mercoledì 20 aprile 2016

La bici di mio zio




Mio zio mi ha dato la sua vecchia mountain bike, dato il suo mancato di utilizzo. Si tratta di una bicicletta bianca, con il telaio ornato di striature violacee con 7 cambi e una serie graduata di attriti. L’ho appesa a una parete del garage, sopra due staffe, dove è stata per tutto l’inverno. A primavera l’ho tirata giù: ho gonfiato le gomme e ho deciso di partire per un giretto attraverso i sentieri boschivi nei dintorni.

Una prima salita mi fa imprecare ognuno dei raggi delle ruote, mentre smanetto sui rapporti per trovare una marcia leggera adatta all’arrampicata, finché la catena si inceppa, bloccando i pedali e facendomi così perdere l’equilibro. Fortunatamente con un goffo balzo riesco a togliermi dalla sella, evitando in questo modo il capitombolo. Al che rimetto a posto la catena e già che ci sono alzo un poco la sella perché sembro un clown su quelle bici piccole del circo, con le ginocchia in prossimità delle spalle. Poi riparto.

L’esperienza insegna che dopo una salita segue una discesa: in quel momento l’aria mi arriva in faccia e pare davvero di volare, tanto che per un attimo mi viene in mente di chiudere gli occhi e lasciarmi trasportare per godere a pieno il momento. Un clacson di automobile mi fa repentinamente cambiare idea, e capire che sto leggermente invadendo la corsia di una strada provinciale a due sensi di marcia ma priva della linea di mezzeria. Penso a tutte le volte che guidando la macchina mi sono imbattuto anche io in scene del genere ma a rapporti invertiti, maledicendo il ciclista, o più spesso il gruppetto di ciclisti, che se ne sta come un re beato al centro della strada ignorando completamente il fatto che dietro di lui c’è una vettura nel cui abitacolo risiede un guidatore magari di fretta che, sorpassandolo, esprime a gesti o a parole o solo mentalmente il disprezzo generalizzato verso tutta la categoria.

Finito l’asfalto, mi inoltro in un sentiero sterrato, che fa sobbalzare le mie natiche poco allenate, e le mie braccia come se stessi impugnando un martello pneumatico. Intanto spero che i pneumatici non esplodano di colpo, dato che sono alquanto datati. In seguito la luce che abbaglia i miei occhi si attenua; il fogliame degli alberi in fiore filtra i raggi del sole, dando tregua alle pupille che, però, devono già subito concentrarsi per trovare il passaggio migliore onde evitare alcune pozzanghere. Riesco a schivare la prima defilandomi sulla destra; torno poi di nuovo al centro della carreggiata dove scorgo un varco aperto da un altro ciclista; alla terza pozza, non vedendo vie d’uscita percorribili, accelero la pedalata con l’intenzione di oltrepassare il pantano a mo’ di motoscafo. Il risultato tuttavia è che, dopo un paio di metri di schizzi, la ruota davanti si impaluda. Allora sono costretto a scendere e guadare la melma spingendo il velocipede a mano, mentre scopro di essere interamente punteggiato di macchioline beige, credo anche in faccia.

Il percorso prosegue sul terreno ghiaioso o fangoso, a tratti concavo e altre convesso, in una corsa davvero divertente su piccole montagne russe naturali, cercando di schivare i rovi che fanno capolino lungo la via. Il fatto di non andare particolarmente veloce mi consente di osservare gli splendidi sfondi ai miei lati: querce, castagni, gaggìe si alternano campi di erbe selvatiche o coltivate; e a qualche sacco della spazzatura o rifiuti di plastica. L’andatura, inoltre, mi permette di recuperare un concetto, diciamo, più naturale del tempo: col variare della velocità capisco davvero cosa significhi percorrere una salita e una discesa; una cosa non più così immediata procedendo con un motore sotto il sedere. Pedalare insegna che una discesa costa fatica. Andando in bicicletta ho così imparato quanto bisogna sudare prima di godere di libertà e brezza fresca. La forza di gravità ha i suoi privilegi ma anche i suoi inconvenienti. Il contesto silvestre lascia dunque spazio a un piccolo agglomerato di abitazioni, dove decido di sostare un po’ per riprendere fiato, bere dalla borraccia un miscuglio di acqua e sali minerali e far riposare le mie chiappe doloranti. Capisco quindi l’assoluta necessità di procurami dei pantaloncini imbottiti, o magari direttamente un cuscino a forma di sellino.

Finita la pausa mi rimetto in marcia, con i polpacci sempre più duri e gli occhi che bruciano a causa del sudore che cola dalla fronte. Ogni tanto, quando la sofferenza è al limite della sopportazione, sollevo il deretano provando una sensazione di gioia immensa, e quasi mi commuovo. Nel viaggio di ritorno incontro qualche altro amante delle due ruote, a cui un codice non scritto impone l’obbligo di porre un saluto, come intendo presto. Verso la fine, altri due corridori mi superano con estrema facilità, prestando fede al codice non scritto (e probabilmente aggiungendovi anche un pizzico di sarcasmo).

Ritorno a casa stanco e sporco; appena metto nuovamente piede sulla terraferma, manca poco che casco al suolo, poiché le gambe tremano e paiono non reggermi. Sono una specie di robot sudicio con il culo indolenzito che cammina a scatti. Do una pulita alla bicicletta e alle mie scarpe totalmente ricoperte di fango marrone. Ma sono veramente contento dell’esperienza, che intendo ripetere a breve. E ragiono sul fatto andare in biciletta non è poi così diverso dallo scrivere. Macinare chilometri e aggrumare parole: partire, avanzare lungo una strada dove si incontrano sassi e lettere, arrivare alla fine del tragitto. E’ una questione di ritmo – bisogna prendere il tempo giusto, trovare il giusto rapporto. Capita di bloccarsi e bisogna pertanto fermarsi per risistemare la catena e ripartire. Si sale e si scende, si va in piano, con fatica oppure lasciandosi trasportare da un flusso mentre si vorrebbe chiudere gli occhi e immergersi in un universo di piante e aria fresca. Ma un clacson o un sacchetto della spazzatura ci riportano bruscamente alla realtà.

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