Il
titolo di un corso di filosofia politica potrebbe essere “Filosofie della guerra e della pace”: la storia e il
futuro della democrazia, minata da totalitarismo e violenza, costituirebbero il
suoperno centrale. Nel dettaglio, uno sguardo particolare sarebbe
rivolto all’argomento della filosofia politica delle relazioni internazionali.
In questa relazione tratterò prevalentemente temi inerenti al rapporto tra uomo
e natura, attraverso un confronto critico tra un paio di testi che
rappresentano oggi due classici di quella disciplina accademica che si può
definire “filosofia dell’ambiente”. La comparazione metterà in luce le
principali analogie e differenze che intercorrono fra le opere prese in esame,
i loro punti di forza e quelli deboli. Ad ogni modo, esse non esauriscono
affatto le posizioni teoriche assunte dai pensatori in riferimento ai problemi
ecologici che, specialmente a partire dagli ultimi decenni del XX secolo, hanno
interessato sempre di più le riflessioni e i dibattiti dei filosofi occidentali,
dato l’allarmante aggravarsi della questione. Nella consapevolezza di tale
limite, obiettivo del presente studio è mostrare perché un’analisi sulla condizione
instabile della natura nell’epoca contemporanea corrisponde anche a una
filosofia della guerra e della pace, incentrata sull’idea di democrazia, con un’attenzione
rivolta alla politica delle relazioni internazionali.
Jonas e Hösle
I
libri esaminati sono Il principio
responsabilità e Filosofia della
crisi ecologica, rispettivamente di Hans Jonas e Vittorio Hösle[1]. Il primo testo esce nel
1979 e rappresenta davvero, come ricorda la dedica che Hösle offre a Jonas nel
suo volumetto, una pietra miliare senza la quale «non esisterebbe una filosofia
pratica e responsabile della crisi ecologica». Il secondo è uno scritto
pubblicato nel 1991, in un periodo in cui la questione ambientale è ormai
diventata un problema di primaria importanza, riconosciuto a livello
scientifico. Insomma, se Jonas ha svegliato le coscienze, Hösle ha tentato di
indirizzarle in maniera maggiormente pragmatica, all’insegna di quel concetto
di responsabilità che funge da stella polare per entrambi. Nonostante la
disparità cronologica, che costituisce certamente il principale fattore di
diversità tra i due, è comunque possibile individuare una serie di affinità
rilevanti alla nostra ricerca.
La
prima può essere rintracciata nella comune matrice teorica, vale a dire Martin Heidegger
(basti pensare alla nozione di Cura in Essere
Tempo, ripresa da Jonas nel suo saggio), specialmente quello della post Kehre, con il discorso sulla storia
della metafisica come oblio dell’essere e le meditazioni sulla tecnica,
sviluppate negli Holzwege (“L’epoca
dell’immagine del mondo”, 1938, in Sentieri interrotti) e ne La questione della tecnica (1953).
Tuttavia, sia Jonas che Hösle hanno oltrepassato il pensiero di Heidegger,
approdando alla dimensione pratica delle problematiche aperte dal “loro”
maestro. Come annota Hösle, infatti, «la filosofia della crisi ecologica ha,
oltre a una componente teoretica, anche una componente pratica: questo
ampliamento di campo, attuato superando il pensiero di Heidegger, è un merito
duraturo di Hans Jonas, che vale ad assicuragli un posto tra i grandi filosofi».
Ma non è soltanto la sfera morale quella che interessa ai due autori: «E’
inoltre significativo», prosegue Hösle, «che nella filosofia pratica della
crisi ecologica di Jonas vengano discusse problematiche che non riguardano solo
l’etica, ma anche la filosofia politica; infatti il problema ecologico non si
può risolvere con il solo ausilio di principî etici individuali; è inevitabile
che le sue conseguenze investano anche la filosofia politica [2]».
La seconda convergenza riscontrabile
riguarda la preoccupazione bioetica per il probabile passaggio dal controllo
della natura a quello sociale. Ambedue gli studiosi intravedono il rischio
insito nella manipolazione del comportamento degli individui, come una
conseguenza della possibilità tecnologica di intervenire liberamente sul corpo
delle persone – anch’esso in definitiva facente parte della natura. Jonas, ad
esempio, non nasconde i suoi timori dinnanzi al know-how biomedico a
disposizione dell’homo faber, fatto
di droghe sintetiche che inibiscono il cervello o stimolazioni elettriche
sull’appartato nervoso[3]. Da parte sua Hösle,
identificando la tecnica moderna come una delle coordinate storico-spirituali a
monte della crisi ecologica, evidenzia il ruolo del “mito della fattibilità”
nell’ideale totalitario della creazione di un uomo nuovo. Secondo il
professore, la volontà di dominio della società, tipica del totalitarismo, è
perciò un fenomeno specificatamente moderno, derivante dalla trasposizione del
principio scientifico del ‘verum-factum’
sul terreno politico. Ciò sarebbe il risultato della «follia del pensiero
quantitativo e oggettivante[4]».
I diritti della natura e delle generazioni
future possono essere il terzo elemento unificante. Il punto di partenza di entrambi
gli scritti è infatti la miopia dell’attuale democrazia, incapace, a causa
della sua scarsa lungimiranza, di custodire la vita delle risorse naturali e la
stessa sopravvivenza della specie umana. Si impone pertanto la necessità di
intervenire politicamente, onde evitare la distruzione del pianeta Terra per
mano del potere smisurato della tecnica oggigiorno in possesso dell’uomo. Una
soluzione in questo senso è imporre dei limiti all’agire umano, riconoscendo il
valore intrinseco del mondo organico in quanto dotato di scopo, oppure
semplicemente poiché sostrato fondamentale dell’esistenza dell’umanità.
«Il
collasso ecologico del “pianeta azzurro” e la catastrofica situazione del Terzo
Mondo», ammonisce Hösle, sono «aspetti inscindibilmente collegati tra loro[5]». Volgere lo sguardo e
prestare ascolto ai “dannati della Terra” è allora il quarto punto in comune
che si trova leggendo le pagine dei due libri. La faccenda dei paesi sotto
sviluppati verte su due fronti: in primo luogo vi è la denuncia a barbare
strategie imperialiste di sfruttamento e prelevamento scriteriato di materie
prime, là dove la resistenza è minore se non assente del tutto, al fine di
soddisfare i bisogni (spesso assurdi) della Società del Benessere. A tale
proposito, sempre Hösle osserva causticamente che il rapporto tra Primo e Terzo
Mondo si caratterizza per lo più come un saccheggio che «si ammanta di una
parvenza di legalità[6]». In secondo luogo, però,
vi è il pericolo che queste popolazioni sottomesse per secoli si conformino nel
breve o medio periodo allo standard consumistico dell’Occidente, retto da un
principio di crescita infinita, logicamente insostenibile per un sistema finito
come la Terra.
