In seguito ai tremendi episodi parigini,
da più parti si è levato l’appello a non lasciarsi travolgere dalla strategia della
paura dei terroristi ma, al contrario, di “tornare a una vita normale”. Ma che cos’è la normalità? Forse
mai nella storia una parola è stata così bizzarra come “normalità”. Il razzismo
scientifico ha imposto dei criteri “oggettivi” per dividere i sani o normali
dai malati o strani. Per i medici nazisti i normali erano gli appartenenti alla
razza ariana. Prima della chiusura dei manicomi, i pazzi erano i non-normali. Insomma,
parlare di normalità vuol dire in ogni caso tracciare una linea di demarcazione
più o meno netta, il più delle volte arbitraria, rispetto a uno stato di cose
che si giudica “regolare”.
Certo, va detto che la reazione per
tornare, se non altro, a una quotidianità appare più che legittima.
Effettivamente, come è stato giustamente ripetuto, i terroristi vogliono
estirpare le radici della cultura occidentale per imporre un perpetuo stato di
emergenza, un regime illiberale, antidemocratico, assurdo. Pertanto, se i
cittadini delle città europee rispondono uscendo ancora di casa per svolgere
quelle attività così ordinarie come andare allo stadio, assistere a uno
spettacolo in un teatro o frequentare un caffè, ciò significa resistere al
tentativo oscurantista dei fanatici.
Tuttavia, bisogna domandarsi di
nuovo che cosa s’intende per normalità… Le catastrofi sono il luogo in cui ci
si volta indietro per osservare obliquamente, da un altro punto di vista, le
tendenze che hanno portato alla rovina. D’altra parte, in greco antico, “catastrofe”
indicava appunto la scrittura dell’ultimo verso di un poema epico, in cui si
decidono le sorti dell’eroe. Essa rappresenta perciò il punto di svolta del
dramma, il cambio di rotta, onde evitare un finale tragico. La strage di Parigi
è stata evidentemente una catastrofe, ma sarebbe opportuno un esame (di
coscienza?) più profondo, al di là delle sole cause strutturali – politiche,
militari, ideologiche ecc. – della vicenda. Forse, proprio certe nostre abitudini
“occidentali” sono all’origine del radicalismo islamista. Forse, quella che
consideriamo la normalità nasconde nel suo seno il virus della tragedia, il
parassita in potenza che, a nostra insaputa, cresce dentro il corpo malato
della nostra società del “benessere”. Forse, il vuoto entro cui si è instaurato
l’Isis non è semplicemente un buco di natura politica ma, viceversa, è l’esito
di uno scavo dell’anima perpetuato dalla civiltà dello spreco – e non solo
dalle trivellatrici di petrolio. Forse, tale voragine è il lavoro del tarlo di
un’etica del lavoro divenuta immorale, che vede le persone soltanto come dei
consumatori, delle macchine per produrre e spendere. Forse i giovani si sentono
inutili, senza futuro, disorientati e, quindi, cercano un motivo per dare un
senso alla loro sopravvivenza inerziale. Cercano uno scopo, anche suicida, per
riempire il loro spirito sottovuoto. Privi di ideali, essi si accontentano di ideologie,
che li guidino verso un qualcosa.
Senza valori e punti di riferimento, si aggrappano disperatamente a una bussola
esistenziale. Non importa se questa si chiami Corano, Bibbia – al tempo dei
crociati –, droga o Hitler; vogliono qualcosa per poter urlare al mondo: “E’ la
mia battaglia”. La loro guerra straordinaria per uscire dalla banalità di un
esistenza normale.
Sia chiaro, tutto ciò non
significa affatto rigettare integralmente le nobilissime conquiste della
democrazia occidentale. Essa è stata realmente la patria in cui sono sorti ideali
e valori che costituiscono dei grandi progressi per l’umanità e che, tutti
insieme, dobbiamo custodire per il futuro. Allo stesso modo, però, occorre
anche un ripensamento radicale del passato e del presente dell’uomo, per dare
di nuovo un senso alla nostra storia.
Nessun commento:
Posta un commento