sabato 25 luglio 2015

Il realismo politico di Hans Jonas e Vittorio Hösle di fronte alla crisi ambientale




Il titolo di un corso di filosofia politica potrebbe essere “Filosofie della guerra e della pace”: la storia e il futuro della democrazia, minata da totalitarismo e violenza, costituirebbero il suoperno centrale. Nel dettaglio, uno sguardo particolare sarebbe rivolto all’argomento della filosofia politica delle relazioni internazionali. In questa relazione tratterò prevalentemente temi inerenti al rapporto tra uomo e natura, attraverso un confronto critico tra un paio di testi che rappresentano oggi due classici di quella disciplina accademica che si può definire “filosofia dell’ambiente”. La comparazione metterà in luce le principali analogie e differenze che intercorrono fra le opere prese in esame, i loro punti di forza e quelli deboli. Ad ogni modo, esse non esauriscono affatto le posizioni teoriche assunte dai pensatori in riferimento ai problemi ecologici che, specialmente a partire dagli ultimi decenni del XX secolo, hanno interessato sempre di più le riflessioni e i dibattiti dei filosofi occidentali, dato l’allarmante aggravarsi della questione. Nella consapevolezza di tale limite, obiettivo del presente studio è mostrare perché un’analisi sulla condizione instabile della natura nell’epoca contemporanea corrisponde anche a una filosofia della guerra e della pace, incentrata sull’idea di democrazia, con un’attenzione rivolta alla politica delle relazioni internazionali.   



Jonas e Hösle
I libri esaminati sono Il principio responsabilità e Filosofia della crisi ecologica, rispettivamente di Hans Jonas e Vittorio Hösle[1]. Il primo testo esce nel 1979 e rappresenta davvero, come ricorda la dedica che Hösle offre a Jonas nel suo volumetto, una pietra miliare senza la quale «non esisterebbe una filosofia pratica e responsabile della crisi ecologica». Il secondo è uno scritto pubblicato nel 1991, in un periodo in cui la questione ambientale è ormai diventata un problema di primaria importanza, riconosciuto a livello scientifico. Insomma, se Jonas ha svegliato le coscienze, Hösle ha tentato di indirizzarle in maniera maggiormente pragmatica, all’insegna di quel concetto di responsabilità che funge da stella polare per entrambi. Nonostante la disparità cronologica, che costituisce certamente il principale fattore di diversità tra i due, è comunque possibile individuare una serie di affinità rilevanti alla nostra ricerca.
La prima può essere rintracciata nella comune matrice teorica, vale a dire Martin Heidegger (basti pensare alla nozione di Cura in Essere Tempo, ripresa da Jonas nel suo saggio), specialmente quello della post Kehre, con il discorso sulla storia della metafisica come oblio dell’essere e le meditazioni sulla tecnica, sviluppate negli Holzwege (“L’epoca dell’immagine del mondo”, 1938, in Sentieri interrotti) e ne La questione della tecnica (1953). Tuttavia, sia Jonas che Hösle hanno oltrepassato il pensiero di Heidegger, approdando alla dimensione pratica delle problematiche aperte dal “loro” maestro. Come annota Hösle, infatti, «la filosofia della crisi ecologica ha, oltre a una componente teoretica, anche una componente pratica: questo ampliamento di campo, attuato superando il pensiero di Heidegger, è un merito duraturo di Hans Jonas, che vale ad assicuragli un posto tra i grandi filosofi». Ma non è soltanto la sfera morale quella che interessa ai due autori: «E’ inoltre significativo», prosegue Hösle, «che nella filosofia pratica della crisi ecologica di Jonas vengano discusse problematiche che non riguardano solo l’etica, ma anche la filosofia politica; infatti il problema ecologico non si può risolvere con il solo ausilio di principî etici individuali; è inevitabile che le sue conseguenze investano anche la filosofia politica [2]».