Ecco dunque il motivo per cui sia
Jonas che Hösle auspicano la diffusione tra le masse di virtù ascetiche, ossia
di una morale improntata su austerità, rinunce e sacrifici che, adottando le
parole di Jonas, sarà «volontaria, se possibile, ottenuta con la forza, se
necessario.[7]»
Occorre una sorta di trasvalutazione dei valori per il filosofo di origini
ebraiche, allo scopo di implementare uno “spirito di frugalità”, totalmente
estraneo alla mentalità capitalistica[8]. Anche Vittorio Hösle è
chiaro nel messaggio: «dobbiamo imparare nuovamente ad amare il limite. Abbiamo
bisogno di ideali ascetici.[9]»
L’urgenza di una conversione etica
generalizzata e immediata, per scongiurare l’aberrante ma assai poco
fantascientifica ipotesi di un’apocalisse del pianeta, è il presupposto che sta
alla base delle considerazioni di carattere istituzionale degli autori. Il realismo
politico è in effetti il nesso cardinale che lega i due testi chiamati in
causa, inteso appunto come la prospettiva politica da cui visionare
strutturalmente la crisi ambientale; l’approccio con cui cercare delle
soluzioni efficaci, una volta preso atto dell’inettitudine del governo
rappresentativo. Nella sua critica dell’utopismo marxista, infatti, Jonas
presenta un paragrafo intitolato “Lo Stato ideale e il migliore Stato
possibile”, in cui distingue due tipi di utopia: «L’una è “u-topia” in senso
etimologico (in nessun luogo) e appartiene al paese dei sogni del pensiero
contemplativo (consacrato all’otium[10]);
l’altra, il cui primo grande esempio è fornito dalla “Repubblica” di Platone, è
ancor sempre “utopia” nel senso che, pur essendo possibile in quanto stato reale, la sua realizzazione nel fluire confuso delle vicende umane esige una tale
convergenza di circostanze fortunate che non si può fare affidamento sulla sua
comparsa […]. Tuttavia il modello deve risultare realistico in sé, cioè
suscettibile di esistere nel mondo così com’è.[11]» E’ ovviamente questo
secondo modello, opposto al prototipo “idealista”, quello a cui egli si ispira
per elaborare un progetto di Stato concretamente efficiente dal punto di vista
ecologico, anche se non prettamente “morale” in linea di principio. Infatti,
Jonas asserisce che «va fatta una distinzione tra due concetti completamente
diversi di Stato ottimo o “ideale”: fra quello idealmente migliore senza
riguardo per la sua realizzabilità, vale a dire desiderabile in sé e
liberamente configurabile in base a un ideale astratto di felicità umana, da un
lato, e dall’altro, il miglior Stato possibile nelle condizioni reali, in cui
si tiene conto dei limiti della natura e delle imperfezioni degli uomini che
sono angeli, ma neppure diavoli.» [12]
Dal
canto suo Hösle inaugura l’ultimo capitolo del suo scritto, “Conseguenze
politiche della crisi ecologica” nei seguenti termini: «La filosofia politica
deve occuparsi di due questioni che per la loro natura vanno rigorosamente
distinte. Da una parte essa affronta il problema delle strutture dello Stato
ideale; dall’altra tratta la questione molto più impegnativa di come, per mezzo
di quali provvedimenti, lo Stato attualmente esistente possa avvicinarsi allo
Stato ideale, o almeno, evitare di allontanarsene ulteriormente[13]». Pertanto, data
l’emergenza politica che sorge dalla crisi ambientale, «potrebbero rendersi
necessari provvedimenti straordinari[14]». In altri termini un
buon Stato, vogliono dirci i nostri, non coincide necessariamente con uno Stato
buono. Il realismo è di conseguenza la cifra decisiva tramite cui leggere, per
i nostri propositi, le due opere citate. Vediamo nel dettaglio in che cosa
consistono tali espedienti eccezionali della politica, reclamati e da Jonas e
da Hösle.
La buona tirannide di Hans Jonas
In
via preliminare, è utile chiarire fin da subito che, come ammette lo stesso
Jonas, «l’applicazione pratico-politica […] in generale, come vedremo,
costituisce la parte più debole dell’intero sistema, non soltanto sotto il
profilo teorico ma anche sotto quello operativo[15]». Effettivamente,
l’obiettivo principale a cui mira l’opera del filosofo tedesco è la costruzione
sistematica di un modello di etica universalistica, attraverso l’elucubrazione di
una dottrina dei principi di stampo aristotelico, basata sul monismo
dell’essere. Ciò che preme per Jonas è un nuovo imperativo categorico dopo il
tentativo kantiano, che espone in quattro varianti nelle prime pagine del tomo[16]. Tuttavia, tralascerò
intenzionalmente la pars teoretica
del saggio, per esporre direttamente quella dedicata agli aspetti politici.
Parimenti, per ragioni di spazio e in quanto non centrali per i nostri fini,
saranno ridotte al minimo le riflessioni sulla critica del marxismo e la
conseguente polemica con Ernst Bloch.
La
politica, in quanto si occupa delle leggi della città, inerisce secondo Jonas alla
dimensione pubblica della responsabilità. Dato che la condizione dell’agire
umano, notevolmente potenziato grazie alle innovazioni tecnologiche (per Jonas
l’attuale “vocazione” dell’umanità) si è trasformata, sono cambiati anche il raggio
e la portata delle azioni antropogeniche. Infatti, adesso le conseguenze della
tecnica si ripercuotono in uno spazio e in un tempo enormemente dilatati,
investendo perciò anche il piano globale e la sfera del futuro. Gli effetti
dell’attore che agisce nel presente non sono più ristretti come nel passato,
ossia attinenti alla sola cerchia dei contemporanei, ma coinvolgono ormai anche
l’intera popolazione mondiale e quella ancora da venire. Come afferma l’autore:
«Nell’immagine che l’uomo coltiva di sé […] egli è sempre di più il produttore
di ciò che ha prodotto e l’esecutore di ciò che può eseguire, ma soprattutto il
programmatore di ciò che sarà in grado di fare. Ma chi è questo “egli”? Né io
né voi: sono l’attore e l’azione collettivi, non l’attore e l’azione
individuali, ad essere qui in gioco; ed è il futuro indefinito, molto più che
non lo spazio contemporaneo dell’azione, a costruire l’orizzonte rilevante
della responsabilità.[17]» In un certo senso, al
giorno d’oggi i destinatari delle nostre azioni sono indefiniti poiché non
visibili direttamente – lontani nello spazio e nel tempo –, a differenza di
quanto accadeva prima, quando essi erano chiaramente riconoscibili e, per così
dire, tangibili. Inoltre il nostro potere, ragiona Jonas, si è emancipato quasi
integralmente dalla natura, al punto da mettere a repentaglio quest’ultima. Dal
momento che l’arco temporale e spaziale dell’attuale responsabilità collettiva si
è universalmente ampliato, segue la necessità di una nuova morale. Occorre
sostituire l’etica tradizionale, antropocentrica e circoscritta alla prossimità,
con una nuova etica globale e “biocentrica”, che prescriva norme improntate
alla sopravvivenza dell’intero genere umano e della biosfera. In questo senso, secondo il nostro, il primo
comandamento imposto dal “sì della vita” è che ci sia un’umanità.
