«Ma
che cos’hai nella testa?». Quante volte ci hanno fatto questa domanda, specialmente
durante la nostra giovinezza! Cosa c’è nella testa di una ragazzina di 11 anni:
è ciò che cerca di mostrare questo assoluto capolavoro d’animazione della
Pixar. “Inside out” è infatti in gran parte ambientato all’interno
dell’apparato biopsichico della protagonista, di nome Riley, figlia unica di
una coppia appartenente alla middle class
statunitense. La struttura architettonica del film si regge, in particolare, su
uno schema a specchio, potremmo dire, in cui le scene esterne (situazioni di
vita comune) vengono osservate da un punto di vista decisamente inusuale, ossia
da dentro la nostra macchina corporea e spirituale, appunto.
I
creatori di questo cartone animato hanno davvero messo in moto tutta la loro
bravura creativa, immaginando in qualche modo com’è fatto e come funziona il
nostro io, sia superficiale che profondo. Il risultato è un manuale di
psicanalisi a fumetti, pieno di forme e figure bizzarre e suggestive. Per
esempio, la memoria a lungo termine è rappresentata come un enorme database,
dove vengono collocati i ricordi che meritano di essere conservati nel tempo, paragonati
a delle biglie colorate. Un variopinto archivio delle esperienze
dell’esistenza, dunque, associate a precisi sentimenti.
I
personaggi che animano il nostro ego, nel dettaglio, sono cinque: Gioia (simile
a una stella lucente e dorata), Rabbia (mattone rosso fuoco), Disgusto
(broccolo verde acidulo), Paura (nervo viola pallido) e Tristezza (lacrima blu
e ingombrante), caratterizzati da gesti e atteggiamenti tipici delle emozioni
che impersonano. Essi sono per così dire le maschere della commedia dell’arte
che ogni giorno viene recitata sul palcoscenico della nostra soggettività. Il
postmoderno, d’altronde, ci insegna che l’identità è nient’altro che una
costruzione di stampo borghese: il soggetto propriamente non agisce bensì
subisce flussi di forze che lo attraversano e lo plasmano continuamente. In
questo modo, l’individualità tanto esaltata dalla modernità si scopre un reale subjectum: assoggettato da
sovrastrutture e sottostrutture impersonali. Pertanto, la camicia di forza sociale
brevettata dalla moralistica e spesso ipocrita etica della borghesia viene
lacerata. A partire dai cosiddetti “maestri del sospetto”, secondo la felice
espressione coniata da Paul Ricœur. Nietzsche, Marx e Freud svelano la falsa
coscienza dell’epoca moderna, fiutando nell’aria quei “grandi racconti”
ideologici denunciati poi ufficialmente da Jean-François Lyotard, il teorico
del postmodernismo per eccellenza.
Proprio
Sigmund Freud è uno degli autori chiamati in causa in “Inside Out”, cosparso di
sottili riferimenti letterali e filosofici, che corrispondono a puntuali (anche
se impliciti) riferimenti d’un certo spessore. Per il neurologo austriaco Ego,
Es e Super-io costituiscono una sorta di iceberg interno alla nostra anima,
tripartita in inconscio, coscienza e preconscio. Il subconscio è qui quasi un
subcontinente che alberga la nostra selva interiore, in cui la cinepresa
virtuale stana i forestieri che vi abitano. Tali temi sono stati trattati
prolissamente dai filosofi esistenzialisti, per esempio, e qui diventano –
direi magicamente – un caleidoscopio di immagini e metafore incantevoli.
Come
sappiamo, Freud considerava i sogni la via maestra per decifrare il linguaggio ermetico
del nostro Io più abissale. Nel lungometraggio analizzato l’universo dei sogni
compare sotto forma di cinema onirico: una sala situata dietro ai nostri occhi,
in cui il nostro cervello proietta sul maxischermo storie fantastiche o incubi
terrificanti. Di magistrale inventiva sono anche le isole che compongono
l’arcipelago della nostra personalità: famiglia, amicizia, il luna park dello
svago ecc., collegati alla terraferma, vale a dire la torre di comando del
sistema nervoso centrale. Il film riesce inoltre nella pressoché impossibile
impresa di farci commuovere per una cosa inesistente. La scomparsa in
dissolvenza dell’amico immaginario della protagonista è assolutamente
struggente, per lo spettatore di ogni età.
Ancora,
nell’opera suddetta vediamo in un certo senso che cosa succede dentro di noi quando
eventi esterni interferiscono sulla nostra routine, scombussolando riti e ritmi
della quotidianità. Altresì degno di nota è il disegno del regno
dell’immaginazione, abitato da personaggi originali e rocamboleschi. Al
contrario della dimensione monocromatica logico-razionale, in cui le cose
assumono l’aspetto freddo di figure geometriche distorte. Come non pensare
allora al celebre saggio del 1964 di Herbert Marcuse (uno degli esponenti più
noti della Scuola di Francoforte, nonché ispiratore della contestazione
giovanile del Sessantotto), L’uomo a una
dimensione. Riduzionismo neopositivista, pensiero utilitaristico,
funzionalista e strumentale; ossia il fondamento teorico che mostra come gli
adulti omologati dalla globalizzazione dei consumi tendono a ragionare, cioè mediante
categorie argomentative che livellano la complessità della realtà, sezionandola
e analizzandola, anatomizzandola e semplificandola eccessivamente.
Esplorando
lo spirito umano, quindi, attraverso un viaggio nei luoghi reconditi del
carattere di una ragazzina, che porta in sé un pezzo di ciascuno di noi, per
scoprire i meccanismi della sua e della nostra psiche. Alla ricerca della
galassia contenuta nel nostro microcosmo interiore: un cabaret tragicomico, una
carovana di tipi eccentrici che mettono in scena le turbolenze e le amenità
della vita umana.
La
morale di questa magnifica favola postmoderna è illuminante ed edificante,
raccontando il Bildungsroman della
graduale maturità del nostro passaggio terrestre. Alla fine del film, nel
grande magazzino dei ricordi si forma infatti una biglia ibrida, poiché Gioia e
Tristezza si fondono in maniera alchemica per dare vita a una sorta di tao in
cui il blu e il giallo si abbracciano, generando una tonalità sfumata, che
rompe quegli schemi consolidati che ripartiscono nettamente le emozioni secondo
canoni precisi. I due stati d’animo, all’inizio mal conciliabili, scoprono
insieme la ricchezza dell’alterità, fondamentale nella progressiva costruzione
di strategie efficaci per proseguire l’eroico gioco della vita, dove le lacrime
sono il frutto sia del pianto sia della risata, dove «gioia e dolore hanno il
confine incerto», come canta Fabrizio De Andrè nella poetica ballata “Ave
Maria”.
Concludendo,
aspettiamo tutti impazienti “Inside Out 2”, per seguire l’arduo passaggio dalla
giovinezza all’adolescenza di Riley, magari con l’arrivo di un fratellino o di
una sorellina e, perché no, col ritorno di Bing Bong: l’indimenticabile amico
immaginario dall’aspetto d’un gatto con proboscide, fatto di zucchero filato rosa
che, quando è triste, piange caramelle.
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