Ecco la schizofrenia del virtuale mondo della
finanza al tempo
dell’ultracapitalismo. Il lungometraggio The Wolf of Wall Street di
Martin Scorsese è in ultima istanza un western ambientato agli esordi del WWW: da
World Wide Web a World Wild West. Dove l’irrazionalità delle transizioni
finanziarie iperliberiste è spiattellata sulle pupille dello spettatore a colpi
di bolle speculative su valute e valori – i nuovi proiettili della Borsa; i
nuovi bubboni della peste occidentale postmoderna. Dove la “growthmania”
di un sistema economico non reale è la legge selvaggia del business-man/cow-boy
che alleva mandrie di consumatori paranoici. Dove l’obiettivo tipicamente
borghese di fare soldi è perseguito non tanto per il piacere della ricchezza in
sé, quanto piuttosto per il gusto della competizione, del rischio, dell’azzardo
‒ il rodeo sul toro furioso simbolo di Wall Street come, in definitiva, uno
sport estremo. Detto altrimenti, il film appare una specie di horror demenziale
in cui emerge tutta la pazzia della logica del profitto a tutti i costi in un
cocktail di alcol, droga e orge.
La pellicola, del 2013, è tratta dall’omonima autobiografia di Jordan Belfort, spregiudicato agente di
cambio newyorkese impersonato qui da Leo Di Caprio. Il protagonista è infatti un
intermediario finanziario cocainomane e nevrotico, attivo nella Grande Mela a
cavallo tra gli anni ’80 e ‘90 del XX secolo. Egli incarna il perfetto yuppie
avido, ambizioso ed edonista; il self
made man che, come un Robinson Crusoe postmoderno, sbrana quotidianamente le
proprie prede nella jungla d’asfalto e cemento della metropoli statunitense,
affidandosi però ai confort dei paradisi fiscali.
In seguito a una crisi finanziaria, Belfort istituisce un’agenzia di
brokeraggio che in breve tempo gli regala pecunia, femmine, amici/nemici e un
vario listino di stupefacenti. Il suo ufficio si trasforma così in un parco
divertimenti esuberante, un quotidiano carnevale dei folli governato da cinico
isterismo; un bordello allestito per feste in maschera dove buffoni e altre
oscene attrazioni circensi aumentano il livello di baldoria delirante. Ma il
suo allucinante regno dorato cade a pezzi, rosicchiato a poco a poco da un’inchiesta
dell’FBI. L’esito sconvolgente,
tuttavia, è che una volta scontata la detenzione, Jordan Belfort intraprende
una nuova spumeggiante carriera come apprezzato conferenziere, tenendo seminari
sulle strategie di marketing.
Tra una puntata di “Chi vuol esser milionario?”, una partita a Monopoly e la decadenza famigliare descritta ne I Buddenbrook di Thomas Mann, l’opera cinematografica in questione svela
perciò certe mostruose manie ossessive dei Paperon de’ Paperoni della modernità
liquida, come direbbe il sociologo polacco Zygmunt Bauman. Gli odierni ricercati dagli sceriffi
dovrebbero dunque essere alcuni brokers e traders che giocano
d’azzardo puntando e bluffando su titoli e azioni, in questo nuovo elogio della
follia, con buona pace di Erasmo da Rotterdam. Non è infatti un azzardo dire
che le sorti di gran parte del mondo si giocano oggigiorno a Wall Street, la
piazza affari del pianeta dove si specula su materie prime come cereali o
legumi, in duelli virtuali e a volte mortali per chi si trova disarmato
dall’altra parte del globo. Nella nostra S.p.A. (società per azioni)
postmoderna, tutto rischia effettivamente di diventare mercanzia da
compravendita, di tendenza o fuori moda, cui attribuire un prezzo, inserire in
un listino e mettere in vetrina.
Allora The Wolf of Wall Street,
oltre a essere una commedia nera tremendamente drammatica, è pure un gangster
movie contemporaneo che ritrae la malvivenza di delinquenti invisibili, assurti
però al ruolo modelli di vita invidiati dalle masse. Il film, infine, riprende
lucidamente l’esito surreale in cui il postmoderno
consumistico-tecnocratico ci ha pilotati: una crescita produttiva esponenziale,
un capitalismo al quadrato, quasi un videogioco totalmente staccato dal Pianeta
Terra. La vita 2.0 è appunto una second life illimitata ma scontata,
come un aperitivo all inclusive e all
you can eat dove liquidi solo il bere. Poco male se il mondo gode solo a
metà: tutto sommato, è un offerta imperdibile.
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