Tuttavia, osserva Jonas, nonostante
la gravità dei pericoli antropo-tecnici, spesso tale inquietudine non
attecchisce sulle coscienze dei singoli, a causa di quell’indeterminatezza dei
destinatari di cui si è parlato sopra, e in virtù del carattere puramente
possibile delle proiezioni future (il sapere predittivo ha pur sempre dei
limiti teorici[18]).
Per cui l’arnese che egli chiama «euristica della paura» (strumento teorico per
cui, in assenza di dati certi, vale la priorità della previsione cattiva su
quella buona) nella maggior parte dei casi non è sufficiente a far cambiare gli
atteggiamenti delle persone. In aggiunta, Jonas si accorge del rischio di un’immoralità
dall’alto, come l’eventuale manipolazione
bioetica, serva di un freddo funzionalismo sociale, già accenata in precedenza.
Di conseguenza, oltre a nuovi imperativi morali individuali, emerge anche
l’esigenza dell’intervento pubblico in materia ambientale.
Qui,
oltre all’euristica della paura (che, in ultima analisi, risulta comunque
inutilizzabile per l’applicazione dei principi della politica, data la sua sostanziale
vaghezza scientifica) il filosofo si avvale di un “intuizionismo negativo”,
come guida essenziale per scovare non ciò che si desidera, bensì almeno ciò che
non si vorrebbe, cioè l’estinzione
del genere umano e la perdita della sua dignità. Ora, poiché il destino
dell’umanità è intrinsecamente legato a quello della natura – ovviamente da
essa l’uomo ricava il sostentamento e le risorse fondamentali per la sua esistenza
– secondo Jonas bisogna innanzitutto riaffermare la validità della realtà
naturale, passando dalla questione dello scopo a quella del valore in sé della
vita e dell’essere in generale, rispetto al nulla. Ciò che urge è allora focalizzare
l’attenzione sulla “responsabilità per il da-farsi”, vale a dire ponderare sul
dovere del potere politico per quanto riguarda il futuro. La responsabilità
dello statista (che, ricorda Jonas, è liberamente scelta) nei confronti della res publica e dei suoi cittadini deve
miscelare saggiamente l’interesse per il presente e la lungimiranza per il
futuro, governando sempre con moderazione. «Prescindendo dalla più scoperta ed
egoistica tirannia, che a malapena rientra ancora nella sfera politica (se non
in base al falso pretesto della cura del bene pubblico), è proprio la responsabilità,
legata al potere e dal potere resa
possibile, a costituire il peso della competizione e a essere voluta in
primo luogo dall’autentico homo politicus.[19]»
In
questo senso l’uomo di Stato diviene per Jonas un paradigma eminente della responsabilità,
paragonabile a quello dei genitori. I due archetipi divergono chiaramente in
riferimento alla natura del rapporto che intercorre con il rispettivo oggetto
di cura. I genitori rappresentano il modello di un dovere non fondato su una
relazione di reciprocità, ossia l’assistenza alla vita individuale qual è
quella del proprio discendente (per Jonas il bambino raffigura l’oggetto
originario della responsabilità). Al politico, al contrario, spetta la garanzia
della sicurezza e del benessere collettivi. Fatte le dovute differenze,
tuttavia, genitori e uomini di Stato convergono per Jonas su tre punti:
totalità, continuità e futuro.
Per quanto concerne il primo, i due
paradigmi adempiono alla sfera dell’educazione o formazione del cittadino;
addirittura, tale compito si concentra nel caso della collettivizzazione
estrema, come presuppone il totalitarismo del comunismo radicale (anche se,
come nota Jonas, il paternalismo resta in ogni caso anche un carattere precipuo
dello Stato moderno). Inoltre, sussistono delle analogie sul piano emotivo:
l’amore dei genitori e la solidarietà del politico nei confronti dei propri
oggetti, ovvero i figli e, secondo un’immagine figurata molto suggestiva, i “fratelli”
(i concittadini). Altro elemento “totale” è la dipendenza del bambino e della res publica dai loro protettori, in
quanto creature del bisogno vulnerabili e minacciabili. A ciò si aggiunga però
il rapporto unilaterale e assoluto di paternità-maternità. In secondo luogo, la
continuità si esprime invece nella preservazione di un’entità storica ben
determinata. Infine, il diritto del non-ancora-esistito comporta il dovere di
tutela della causalità autonoma dell’essere per il futuro.
A
questo punto, Jonas si chiede: fin dove la responsabilità politica può e deve
inoltrarsi nel futuro? In altri termini, esiste un limite temporale che l’egoismo
lungimirante della politica non è tenuto a varcare? La risposta
dell’intellettuale è sostanzialmente che la dimensione della lungimiranza va oltre
la necessità del momento. Se infatti l’obbligo per l’avvenire in passato era un
peccato di hybris più che una virtù,
oggi, data la minaccia di sventura che incombe sul domani, ogni arte di governo
è responsabile per la stessa possibilità della politica futura. Nel momento in
cui il mondo è entrato in una fragile condizione di mutamento permanente e
irreversibile, per dirla diversamente, la dinamicità della modernità impone
alla politica uno sguardo rivolto ad orizzonti lontani.
Qui
Jonas si imbatte però nella ristrettezza di vedute del governo rappresentativo,
vincolato per sua stessa natura alla “lobby del presente”, che gli palesa pertanto
l’inadeguatezza dei regimi democratici. «Nella morsa futura di una politica di
rinuncia responsabile», egli sancisce, «la democrazia (nella quale hanno
necessariamente la preminenza gli interessi contingenti) è, perlomeno
temporaneamente, inadeguata.[20]» Riportando in auge il
vetusto problema dei filosofi al potere, inaugurato da Platone e inoltratosi
poi con la cosiddetta ‘sindrome di Siracusa’, egli così afferma: «Ciò ripropone
in tutta la sua radicalità l’antica questione del potere dei saggi o della
forza delle idee nel corpo politico, qualora queste non siano alleate con
l’egoismo. Quale forza deve
rappresentare il futuro nel presente? Si tratta di una questione di filosofia
politica sulla quale io ho le mie idee, probabilmente chimeriche e certamente
impopolari, che per ora possono restare dove sono.[21]» Cerchiamo dunque di
sviscerare tali idee.
