia, anche se ovviamente non posso
provarlo empiricamente, credo proprio che i miei giudizi sarebbero comunque
entusiasti, al di là dei premi vinti.
«Che i generali regolino gli
orologi» è lo scioglilingua con cui il protagonista della storia, il vecchio
attore Riggan Thompson, si prepara nel suo camerino, prima dell’entrata in
scena nel suo nuovo spettacolo teatrale. Ed è anche una frase che potrebbe
riassumere efficacemente la vicenda del lungometraggio. Essa è infatti lo
slogan dadaistico e naif pronunciato in un momento chiave della storia, che si
carica di tensione inchiodando il pubblico alla sua poltrona, sparandolo verso
le scene finali.
Birdman è un ottimo esempio di “metacinema”, ossia di un film che
parla del film stesso e dei film in generale. E critica causticamente il mondo
del cinema e quello del teatro: la Hollywood abitata da celebrità decadute che
si credono artisti, e la Broadway invischiata di relazioni promiscue, retta da
manager e produttori ancora più viscidi e venali. Tratta dello star system e
dei ridicoli tic del divismo, delle sue velleità maniacali e dei suoi consueti
scandali. Mostra la schizofrenia della
critica (composta sostanzialmente da attori falliti), che spinge la sua follia
fino a scrivere, nella recensione della prima dello spettacolo al centro della
narrazione, che «è stato inventato un nuovo genere teatrale, il
“superrealismo”, in cui il sangue scorre realmente sul palcoscenico; un sangue
di cui a Broadway si sentiva da tempo la mancanza» (citazione non letterale,
riportata a memoria). Un lungometraggio che infine spiattella in faccia allo
spettatore la torta dolceamara della nuda e cruda verità, che ti fa male lo so.
Quando l’uccellaccio supereroe/(alter)ego del protagonista gli ricorda quali
sono i gusti (cioè la ricetta del blockbuster action movie tutto mostri ed
esplosioni iperboliche), del pubblico, quest’ultimo si trova a metà tra
l’esaltazione snob e la severa autocritica.
Ce n’è per tutti dunque in questa
affascinante pellicola, dove a salvarsi è, paradossalmente e ironicamente, solo
l’ignoranza (The Unexpected Virtue of
Ignorance è il sottotitolo originale). Ecco che allora alla base di questo ricercato
elogio della follia vi è senz’altro La
società dello spettacolo di Guy Debord. Le sequenze proiettate sono altresì
sferzate contro il mondo virtualmente social degli adolescenti, dove la
presenza in rete conta senza dubbio di più che non quella fisica. Ma il film
non predica moralisticamente dall’alto del pulpito; piuttosto, esso descrive
fotograficamente l’attuale società, senza scomodarsi in facili quanto ipocrite
sculacciate borghesi.
Meritano un discorso a parte le
musiche del film, che svolgono un ruolo fondamentale, così perfettamente
integrate con i fotogrammi. Nei momenti “reali”, lo sguardo lucido dell’obiettivo
è accompagnato soltanto dalle dinamiche di una batteria (il percussionista nero
compare anche due volte, una “vera”, l’altra “immaginata”). Invece, le visioni
allucinanti dell’uomo-uccello sono amplificate da un comparto armonico e
melodioso di sviolinate, con archi e strumenti da imponente colonna sonora a
tutti gli effetti. Per questo motivo, assume rilevanza la scena finale, in cui
l’incipit di piatti e grancassa smuove il timpano sino al decollo in volo della
soundtrack. Altro segno distintivo del lungometraggio è il ritmo, dei dialoghi
frizzanti e sarcastici, dei gesti circensi e delle azioni strampalate dei
personaggi impersonati da ottimi attori, che stanno al gioco delle parti, in
ogni senso.
La dimensione più intrigante del
film (che può essere letto a molti livelli), però, è forse il costante alternarsi
tra realtà e finzione, nella zona d’ombra della verosimiglianza tipica
dell’arte, in cui non-verità e non-falsità dondolano a braccetto. Le
tradizionali categorie logiche di verità e falsità, infatti, non paiono più
sensate nella contemporaneità a cristalli liquidi, e l’apparenza si insinua
ovunque negli interstizi della trama. Vita e rappresentazione si intrecciano,
come i mille volti di un Giano polifronte, trasformista camaleontico tra quinte e sipario. Ermeneutica e psicanalisi sono
chiamate in causa in questa commedia nera di difficile etichettatura, per
cercare di interpretare sindromi e complessi dei personaggi tragicomici che tutti
noi siamo – uno, nessuno, centomila Zelig anonimi in cerca di visibilità e
ricordo per il nostro effimero passaggio sulla crosta terrestre. Così, il
rotolo di carta igienica tratteggiato dalla figlia di Riggan Thompson (ex
tossica), in cui solo uno strappo corrisponde alla storia dell’umanità sulla
faccia del pianeta, diviene immediatamente il simbolo del sacro non-senso della
vita. Agli occhi dello spettatore è pertanto rap-presentata l’altalena
dell’ambiguità, su cui giocano maschere e travestimenti, in questo eterno palcoscenico
carnevalesco che, in fin dei conti, è la vita.
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