            La seconda convergenza riscontrabile riguarda la preoccupazione bioetica per il probabile passaggio dal controllo della natura a quello sociale. Ambedue gli studiosi intravedono il rischio insito nella manipolazione del comportamento degli individui, come una conseguenza della possibilità tecnologica di intervenire liberamente sul corpo delle persone – anch’esso in definitiva facente parte della natura. Jonas, ad esempio, non nasconde i suoi timori dinnanzi al know-how biomedico a disposizione dell’homo faber, fatto di droghe sintetiche che inibiscono il cervello o stimolazioni elettriche sull’appartato nervoso[3]. Da parte sua Hösle, identificando la tecnica moderna come una delle coordinate storico-spirituali a monte della crisi ecologica, evidenzia il ruolo del “mito della fattibilità” nell’ideale totalitario della creazione di un uomo nuovo. Secondo il professore, la volontà di dominio della società, tipica del totalitarismo, è perciò un fenomeno specificatamente moderno, derivante dalla trasposizione del principio scientifico del ‘verum-factum’ sul terreno politico. Ciò sarebbe il risultato della «follia del pensiero quantitativo e oggettivante[4]».  
 I diritti della natura e delle generazioni future possono essere il terzo elemento unificante. Il punto di partenza di entrambi gli scritti è infatti la miopia dell’attuale democrazia, incapace, a causa della sua scarsa lungimiranza, di custodire la vita delle risorse naturali e la stessa sopravvivenza della specie umana. Si impone pertanto la necessità di intervenire politicamente, onde evitare la distruzione del pianeta Terra per mano del potere smisurato della tecnica oggigiorno in possesso dell’uomo. Una soluzione in questo senso è imporre dei limiti all’agire umano, riconoscendo il valore intrinseco del mondo organico in quanto dotato di scopo, oppure semplicemente poiché sostrato fondamentale dell’esistenza dell’umanità.
«Il collasso ecologico del “pianeta azzurro” e la catastrofica situazione del Terzo Mondo», ammonisce Hösle, sono «aspetti inscindibilmente collegati tra loro[5]». Volgere lo sguardo e prestare ascolto ai “dannati della Terra” è allora il quarto punto in comune che si trova leggendo le pagine dei due libri. La faccenda dei paesi sotto sviluppati verte su due fronti: in primo luogo vi è la denuncia a barbare strategie imperialiste di sfruttamento e prelevamento scriteriato di materie prime, là dove la resistenza è minore se non assente del tutto, al fine di soddisfare i bisogni (spesso assurdi) della Società del Benessere. A tale proposito, sempre Hösle osserva causticamente che il rapporto tra Primo e Terzo Mondo si caratterizza per lo più come un saccheggio che «si ammanta di una parvenza di legalità[6]». In secondo luogo, però, vi è il pericolo che queste popolazioni sottomesse per secoli si conformino nel breve o medio periodo allo standard consumistico dell’Occidente, retto da un principio di crescita infinita, logicamente insostenibile per un sistema finito come la Terra.  