A
causa della possibilità non più così remota di una catastrofe planetaria, che
non sembra scongiurabile dalla odierna democrazia, Jonas asserisce che «soltanto
un massimo di disciplina sociale politicamente imposta è in grado di realizzare
la subordinazione del vantaggio presente alle esigenze a lunga scadenza del
futuro.[22]» Data la miopia del
governo rappresentativo, il filosofo – destando provocatoriamente la
perplessità di noi ‘turisti della democrazia’– decreta perciò che «la nostra
scelta ponderata deve orientarsi oggi, sia pure controvoglia, tra forme diverse
di “tirannide”.[23]»
L’autore
giunge a tale conclusione dopo aver valutato quali chances offrono marxismo e
capitalismo (entrambi accomunati da un ideale baconiano di progresso) nell’affrontare
la minaccia tecnologica insita in un processo di industrializzazione smisurato.
Risulta emblematica a tale proposito la seguente dichiarazione: «Non intendiamo
verificare gli intrinseci vantaggi dei due sistemi di vita, ma soltanto la loro
adeguatezza a uno scopo egualmente estraneo a entrambi, la prevenzione di una
catastrofe dell’umanità mediante disciplinamento dell’impulso tecnologico, nel
quale l’uno non vuole essere da meno dell’altro.[24]» Il ragionamento di Jonas
si snoda quindi attraverso una comparazione tra i pro e i contro dell’economia
dei bisogni e dell’economia del profitto. Da una parte egli evidenzia la
maggiore razionalità interna alla prima, tesa al benessere materiale senza
spreco, in opposizione al consumo irrazionale della seconda. Dall’altra,
illustra però anche gli inconvenienti di una burocrazia centralizzata, quali i disguidi
dall’alto, il servilismo e la corruzione dal basso; viceversa, l’imprenditorialità
ha dalla sua la riduzione dei costi e il risparmio di base, in virtù del
sistema concorrenziale. Dopo aver sottolineato i pregi e i difetti di
socialismo e liberalismo, la conclusione a cui giunge Jonas è la preferibilità
della pianificazione di Stato, poiché in definitiva essa elimina la «creazione
artificiale di capacità di mercato per beni non desiderati, anzi neppure
conosciuti.[25]»
In
linea del tutto astratta il marxismo è pertanto ritenuto più vantaggioso
rispetto all’economia di mercato, anche perché capace di imporre una morale
ascetica alle masse, che l’uguaglianza per la disponibilità ai sacrifici
aiuterebbe a mettere in pratica. In altre parole, lo Stato nazionale comunista
sarebbe sulla carta migliore, grazie all’idea della “società senza classi quale
condizione per l’avvento dell’uomo autentico”, sebbene essa, commenta Jonas, «non
si presenterebbe più come la realizzazione di un sogno dell’umanità, ma molto
sobriamente come condizione della sua sopravvivenza nell’imminente crisi
epocale[26].» Un’altra qualità del
socialismo sarebbe la capacità di trasformare il congenito entusiasmo per
l’utopia in entusiasmo per l’austerità.
Nel
paragrafo che recita come sottotitolo “(Politica e verità)”, parafrasando Marx
e tenendo sempre a tiro Bloch, egli tematizza la validità di una “congiura elitaria
per il bene”: «una falsa coscienza sorretta da una coscienza giusta! Non
inorridisco dinnanzi all’idea. Forse questo pericoloso gioco dell’inganno di
massa (la “nobile menzogna” di Platone) è l’unica via di cui la politica alla
fine disporrà, facendo avanzare il “principio paura” sotto la maschera del
“principio speranza”.[27]» In questo passo, che
riporto integralmente per la sua densità concettuale, il pensatore mette in
mostra tutto il suo realismo politico:
«Siamo
così entrati in una zona ambigua della politica, nella quale il profano si
aggira mal volentieri, preferendo lasciare la parola agli addetti ai lavori.
Qui potrebbe rivelarsi necessario un nuovo Macchiavelli, che dovrebbe però
esporre la sua dottrina in forma rigorosamente esoterica. Sarebbe naturalmente
meglio, e più auspicabile sotto il profilo etico e pragmatico, poter affidare
la causa dell’umanità al diffondersi di una vera “coscienza”, animata dal
necessario idealismo politico, che in anticipo di generazioni si facesse
volontariamente carico, per i propri discendenti e nello stesso tempo per i contemporanei bisognosi di altri popoli,
delle rinunce che una situazione privilegiata non impone ancora. Data l’imperscrutabilità del mistero “uomo”,
questo non va escluso. […] L’autore è preparato al rimprovero di cinismo e non
desidera contrapporgli l’assicurazione delle sue buone intenzioni.[28]»
L’euristica
della paura pare quindi condurre inevitabilmente a una cinica visione del
futuro del mondo; purtuttavia, nonostante l’acclamazione di un’accettazione
quasi passiva dell’operare del potere da parte di cittadini-sudditi, secondo
Jonas, all’interno di quella zona grigia della politica adombrata da finzioni e
apparenze, vi è ancora spazio per un labile barlume: «se la verità è dura da
sopportare, deve venire in soccorso una buona menzogna. Ma forse in questo modo
si sottovalutano gli uomini; forse anche una verità terribile è in grado di
entusiasmare, non soltanto i pochi ma in definitiva anche i molti. Questa è la
speranza migliore nei tempi bui.[29]»
Ma
ritorniamo alla legittimità di ciò che si può chiamare un dispotismo verde. In un altro paragrafo intitolato “Il vantaggio
del potere governativo totalitario”[30] egli rivela l’importanza
di trasmettere nella prassi dei cittadini lo “spirito di razionalità”, anche
con rimedi impopolari. A tale scopo ipotizza l’adeguatezza di quella che può
essere definita una buona tirannide: «Queste misure [impopolari] sono proprio
quel che la minaccia del futuro esige ed esigerà sempre di più. […] Si tratta
quindi dei vantaggi governativi di ogni tirannide che, nel nostro contesto,
deve essere una tirannide benintenzionata, beninformata e animata da giuste
convinzioni.[31]»
La manchevolezza della democrazia a vantaggio del marxismo come Stato totale,
tuttavia, non elimina il problema della idoneità dei governanti e della moralità
delle istituzioni pubbliche, ovvero quello che Jonas denomina «il grande “se”
della classe dirigente[32]». Egli prova quindi di
non essere uno sprovveduto quando, ad esempio, indica gli “effetti
demoralizzanti del dispotismo” i quali, però, si ritrovano anche, magari in una
forma più velata, nello sfruttamento economico. Il “buono Stato”, secondo
l’autore, deve saper coniugare sapientemente libertà politica e moralità
civile. La prospettiva dell’utopismo realistico, nel dettaglio, ammette il
sacrificio della libertà personale in cambio della stabilità sociale, giudicata
più essenziale in un eventuale momento di nichilistica crisi ecologica. Ne
deriva che un tipo di utopia autoritaria e paternalistica può servire come
idea-guida per la prassi politica.
