Commedia in bianco e nero grottesca
e a tratti surrealista, per quanto aderente alla realtà dei fatti – nel bene e
nel male – del dio pallone. L’arbitro
racconta infatti, con sagace tono tragicomico, (anche) gli scandali che nei
primi anni duemila (in maniera preponderante) hanno scosso Calciopoli e l’opinione pubblica del Bel Paese, quando la cronaca
nera ha sostituito la telecronaca. Tanto che alcune frasi dei dialoghi pronunciati
da certi personaggi del film – membri di varie cricche e cupole – paiono invero
citazioni dirette di intercettazioni telefoniche, estrapolate alla lettera dai
fascicoli giudiziari delle inchieste.
Le corruzioni della Città del
calcio, in realtà, rappresentano solo una faccia della vicenda filmica,
alternate alle immagini secche e polverose delle gesta rocambolesche di un’armata
Brancaleone militante nel campionato di terza categoria sardo. Così, i corridoi
del potere della Capitale, adiacenti a saune e terme, si intrecciano coi luoghi
bucolici della Sardegna più cruda e
selvaggia, tra muretti a secco, paeselli in pietra e campi più o meno erbosi.
Il punto è che non si capisce dove finisca la bestialità e inizi la civiltà, in
questo affresco vernacolare della macchia mediterranea più aspra e georgica,
contrapposta alle profumate ambientazioni delle associazioni sportive. Le due
regioni geografiche si incroceranno ovviamente nel finale, per una
provvidenziale resa dei conti. La morale di questa favola moderna può allora essere
che il giudizio universale alla fine dei tempi (supplementari) arriva; e che un
prato brullo e spelacchiato del girone nord-occidentale dell’isola nuragica non
è poi così differente rispetto al manto erboso dei sofisticati stadi europei,
costantemente – ma evidentemente non abbastanza – monitorato degli occhi delle
videocamere.
Sono molti in questa pellicola i riferimenti religiosi: che cos'è
d'altra parte Dio, se non l'arbitro per eccellenza delle sorti umane? Innanzitutto,
i riti sacrali della terna arbitrale nello spogliatoio dove, tra rosari
propiziatori e croci legate al fischietto, sembra di respirare l’odore
dell’incenso. D’altro canto il direttore di gara Cruciani (Stefano Accorsi) è un fedele devoto che prega prima di entrare in
campo, e quando esce confessa i suoi peccati per chiedere il perdono. In
aggiunta, un richiamo biblico sono i vari Giuda (arbitri, designatori e
dirigenti sportivi) che comprano e vendono l’anima per parecchi danari,
tradendo in questo modo la lealtà del giuoco calcio. C’è poi il fermo immagine
sulla cresta del monte, su cui siede un misterioso vecchio che “vede” le
malefatte dei uomini e parla ambiguamente. La terra promessa della finale
europea diventa così la metafora del paradiso, mentre il rettangolo “verde” del
girone di terza categoria l’inferno: ovviamente, solo in apparenza. Una parodia simpaticamente blasfema troviamo inoltre nella
trasposizione dell’ultima cena, in cui il centro del tavolo è presieduto da un
Gesù coach attorniato dal team degli
apostoli. Di tutt’altra drammaticità è invece l’episodio di vendetta che prende
avvio nel momento in cui un pastore abbandona il proprio gregge per andare in
cerca dell’agnello perduto (sgozzato nel bosco dal cugino caino). Il fair play
è dato alle fiamme in questo spaccato di vita ispirato ai codici non scritti
della pastorizia, un po’ come nel Far West.
Altra influenza del bravo regista
Paolo Zucca è infatti senza ombra di
dubbio il genere western, come
dimostrano i primi piani diabolici di stopper e mediani pronti per il duello,
simili agli eroi sporchi e sudati delle opere di Sergio Leone. Assai evocativa,
per esempio, la scena della (pen)ultima partita di campionato, dove i titolari
devono attraversare un cimitero di croci prima di entrare in campo, che ricorda
il celebre mexican stand-off della
sequenza conclusiva de Il buono, il
brutto e il cattivo, in cui si svolge il lungo “triello” combattuto tra le
tombe di una necropoli. Di tutt’altra natura sono le danze eleganti degli
arbitri che si allenano, i cui gesti e movenze spaziano dal repertorio dei
balletti classici alle arti marziali (risuona l’eco di Shaoling Soccer).
La tragicomicità del film mostra
dunque il gioco del calcio sotto il giogo dei suoi aspetti più ridicoli o
deplorevoli, come l’insopportabile disonestà dell’arbitro Murena (Francesco Pannofino), oppure l’accanimento
verbale e il linciaggio fisico a cui la categoria arbitrale è solitamente
esposta, in quanto capro espiatorio di tifosi inferociti. Ma il lungometraggio
esibisce anche il lato sano e pedagogico del soccer, come il commovente
discorso dell’allenatore cieco rivolto alla piazza delusa per la sconfitta;
oppure il talento di un argentino marziano, innamorato della figlia del mister
(impersonata da Geppi Cucciari). Insomma,
un lungometraggio per gli amanti veraci del pallone; per chi ha smarrito il valore del gioco; per quelli che criticano indiscriminatamente
il calcio in quanto presunto moderno panem
et circenses del popolo.
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