            Ecco dunque il motivo per cui sia Jonas che Hösle auspicano la diffusione tra le masse di virtù ascetiche, ossia di una morale improntata su austerità, rinunce e sacrifici che, adottando le parole di Jonas, sarà «volontaria, se possibile, ottenuta con la forza, se necessario.[7]» Occorre una sorta di trasvalutazione dei valori per il filosofo di origini ebraiche, allo scopo di implementare uno “spirito di frugalità”, totalmente estraneo alla mentalità capitalistica[8]. Anche Vittorio Hösle è chiaro nel messaggio: «dobbiamo imparare nuovamente ad amare il limite. Abbiamo bisogno di ideali ascetici.[9]»
            L’urgenza di una conversione etica generalizzata e immediata, per scongiurare l’aberrante ma assai poco fantascientifica ipotesi di un’apocalisse del pianeta, è il presupposto che sta alla base delle considerazioni di carattere istituzionale degli autori. Il realismo politico è in effetti il nesso cardinale che lega i due testi chiamati in causa, inteso appunto come la prospettiva politica da cui visionare strutturalmente la crisi ambientale; l’approccio con cui cercare delle soluzioni efficaci, una volta preso atto dell’inettitudine del governo rappresentativo. Nella sua critica dell’utopismo marxista, infatti, Jonas presenta un paragrafo intitolato “Lo Stato ideale e il migliore Stato possibile”, in cui distingue due tipi di utopia: «L’una è “u-topia” in senso etimologico (in nessun luogo) e appartiene al paese dei sogni del pensiero contemplativo (consacrato all’otium[10]); l’altra, il cui primo grande esempio è fornito dalla “Repubblica” di Platone, è ancor sempre “utopia” nel senso che, pur essendo possibile in quanto stato reale, la sua realizzazione nel fluire confuso delle vicende umane esige una tale convergenza di circostanze fortunate che non si può fare affidamento sulla sua comparsa […]. Tuttavia il modello deve risultare realistico in sé, cioè suscettibile di esistere nel mondo così com’è.[11]» E’ ovviamente questo secondo modello, opposto al prototipo “idealista”, quello a cui egli si ispira per elaborare un progetto di Stato concretamente efficiente dal punto di vista ecologico, anche se non prettamente “morale” in linea di principio. Infatti, Jonas asserisce che «va fatta una distinzione tra due concetti completamente diversi di Stato ottimo o “ideale”: fra quello idealmente migliore senza riguardo per la sua realizzabilità, vale a dire desiderabile in sé e liberamente configurabile in base a un ideale astratto di felicità umana, da un lato, e dall’altro, il miglior Stato possibile nelle condizioni reali, in cui si tiene conto dei limiti della natura e delle imperfezioni degli uomini che sono angeli, ma neppure diavoli.» [12]
Dal canto suo Hösle inaugura l’ultimo capitolo del suo scritto, “Conseguenze politiche della crisi ecologica” nei seguenti termini: «La filosofia politica deve occuparsi di due questioni che per la loro natura vanno rigorosamente distinte. Da una parte essa affronta il problema delle strutture dello Stato ideale; dall’altra tratta la questione molto più impegnativa di come, per mezzo di quali provvedimenti, lo Stato attualmente esistente possa avvicinarsi allo Stato ideale, o almeno, evitare di allontanarsene ulteriormente[13]». Pertanto, data l’emergenza politica che sorge dalla crisi ambientale, «potrebbero rendersi necessari provvedimenti straordinari[14]». In altri termini un buon Stato, vogliono dirci i nostri, non coincide necessariamente con uno Stato buono. Il realismo è di conseguenza la cifra decisiva tramite cui leggere, per i nostri propositi, le due opere citate. Vediamo nel dettaglio in che cosa consistono tali espedienti eccezionali della politica, reclamati e da Jonas e da Hösle.

La buona tirannide di Hans Jonas
In via preliminare, è utile chiarire fin da subito che, come ammette lo stesso Jonas, «l’applicazione pratico-politica […] in generale, come vedremo, costituisce la parte più debole dell’intero sistema, non soltanto sotto il profilo teorico ma anche sotto quello operativo[15]». Effettivamente, l’obiettivo principale a cui mira l’opera del filosofo tedesco è la costruzione sistematica di un modello di etica universalistica, attraverso l’elucubrazione di una dottrina dei principi di stampo aristotelico, basata sul monismo dell’essere. Ciò che preme per Jonas è un nuovo imperativo categorico dopo il tentativo kantiano, che espone in quattro varianti nelle prime pagine del tomo[16]. Tuttavia, tralascerò intenzionalmente la pars teoretica del saggio, per esporre direttamente quella dedicata agli aspetti politici. Parimenti, per ragioni di spazio e in quanto non centrali per i nostri fini, saranno ridotte al minimo le riflessioni sulla critica del marxismo e la conseguente polemica con Ernst Bloch.
