Quando sarò vecchio vorrei lavorare, dato che non l’ho fatto
per moltissimo tempo, prima.
Arrivare stanco a casa la sera, quel tanto che basta per non
addormentarmi di colpo davanti alla televisione.
Quando sarò vecchio vorrei essere vecchio, che non significa
anziano ma nemmeno fanciullo. Sentire il peso delle ossa e provare un ruvido
attrito nel passare le dita tra le rughe e gli ispidi peli della barba rada -
quel tanto che basta per non farmela tutte le mattine e, così, poter dormire un
po’ di più.
Quando sarò vecchio vorrei avere tanti capelli bianchi,
magari con qualche spruzzata di grigio: che il brizzolato ha sempre il suo
fascino. Anche se non sarò più in cerca del gentil sesso, perché quello che
dovevo fare l’avrò già fatto prima.
E ancora, quando sarò vecchio vorrei la faccia zeppa di
rughe, di solchi marcati, di crepacci profondi; di zappate del tempo, come i
crateri sul viso della luna.
Quando sarò vecchio vorrei non essere necessariamente saggio -
quel tanto che basta per non farmi più fregare e non fregare gli altri, dato
che l’avrò fatto prima. Non essere costretto a insegnare la storia per tirare,
alla fine, delle morali retoriche sul Tempo. E non dover per forza apparire
buono e rassicurante, ma mostrare quell’arroganza critica e leggermente
misantropa, che mi tenga a debita distanza dagli altri vecchi.
Quando sarò vecchio vorrei non maledire il presente; ma
neanche conformarmi alle mode del momento - quel tanto che basta per guardare
le cose da una certa distanza. E lasciare aperta la porta del futuro,
portandomi dietro le chiavi del passato. E quelle di casa.
Quando sarò vecchio non avrei mai voluto scrivere queste
righe quando ero ragazzo, perché, oggi come allora, non stavo poi così male.
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