Wall-e è un cartone animato distopico: un’altra perla inanellata
dalla Pixar in quel filone di cartoon per adulti molto pregevoli. Il
protagonista è un piccolo robottino che si aggira tra i resti di un mondo futuro
(prossimo?) muto e devastato, ricoperto da grattacieli di immondizia, in
compagnia di una blatta che lo segue ovunque. E’ un automa addetto alla rimozione
dei rifiuti, ma dotato di una Spiritualità Intelligente, potremmo dire, contrassegnata
da uno sguardo melanconico. Wall-e sembra infatti provare compassione per gli
oggetti che non servono più, e adora la scena d’amore di un vecchio film in
videocassetta – simbolo di un passato ormai estinto. La sua solitaria rutine è
spezzata dall’arrivo di Eva, robot avanguardistico e super efficiente, inviato
da un’astronave con la missione di cercare forme di vita sulla Terra. Dopo una
fredda e scontrosa indifferenza da parte di Eve, il ghiaccio si scioglie grazie
al calore di Wall-e, che la accudisce con cura anche se lei non è cosciente. I
due personaggi finiranno per volersi bene: a dir poco suggestiva la scena che
riprende la danza luminosa dell’innamoramento nel buio siderale, come due
insetti. Ma essi aiuteranno anche gli esseri umani a comprendere l’importanza
del contatto fisico tra persone, oltreché con la realtà materiale, in un
universo parallelo ridotto a touch screen.
Oltre al riferimento al cinema,
la musica jazz produce un effetto seppia retrò, peraltro straniante, dal
momento che la storia è ambientata nel futuro. Altro aspetto importante della
pellicola è il rapporto “moderno” che si instaura tra Wall-e ed Eva. In quanto
robot, ovviamente loro non hanno una sessualità vera e propria. Tuttavia, i
propri nomi ci suggeriscono che il primo sia maschio e la seconda femmina. La cosa
interessante, però, è che essi non possiedono gli attributi stereotipati
tradizionali tipici, per esempio, dei vecchi cartoni Disney. Infatti, Wall-e ha
ben poco di “maschio”: svolge lavori domestici come un perfetto casalingo; ha
una personalità sensibile, romantica e affettuosa; a volte è un pasticcione. L’opposto
di Eva: decisa e autorevole – in poche parole, una che porta i pantaloni.
Vita, terra, indifferenziato:
sono le parole chiave con cui si può riassumere il capolavoro d’animazione del
regista Andrew Stanton. La prima è simboleggiata da una fragile pianticina,
cresciuta chissà come in mezzo alle scorie post-apocalittiche della compagnia
“Buy n Large”. Essa rappresenta l’unica forma di vita sulla Terra, in grado di
riprodursi grazie alla fotosintesi clorofilliana. La specie umana, invece, è
composta da passeggeri sovrappeso a bordo di una nave da crociera che viaggia
nell’universo. Gli uomini, costantemente seduti e con gli occhi vissi su un
monitor, hanno ormai quasi del tutto perduto l’uso degli arti, i cui muscoli
sono atrofizzati (ci si chiede come nascono i bambini). Insomma, un corpo senza
organi, per dirla à la Deleuze. Gli esemplari Homo Sapiens rimasti sono serviti/schiavizzati da un complesso
sistema di computer che, su ordine del capitano del vascello spaziale (o meglio
del timone smart, versione 2.0 del
noto Hall di 2001: Odissea nello spazio
di Stanley Kubrick), svolge ogni attività “vitale”. Le macchine, di fatto,
regolano ogni momento della giornata di questi individui: dal cibo (beveroni
ingeriti con cannuccia) alla toilette personale.
La terra è l’elemento primordiale
per eccellenza, secondo solo all’acqua, da cui nasce ogni cosa. Ma all’interno
della nave da crociera intergalattica, asettica quanto cibernetica, essa è
considerata dalle macchine un “agente contaminante” da pulire immediatamente. E
quando il capitano acquisisce informazioni ulteriori su questa strana sostanza,
la curiosità verso un sapere e una dimensione (l’agri-cultura) dimenticati, lo
porta a scoprire il significato di altre esperienze scomparse quali “fattoria”,
“festa rurale” ecc. Tornare alla terra, è il messaggio principale del film:
sporchiamoci nuovamente le mani e camminiamo sul suolo.
Indifferenziato è, prima di
tutto, il genere umano: una massa omologata dagli annunci di un altoparlante
che invita/comanda di vestirsi di «blu, il nuovo rosso». Il signore del proprio
ex pianeta, ormai defenestrato (auto-de-territorializzato) dal suo regno, ha
smarrito la linfa del pluralismo o alterità culturale – oltre che la
biodiversità – cosicché si sposta sopra al suo “trono”, a cui è già stato
tracciato un percorso obbligato. Tra l’altro, anche le macchine sbagliate,
ossia difettose, potremmo dire “non allineate” alle direttive per cui sono
state programmate, sono rinchiuse in speciali manicomi per robot. Esse, alla
stregua degli emarginati “fuori uso” o disfunzionali di Herbert Marcuse,
aiuteranno Wall-e e Eva nella loro insurrezione/ammutinamento finale. In
seconda battuta, indifferenziata è la spazzatura che ha costretto l’umanità a
lasciare la propria dimora e che, inoltre, Wall-e smista con estrema attenzione
e dedizione, andando a raccattare le cianfrusaglie inutili del passato. Come
non pensare, a questo punto, a Italo Calvino il quale, urbanista di castelli di
carte, durante il suo tour delle città invisibili, fa tappa a Leonia. Cinta
all’interno di mura costituite da rifiuti, ogni giorno questa polis riparte da
zero: al mattino tutto è nuovo, mentre le robe vecchie vengono gettate via. Aggiornamento
costante e download quotidiano[2].
Forse, in qualche angolo sperduto
di universo – magari, custodita proprio nel poco terriccio dentro a un vecchio
scarpone finito in discarica – si nasconde una pianticella color verde speranza
che, come la luce smeraldo del faro de Il
grande Gatsby, offre la forza al protagonista per continuare risalire la
corrente della vita. Come la stella polare che guida i naviganti durante la
traversata sulle onde del mare tumultuoso della liquidità postmoderna, offrendo
loro orientamento nel freddo buio della nera notte, pur nell’incertezza di
trovare la terraferma alla fine del viaggio intergalattico: un senso alla storia e una direzione a
un’umanità aliena e alienata. O, se non una pianta, per lo meno un seme. Il
film, infine, è anche un ottimo invito a riparare, invece di buttare via e
sostituire col nuovo. L’avventura umana ricomincia; anche se, questa volta, con
l’aiuto dei robot. L’arte, come mostrano i titoli di coda, può nuovamente
raccontare la vita.
P.S. Per una lettura originale del tema, si veda Gianluca Cuozzo,
Filosofia delle cose ultime. Da Walter
Benjamin a Wall-E, Moretti e Vitali, Bergamo, 2013.
[2] I.
CALVINO, Le città invisibili,
Einaudi, Torino, 1972.
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