La politica, in quanto si occupa delle leggi della città, inerisce secondo Jonas alla dimensione pubblica della responsabilità. Dato che la condizione dell’agire umano, notevolmente potenziato grazie alle innovazioni tecnologiche (per Jonas l’attuale “vocazione” dell’umanità) si è trasformata, sono cambiati anche il raggio e la portata delle azioni antropogeniche. Infatti, adesso le conseguenze della tecnica si ripercuotono in uno spazio e in un tempo enormemente dilatati, investendo perciò anche il piano globale e la sfera del futuro. Gli effetti dell’attore che agisce nel presente non sono più ristretti come nel passato, ossia attinenti alla sola cerchia dei contemporanei, ma coinvolgono ormai anche l’intera popolazione mondiale e quella ancora da venire. Come afferma l’autore: «Nell’immagine che l’uomo coltiva di sé […] egli è sempre di più il produttore di ciò che ha prodotto e l’esecutore di ciò che può eseguire, ma soprattutto il programmatore di ciò che sarà in grado di fare. Ma chi è questo “egli”? Né io né voi: sono l’attore e l’azione collettivi, non l’attore e l’azione individuali, ad essere qui in gioco; ed è il futuro indefinito, molto più che non lo spazio contemporaneo dell’azione, a costruire l’orizzonte rilevante della responsabilità.[17]» In un certo senso, al giorno d’oggi i destinatari delle nostre azioni sono indefiniti poiché non visibili direttamente – lontani nello spazio e nel tempo –, a differenza di quanto accadeva prima, quando essi erano chiaramente riconoscibili e, per così dire, tangibili. Inoltre il nostro potere, ragiona Jonas, si è emancipato quasi integralmente dalla natura, al punto da mettere a repentaglio quest’ultima. Dal momento che l’arco temporale e spaziale dell’attuale responsabilità collettiva si è universalmente ampliato, segue la necessità di una nuova morale. Occorre sostituire l’etica tradizionale, antropocentrica e circoscritta alla prossimità, con una nuova etica globale e “biocentrica”, che prescriva norme improntate alla sopravvivenza dell’intero genere umano e della biosfera.  In questo senso, secondo il nostro, il primo comandamento imposto dal “sì della vita” è che ci sia un’umanità.
            Tuttavia, osserva Jonas, nonostante la gravità dei pericoli antropo-tecnici, spesso tale inquietudine non attecchisce sulle coscienze dei singoli, a causa di quell’indeterminatezza dei destinatari di cui si è parlato sopra, e in virtù del carattere puramente possibile delle proiezioni future (il sapere predittivo ha pur sempre dei limiti teorici[18]). Per cui l’arnese che egli chiama «euristica della paura» (strumento teorico per cui, in assenza di dati certi, vale la priorità della previsione cattiva su quella buona) nella maggior parte dei casi non è sufficiente a far cambiare gli atteggiamenti delle persone. In aggiunta, Jonas si accorge del rischio di un’immoralità dall’alto, come l’eventuale manipolazione bioetica, serva di un freddo funzionalismo sociale, già accenata in precedenza. Di conseguenza, oltre a nuovi imperativi morali individuali, emerge anche l’esigenza dell’intervento pubblico in materia ambientale.