Continuando
il discorso sulla desiderabilità di uno Stato fortemente interventista anche
nelle vicende economiche, Jonas traccia in seguito un parallelismo tra regimi
liberali e regimi illiberali. In seguito all’analisi, stipula così: «La nostra
tesi è che i sistemi liberali sono superiori sul piano etico al loro
antagonista, anche se quest’ultimo può superarli sotto alcuni aspetti in quanto
a rendimento. […] E’ evidente, ma non vincolante per il nostro giudizio, il
fatto che l’utopismo non stimi in considerazione dei vantaggi ricavati un
troppo elevato rinunciare alla libertà individuale, arrivando a dichiarare pura
illusione (“pregiudizio borghese”) l’oggetto del sacrificio[33].»
Infine,
prima di addentrarsi nella sua critica dell’utopia marxista (avvalendosi, tra
l’altro, delle nozioni scientifiche più aggiornate dell’epoca sui confini fisici
di tolleranza della natura) e della filosofia blochiana, Jonas accenna ad
alcune questioni di politica internazionale implicate nella crisi ambientale,
in cui soggiorna la società tecnologica contemporanea. Egli, ad esempio,
aggiorna la teoria di Marx sulla lotta di classe, facendo vedere come essa possa
in realtà convertirsi in una furibonda lotta delle nazioni. La nuova
costellazione della guerra tra nazioni esige perciò, nell’interesse statale,
nuove risposte da una impellente politica costruttiva globale. Altrimenti non è
escluso un lugubre scenario di anarchia internazionale[34].
La Realpolitik ecologica di Vittorio Hösle
Il
testo del filosofo italo-tedesco è composto da una serie di lezioni tenute
all’università di Mosca nel 1990. Questo dato storico rappresenta una differenza
basilare rispetto al Tractatus technologico-ethicus
di Jonas. I due testi, com’è noto, sono
separati da quello spartiacque epocale che è stato la caduta del muro di
Berlino nel 1989, catalizzatore di una serie di avvenimenti alquanto
importanti. “L’anno della rivoluzione”, come dice Hösle, ha infatti determinato
la crisi del marxismo, i sovvertimenti e la nuova distribuzione delle forze nell’Europa
centrorientale, le elezioni nella Repubblica Democratica Tedesca e la questione
della trasformazione giuridico-statale dell’Unione Sovietica. A tale proposito,
dobbiamo sempre tenere presente l’interlocutore diretto a cui Hösle si
riferisce, ossia il pubblico russo.
Ciò
che l’autore intende elaborare è un’autentica “filosofia della natura”: a
livello teoretico, egli individua le direttrici storico-spirituali della
metafisica moderna, responsabile della crisi ecologica, vale a dire scienza, tecnica
ed economia del XIX-XX secolo. A livello pratico, Hösle compie interessanti riflessioni
etiche e politiche. Prendendo spunto dall’etimologia del termine ‘ecologia’, il
suo lavoro va inteso, in definitiva, come una “dottrina della casa”, volta in
primo luogo alla preservazione della dimora materiale dell’uomo (il pianeta
Terra) e, in secondo luogo, al recupero di una dimensione metafisica – dimora
ideale – per lo Spirito della civiltà tecnica.
Nel
capitolo “L’ecologia come nuovo paradigma della politica” il filosofo parte
proprio dal fatto che «crollano le mura»: tale stato di incertezza, al bivio
tra consenso e violenza, esige un cambiamento di paradigma politico-morale, un nuovo
edificio di pensiero per cui occorre «mettere ali alla filosofia». La crisi del
marxismo, osserva Hösle, comporta una triplice configurazione di opzioni
alternative: il tentativo di resistenza di alcune roccaforti ideologiche; la
brama di intraprendere la via occidentale; il recupero di tradizioni
pre-rivoluzionarie. Il suo auspicio è infatti il fiorire di un “Rinascimento
russo”, guidato dalla conoscenza di un mondo diverso da quello attuale ma
reale, ossia il ritrovamento di un passato trasfigurato per sviluppare il nuovo
paradigma spirituale di cui necessita il secolo dell’ambiente.
In
particolare, per Hösle il problema è appunto scongiurare una completa adesione
spirituale al Primo Mondo da parte dei paesi di quello che ormai chiama “l’ex
Patto di Varsavia”. «Non è opportuno», ragiona, «che i paesi a economia
pianificata adottino il sistema sociale dell’Occidente senza alcun correttivo»,
ovvero in modo acritico. I motivi alla base della tesi sono tre: in primo luogo,
le “vittime dell’imperialismo stalinista e del predominio bolscevico” – che
hanno vissuto sulla propria pelle egli effetti collaterali della Rivoluzione
d’Ottobre e della II Guerra Mondiale – potrebbero compromettere il loro
patriottismo (che per Hösle è diverso dal nazionalismo), facendo avanzare
piuttosto il pericolo di sciovinismo. In secondo luogo, il raggiungimento dello
standard di consumo occidentale si otterrebbe a discapito della libertà
spirituale: desiderare i vizi dell’occidente significherebbe sacrificare gli
altri valori attraverso bisogni che non si è in grado di soddisfare,
rinunciando pertanto alla propria identità. In terzo luogo, «l’universalizzazione
del tenore di vita occidentale non è attuabile senza il totale collasso
ecologico della Terra.[35]». I limiti del pianeta,
infatti, porteranno a lotte di spartizione, ancora più terrificanti in uno
scenario dominato da armi di distruzione di massa.
Quale
sarà allora il destino del XXI secolo? Con la fine guerra fredda, ossia raggiunto
l’accordo di collaborazione reciproca tra le superpotenze, e la vittoria della
democrazia occidentale, siamo ormai giunti, come sostiene Francis Fukuyama,
alla fine della storia? Niente affatto: per Hösle è necessario un cambiamento
di paradigma ancora più drastico rispetto a quello del 1989, che metta al
centro il valore della natura. Il nuovo modello sociale dovrà spodestare
l’attuale, cioè l’economia, così come quest’ultima ha detronizzato i suoi
predecessori: religione e nazione. A dimostrazione dell’attuale primato dell’elemento
economico sugli altri sottoinsiemi della società, Hösle osserva che est e ovest,
sebbene mediante un metodo diverso (economia pianificata / economia di mercato),
erano in fondo accomunate dal medesimo obbiettivo: soddisfare il maggior numero
possibile di bisogni materiali del maggior numero possibile di cittadini, tramite
lo sviluppo della tecnica. Tuttavia, il filosofo nota che l’economia non è
sempre stata al centro delle strutture portanti della società nel corso della
storia. Infatti nella Grecia arcaica, in cui vigeva un’economia di sussistenza,
nello specifico era data importanza politica ad altri ambiti, che poi sarebbero
stati soppiantati nello Stato moderno capitalistico o socialista.
Al
fine di scovare gli altri ambiti centrali su cui si reggevano le istituzioni
del passato, il nostro autore si avvale pertanto delle analisi svolte da Carl Schmitt
nel saggio “L’era delle neutralizzazioni e della spoliticizzazioni”, contenuto
in La categoria del politico del
1929. In quest’opera Schmitt identifica la relazione amico-nemico come essenza
della politica: uno spostamento degli assi amicizia-inimicizia ha come
conseguenza un cambiamento del paradigma politico. Inoltre, il pensatore
ricerca il casus belli delle varie
epoche storiche a partire dal consolidamento dell’entità statale, vale a dire
il motivo centrale per cui schiere di eserciti hanno ritenuto legittimo
ammazzarsi vicendevolmente in guerra. All’inizio dell’età moderna, questo era rappresentato
dalla religione: dal medioevo fino al XIX secolo, passando per l’Illuminismo,
il Cristianesimo rappresentava il paradigma sociale. Era infatti l’imposizione
dell’omogeneità confessionale che mosse le guerre civili e soprattutto la
Guerra dei trent’anni. Ma nel corso di tale conflitto avvenne quello che
Schmitt chiama “spoliticizzazione della religione”, che determinò così un nuovo
schieramento: la Francia cattolica si alleò con la Svezia protestante, contro
il Sacro Romano Impero di Nazione Tedesca. Ciò aveva significato il passaggio
dal principio del cuius regio, eius
religio a quello del cuius regio,
eius natio. Ora si apriva dunque la seconda fase della modernità, il cui
fulcro era la nozione di Stato. Il secolo XIX vide l’affermarsi della Nazione:
è l’omogeneità interna a mobilitare lo scacchiere militare tramite il
dispiegarsi di guerre nazionali. E se da un lato l’affermarsi dell’entità
statale ha portato progresso, sotto forma di indipendenza ed emancipazione,
dall’altro lato, commenta Schmitt, in quanto categoria anti-universalistica (a
differenza della Chiesa), la nazione può per ceti versi considerarsi un
regresso.
Infine,
si è approdati al cuius regio, eius
oeconomia del XX secolo. E’ emblematico infatti che la Guerra Fredda si
configurasse come una contesa tra due sistemi di alleanze, per fissare un
sistema economico col potere dello Stato. La terza fase ha perciò comportato il
trasferimento dallo Stato di diritto liberale allo Stato Sociale. Anche in
questo caso si può parlare di progresso dal momento che è avvenuta un’evoluzione
nella storia del diritto; il declino è però riscontrabile, dapprima,
nell’aumentata aggressività internazionale degli Stati moderni e, in aggiunta,
proprio nella crisi ecologica. Lo Stato si fa promotore di un’intensa politica
di sfruttamento naturale per soddisfare i bisogni economici dei cittadini,
conservando così la pace sociale. La risultante di tale processo, quindi, è che
la politica contemporanea si è assoggettata al paradigma dell’economia.
Tuttavia,
tale modello di crescita economica “infinitistica” – complice lo sviluppo
demografico – non può durare ancora a lungo, poiché la Terra è una superficie
finita governata da evidenti limiti naturali. Secondo Hösle è allora giunto il
momento di innescare il nuovo paradigma, ossia quello dell’ecologia, che dovrà
guidare la politica sulla strada di ciò che oggi chiamiamo sostenibilità ambientale. D’altronde il XXI secolo è stato definito
non a caso “il secolo dell’ambiente”: la cura dei fondamenti naturali della
vita dovrà essere lo scopo dello Stato. «La buona politica» sancisce Hösle, «sarà
quella capace di salvaguardare in modo globale i fondamenti naturali del mondo
in cui viviamo, non più quella capace di consentire lo sviluppo quantitativo
dell’economia e la soddisfazione dei bisogni più assurdi, né una politica che
persegua l’identità culturale e linguistica di una nazione a discapito di
altre, e tanto meno, per finire, una politica che cerchi di imporre con la
violenza l’omogeneità culturale o religiosa.[36]»
Il
nuovo paradigma, secondo lo studioso, comporterà anche nuovi raggruppamenti
amico-nemico, sull’onda lunga della distensione est-ovest. La crisi ecologica
però, se da una parte può diventare il nemico comune dell’umanità, dall’altra
essa potrebbe pure fungere da pretesto per nuove guerre. «Lo sviluppo
demografico, il riscaldamento dell’atmosfera, l’aumento dei veleni chimici
nell’acqua, l’erosione del terreno, l’assottigliarsi dello strato di ozono, la
diminuzione delle risorse alimentari, la riduzione della varietà delle specie:
tutti questi fenomeni non possono che creare una situazione nella quale si
verificheranno delle catastrofi ecologiche. Esse provocheranno quasi
inevitabilmente lotte di spartizione.[37]»
Se
la difesa dell’ambiente giocherà un ruolo sempre più importante in politica
estera, le conseguenze di questo mutamento si vedono già nelle lotte interne
per il potere. Infatti Hösle prende in considerazione il dispiegamento odierno
dei partiti politici in riferimento alle questioni ecologiche. In linea generale, troviamo forze legate al
vecchio paradigma economico caratterizzato dal pensiero quantitativo, opposte a
forze che mirano a una trasformazione della società industriale in senso
ecologico. Attraverso la disamina
attuata da Habermas delle tradizionali categorie politiche di “destra” e
“sinistra”, “reazionari”, “conservatori” e “progressisti”, Hösle mostra come
siano cambiati i rapporti in campo, spesso seguendo il principio de “il nemico
del mio nemico è un mio amico”.
In
altri termini, alle soglie del nuovo paradigma dell’ecologia, si formeranno nuovi
raggruppamenti amico-nemico, definiti in base a valori e interessi comuni sul
lungo periodo: la natura (priva di diritti nella filosofia moderna classica), le
generazioni future, gli abitanti del Terzo Mondo. E se il trionfo della razionalità
rispetto allo scopo è stato, per Hösle, il più grande errore della storia
politica e spirituale dell’età moderna, è sempre più chiaro che «in un prossimo
futuro la questione ecologica acquisterà necessariamente un grande rilievo
politico.[38]»
Arrivato
a questo punto, il professore italo-tedesco, espone le conseguenze politiche
della crisi ecologica, facendosi portavoce di quella che definisce “una Realpolitik ecologica”, diametralmente
opposta al moralismo politico. «Abbiamo bisogno di una Realpolitik ecologica, perché soltanto a una politica di questo
genere è dato di conseguire risultati concreti: per un bizzarro ribaltamento
dialettico, l’enunciazione di ideali sublimi ma irrealizzabili può avere come
unica conseguenza la conservazione dello status
quo.[39]»
La sua analisi è impegnata su tre fronti: riorganizzazione economica, politica
interna e relazione internazionali.