Qui, oltre all’euristica della paura (che, in ultima analisi, risulta comunque inutilizzabile per l’applicazione dei principi della politica, data la sua sostanziale vaghezza scientifica) il filosofo si avvale di un “intuizionismo negativo”, come guida essenziale per scovare non ciò che si desidera, bensì almeno ciò che non si vorrebbe, cioè l’estinzione del genere umano e la perdita della sua dignità. Ora, poiché il destino dell’umanità è intrinsecamente legato a quello della natura – ovviamente da essa l’uomo ricava il sostentamento e le risorse fondamentali per la sua esistenza – secondo Jonas bisogna innanzitutto riaffermare la validità della realtà naturale, passando dalla questione dello scopo a quella del valore in sé della vita e dell’essere in generale, rispetto al nulla. Ciò che urge è allora focalizzare l’attenzione sulla “responsabilità per il da-farsi”, vale a dire ponderare sul dovere del potere politico per quanto riguarda il futuro. La responsabilità dello statista (che, ricorda Jonas, è liberamente scelta) nei confronti della res publica e dei suoi cittadini deve miscelare saggiamente l’interesse per il presente e la lungimiranza per il futuro, governando sempre con moderazione. «Prescindendo dalla più scoperta ed egoistica tirannia, che a malapena rientra ancora nella sfera politica (se non in base al falso pretesto della cura del bene pubblico), è proprio la responsabilità, legata al potere e dal potere resa possibile, a costituire il peso della competizione e a essere voluta in primo luogo dall’autentico homo politicus.[19]»
In questo senso l’uomo di Stato diviene per Jonas un paradigma eminente della responsabilità, paragonabile a quello dei genitori. I due archetipi divergono chiaramente in riferimento alla natura del rapporto che intercorre con il rispettivo oggetto di cura. I genitori rappresentano il modello di un dovere non fondato su una relazione di reciprocità, ossia l’assistenza alla vita individuale qual è quella del proprio discendente (per Jonas il bambino raffigura l’oggetto originario della responsabilità). Al politico, al contrario, spetta la garanzia della sicurezza e del benessere collettivi. Fatte le dovute differenze, tuttavia, genitori e uomini di Stato convergono per Jonas su tre punti: totalità, continuità e futuro.
            Per quanto concerne il primo, i due paradigmi adempiono alla sfera dell’educazione o formazione del cittadino; addirittura, tale compito si concentra nel caso della collettivizzazione estrema, come presuppone il totalitarismo del comunismo radicale (anche se, come nota Jonas, il paternalismo resta in ogni caso anche un carattere precipuo dello Stato moderno). Inoltre, sussistono delle analogie sul piano emotivo: l’amore dei genitori e la solidarietà del politico nei confronti dei propri oggetti, ovvero i figli e, secondo un’immagine figurata molto suggestiva, i “fratelli” (i concittadini). Altro elemento “totale” è la dipendenza del bambino e della res publica dai loro protettori, in quanto creature del bisogno vulnerabili e minacciabili. A ciò si aggiunga però il rapporto unilaterale e assoluto di paternità-maternità. In secondo luogo, la continuità si esprime invece nella preservazione di un’entità storica ben determinata. Infine, il diritto del non-ancora-esistito comporta il dovere di tutela della causalità autonoma dell’essere per il futuro.
A questo punto, Jonas si chiede: fin dove la responsabilità politica può e deve inoltrarsi nel futuro? In altri termini, esiste un limite temporale che l’egoismo lungimirante della politica non è tenuto a varcare? La risposta dell’intellettuale è sostanzialmente che la dimensione della lungimiranza va oltre la necessità del momento. Se infatti l’obbligo per l’avvenire in passato era un peccato di hybris più che una virtù, oggi, data la minaccia di sventura che incombe sul domani, ogni arte di governo è responsabile per la stessa possibilità della politica futura. Nel momento in cui il mondo è entrato in una fragile condizione di mutamento permanente e irreversibile, per dirla diversamente, la dinamicità della modernità impone alla politica uno sguardo rivolto ad orizzonti lontani.