Per
quanto riguarda il primo punto, Hösle tenta di avvalorare l’ipotesi di un Green Capitalism, ovvero di un’economia
ecologico-sociale di mercato. La sua strategia è fare leva sull’egoismo tipico
del capitalismo in funzione di una conversione ecologica del sistema
produttivo. Per ottenere ciò, secondo l’autore è necessario modificare le “condizioni
generali” dell’apparato industriale, entro cui lo spirito neoliberale possa così
muoversi secondo precise regole ‘ecosostenibili’, diremmo noi. Il compito dello
Stato è allora quello di circoscrivere uno spazio delimitato dove la mano
invisibile possa muoversi, incrementando la logica del profitto con un
ragionevole criterio di sopravvivenza. Nel dettaglio, la proposta di Hösle è
l’attuazione di una riforma tributaria, cioè un sistema di tasse ecologiche
tese alla salvezza dell’ambiente, che ha il pregio di unire lo sprono dell’utile
personale a un principio morale. La riforma dovrebbe essere però compensata da
sgravi fiscali in altri ambiti per le aziende; necessiterebbe di una trasformazione
graduale; comporterebbe l’abolizione delle sovvenzioni statali (in molti casi
mere azioni riparatrici per conservare lo status quo). In questo senso
l’economia politica, oltre a definire le condizioni generali adeguate al
mercato, deve intervenire nella formazione di imprenditori “verdi”, consapevoli
dei rischi a lungo termine della crisi ambientale[40]. Mediante un’economia
ecologico-sociale di mercato, per il filosofo, è possibile arginare la disoccupazione
di massa e la distruzione dell’ambiente, i due mali più gravi dello Stato
sociale moderno.
Hösle
mette in luce anche le obiezioni che si possono muovere alla riforma. In primo
luogo, il pericolo di ingiustizia sociale derivante dal fatto che inquinare, ad
esempio, diverrebbe un privilegio dei ricchi. L’autore ribatte però che per
scongiurare una catastrofe naturale saranno necessarie delle limitazioni frugali
aldilà delle invidie personali. Inoltre, si potrebbero prevedere dei sussidi
economici dello Stato sociale a tutela dei più deboli. In secondo luogo, la
riforma nuocerebbe le aziende sul piano della concorrenza internazionale. Per
ovviare a questa problematica Hösle preme sulla priorità di incrementare gli accordi
internazionali, evitando forme di protezionismo e la chiusura dello Stato
mercantile (anche se istituire dogane ecologiche potrebbe risultare utile).
Insomma, «nell’era della crisi ecologica il fatto che vi sia un’economia
mondiale cui però non corrisponde uno Stato mondiale è particolarmente
pericoloso.[41]»
In
seguito il ragionamento di Hösle si sposta su questioni di politica interna,
anche se riconosce che sarà fondamentale in questo caso la pressione che la
società riuscirà a esercitare verso i reggenti: «L’inerzia dei politici dà
adito al timore che si farà poco, a meno che un numero sempre maggiore di
cittadini ben informati e caparbi non sottoponga proposte concrete ai politici
e agli amministratori responsabili.[42]» Per prima cosa comunque,
egli appoggia l’idea della famiglia di piccole dimensioni: occorre limitare il
diritto di avere figli, attraverso la libera scelta o tramite la coercizione
dello Stato. Per questo serve un uso assennato di pratiche quali
anticoncezionali e sterilizzazione, anche se egli si dichiara per ragioni
morali contrario all’aborto. Oltre a ciò, l’autore sancisce l’obbligo delle
istituzioni di informare l’opinione pubblica circa le problematiche ambientali.
Lo Stato di diritto sociale e democratico, dichiara, deve diventare uno “Stato
ecologico” e, di conseguenza, la conservazione del pianeta e i diritti delle
generazioni future devono diventare un obbligo per la filosofia dello Stato.
Infatti, la possibile distruzione dell’umanità o il pericolo di catastrofi
naturali sono sintomi di una impellente emergenza politica, che gli enti di
diritto pubblico devono farsi carico per la tutela dell’ambiente. La
conservazione dei fondamenti naturali della vita è d’altronde la condizione
necessaria della sopravvivenza dello Stato di diritto.
Per
tale motivo è necessario correggere la tradizionale bipartizione giuridica
persone-cose, che riflette la dicotomia cartesiana res cogitans/res extensa.
Viceversa, è importante che anche il regno dell’organico acquisti dignità
ontologica in virtù del valore intrinseco degli animali, degli ecosistemi, dei biotopi,
delle specie e, infine, dell’uomo stesso. Parimenti, bisognerebbe revisionare
il concetto di proprietà, mediante un aggiornamento della nozione fichtiana di
proprietà basata sull’uso che preveda proprietari parziali di un bene comune.
Diversamente dalla concezione hegeliana, fondata sulla proprietà illimitata di
una singola struttura psichica, che soggiace all’ideale di autonomia della
moderna soggettività borghese. Nel concreto c’è bisogno quindi di leggi a tutela
delle risorse rinnovabili quali il mare o la foresta pluviale, come recita il
noto mantra per cui «la Terra ci è solo stata data in prestito dai nostri
figli». Un ulteriore scottante problema concerne invece lo smaltimento dei
rifiuti, specialmente nella “società usa-e-getta” del Primo Mondo. Per
risolvere tale dilemma si potrebbe pensare, afferma Hösle, a una separazione
tra contenitore (che resta di proprietà del produttore) e contenuto (alla mercé
del consumatore). Ad ogni modo, per lui bisogna rivedere il concetto di
responsabilità, avanzando l’ipotesi di una diritto penale ecologico.
Scendendo
più in profondità nel discorso, egli propone la figura di un tutore, come
previsto dal diritto civile, per proteggere gli interessi delle generazioni
future e della natura, facendo progredire la lotta per la conquista della
democrazia. A tale proposito, dovrebbe rientrare nella Costituzione la
salvaguardia dell’ambiente come fine dello Stato. Inoltre, alla Corte
Costituzionale dovrebbe spettare una particolare competenza legislativa (seppure
in casi eccezionali, per non minare il principio della separazione dei poteri).
Insomma, le vicende ecologiche devono divenire faccende dei tribunali amministrativi,
penali e civili, per cui servono anche nuove competenze dei giudici.
A
livello nazionale, risulta impellente per i Governi rivalutare il Ministro
dell’Ambiente, per esempio potenziandone il bilancio; l’autodisciplina del
lusso e un’adeguata formazione della classe dirigente rappresentano altri
essenziali correttivi. A livello locale,
l’amministrazione della casa e della città deve orientarsi verso una urbanistica
in armonia con la natura, tramite un approvvigionamento energetico decentrato,
il riutilizzo dei rifiuti e una riconversione dell’agricoltura. Il grattacielo
e la metropoli sono per l’autore il simbolo della negazione astratta del limite
e della misura, tipica dell’età contemporanea.
E
se l’odierna democrazia liberale non risulta all’altezza di tutto ciò, Hösle
ammette anche la possibilità di “provvedimenti straordinari”, mettendo in luce
l’ambiguità del rischio di guerre ecologiche o il pericolo di una eco-dittatura.
«Ritengo che un’ecodittatura, anzi una lotta furibonda tra varie ecodittature
per la spartizione delle ultime risorse […] costituisca un pericolo
assolutamente reale, e proprio per questo ritengo che la rapida introduzione
delle riforme necessarie sia un obbligo morale imprescindibile.[43]». Ancora, «per i paesi
del Primo Mondo poche cose sarebbero moralmente più umilianti di un intervento
militare nelle loro ex colonie al fine di salvaguardare l’ambiente; tuttavia mi
sembra che non si possa negare, almeno a istituzioni internazionali, il diritto
di muovere simili guerre ecologiche.[44]»
Con
ciò arriviamo alla sezione di politica estera, in cui il pensatore parla di una
politica ambientale delle relazioni internazionali, un “Piano Marshall per la
salvezza dell’ambiente”. Hösle afferma: «In seguito alla crisi ecologica
l’istituzione di enti internazionali dotati di un reale potere coercitivo ha
assunto un carattere d’urgenza che finora essa non rivestiva.[45]» A livello globale,
infatti, l’ideale kantiano dello Stato universale per attuare l’idea di diritto
deve concretizzarsi nell’economia mondiale, e nella cooperazione tra Stati
circa le armi atomiche e la crisi ecologica. Le questioni del Terzo Mondo e
dell’asincronia dello sviluppo hanno a che fare con la colonizzazione e con la
distruzione dell’ambiente; il problema dell’eurocentrismo però si scontra pure con
le classi dirigenti corrotte del sud del mondo. Occorre perciò estendere la
teoria stoica della oikeiosis,
offrendo assistenza ai paesi in via di sviluppo e limitando il principio di
sovranità dell’occidente, espressione del dominio universale della soggettività
moderna. Si avverte dunque l’esigenza di un contrattualismo tra paesi ricchi e
poveri.
Per
concludere, alla luce delle analisi di Jonas e Hösle, mi sembra che una valida
soluzione per arginare la crisi ambientale sia quella di coniugare la nozione
di Cura che il primo individua nel rapporto tra genitori e figli, con quella di
oikos del secondo. La cura della casa
ci permette in definitiva di passare dal “benessere” della Società dei Consumi
a un reale ben-essere psicofisico, in cui l’uomo ritrova il fondamentale equilibrio
con la terra che lo sostiene.
[1] H. Jonas, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica,
trad. it. di P. Rinaudo, a cura di P.P. Portinaro, Einaudi, Torino, 1993; V.
Hösle, Filosofia della crisi ecologica.
Etica e politica per una nuova responsabilità collettiva, trad. it. di P.
Scibelli, Einaudi, Torino, 1992
[2] V. Hösle, Filosofia della crisi ecologica, op. cit., p. 9
[3] H. Jonas, Il principio responsabilità, op. cit., pp. 24-26
[4] V. Hösle, Filosofia della crisi ecologica, op. cit., p. 63
[5] Ivi, p. 29
[6] Ivi, p. 28
[7] H. Jonas, Il principio responsabilità, op. cit., p. 232
[8] Ivi, p. 188
[9] V. Hösle, Filosofia della crisi ecologica, op. cit., p. 85
[10] Qui il bersaglio polemico di Jonas
è evidentemente Ernst Bloch, «enfant
terrible dell’utopismo» e autore de Il
principio speranza, al quale il primo intende contrapporsi. Bloch, sulla
scia dell’utopismo marxista, sognerebbe appunto «un’età dell’oro come paradiso del tempo libero», emancipato
dal regno della necessità (cfr. p. 248-269).
[11] H. Jonas, Il principio responsabilità, op. cit., p. 221
[12] Ibid.
[13] V. Hösle, Filosofia della crisi ecologica, op. cit., p. 139
[14] Ivi, p. 140
[15] H. Jonas, Il Principio responsabilità, op. cit., p. 38
[16] Ivi, p. 16
[17] Ivi, p. 14
[18] Attualmente non vi è un giudizio
unanime neppure sull’effettivo ruolo prometeico dell’uomo nella natura, come
dimostrano i dibattiti circa i fattori antropogenici dei cambiamenti climatici.
A tale proposito riporto però una frase significativa di Jonas sul «cammin
facendo, finché forse sarà troppo tardi» (p. 38): «La profezia di sventura è
fatta per scongiurare che si verifichi quanto è temuto; sarebbe il colmo
dell’ingiustizia deridere in seguito gli allarmisti con l’argomento che in
fondo non è poi andata così male; l’aver torto sarà il loro merito.» (p. 150)
[19] H. Jonas, Il principio responsabilità, op. cit., p. 122
[20] Ivi, p. 192
[21] Ivi, p. 30
[22] Ivi, p. 182
[23] Ivi, p. 192
[24] Ivi, p. 185
[25] Ivi, p. 187
[26] Ivi, p. 185
[27] Ivi, p. 190
[28] Ivi, p. 191
[29] Ivi, p. 193
[30] Si segnala la cattiva traduzione
dell’aggettivo tedesco «totaler», che
in italiano significa letteralmente “totale”. Ciononostante, come osserva
giustamente Pier Paolo Portinaro nell’introduzione del saggio, resta ad ogni
modo problematica “l’evoluzione autoritaria di dittature ecologiche”.
[31] H. Jonas, Il principio responsabilità, op. cit., p. 188
[32] Ivi, pp. 192-193
[33] Ivi, p. 220
[34] Ivi, pp. 230-232
[35] V. Hösle, Filosofia della crisi ecologica, op. cit., p. 18
[36] Ivi, p. 29
[37] Ivi, p. 19
[38] Ivi, p. 20
[39] Ivi, p. 167
[40] A pag. 124 Hösle postula che il diritto
alla vita delle generazioni future è più fondamentale del diritto a un posto di
lavoro.
[41] Ivi, p. 126
[42] Ivi, p. 165
[43] Ivi, p. 168
[44] Ivi, p. 164
[45] Ivi, p. 156
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