Qui Jonas si imbatte però nella ristrettezza di vedute del governo rappresentativo, vincolato per sua stessa natura alla “lobby del presente”, che gli palesa pertanto l’inadeguatezza dei regimi democratici. «Nella morsa futura di una politica di rinuncia responsabile», egli sancisce, «la democrazia (nella quale hanno necessariamente la preminenza gli interessi contingenti) è, perlomeno temporaneamente, inadeguata.[20]» Riportando in auge il vetusto problema dei filosofi al potere, inaugurato da Platone e inoltratosi poi con la cosiddetta ‘sindrome di Siracusa’, egli così afferma: «Ciò ripropone in tutta la sua radicalità l’antica questione del potere dei saggi o della forza delle idee nel corpo politico, qualora queste non siano alleate con l’egoismo. Quale forza deve rappresentare il futuro nel presente? Si tratta di una questione di filosofia politica sulla quale io ho le mie idee, probabilmente chimeriche e certamente impopolari, che per ora possono restare dove sono.[21]» Cerchiamo dunque di sviscerare tali idee.
A causa della possibilità non più così remota di una catastrofe planetaria, che non sembra scongiurabile dalla odierna democrazia, Jonas asserisce che «soltanto un massimo di disciplina sociale politicamente imposta è in grado di realizzare la subordinazione del vantaggio presente alle esigenze a lunga scadenza del futuro.[22]» Data la miopia del governo rappresentativo, il filosofo – destando provocatoriamente la perplessità di noi ‘turisti della democrazia’– decreta perciò che «la nostra scelta ponderata deve orientarsi oggi, sia pure controvoglia, tra forme diverse di “tirannide”.[23]»
L’autore giunge a tale conclusione dopo aver valutato quali chances offrono marxismo e capitalismo (entrambi accomunati da un ideale baconiano di progresso) nell’affrontare la minaccia tecnologica insita in un processo di industrializzazione smisurato. Risulta emblematica a tale proposito la seguente dichiarazione: «Non intendiamo verificare gli intrinseci vantaggi dei due sistemi di vita, ma soltanto la loro adeguatezza a uno scopo egualmente estraneo a entrambi, la prevenzione di una catastrofe dell’umanità mediante disciplinamento dell’impulso tecnologico, nel quale l’uno non vuole essere da meno dell’altro.[24]» Il ragionamento di Jonas si snoda quindi attraverso una comparazione tra i pro e i contro dell’economia dei bisogni e dell’economia del profitto. Da una parte egli evidenzia la maggiore razionalità interna alla prima, tesa al benessere materiale senza spreco, in opposizione al consumo irrazionale della seconda. Dall’altra, illustra però anche gli inconvenienti di una burocrazia centralizzata, quali i disguidi dall’alto, il servilismo e la corruzione dal basso; viceversa, l’imprenditorialità ha dalla sua la riduzione dei costi e il risparmio di base, in virtù del sistema concorrenziale. Dopo aver sottolineato i pregi e i difetti di socialismo e liberalismo, la conclusione a cui giunge Jonas è la preferibilità della pianificazione di Stato, poiché in definitiva essa elimina la «creazione artificiale di capacità di mercato per beni non desiderati, anzi neppure conosciuti.[25]»
In linea del tutto astratta il marxismo è pertanto ritenuto più vantaggioso rispetto all’economia di mercato, anche perché capace di imporre una morale ascetica alle masse, che l’uguaglianza per la disponibilità ai sacrifici aiuterebbe a mettere in pratica. In altre parole, lo Stato nazionale comunista sarebbe sulla carta migliore, grazie all’idea della “società senza classi quale condizione per l’avvento dell’uomo autentico”, sebbene essa, commenta Jonas, «non si presenterebbe più come la realizzazione di un sogno dell’umanità, ma molto sobriamente come condizione della sua sopravvivenza nell’imminente crisi epocale[26].» Un’altra qualità del socialismo sarebbe la capacità di trasformare il congenito entusiasmo per l’utopia in entusiasmo per l’austerità.
Nel paragrafo che recita come sottotitolo “(Politica e verità)”, parafrasando Marx e tenendo sempre a tiro Bloch, egli tematizza la validità di una “congiura elitaria per il bene”: «una falsa coscienza sorretta da una coscienza giusta! Non inorridisco dinnanzi all’idea. Forse questo pericoloso gioco dell’inganno di massa (la “nobile menzogna” di Platone) è l’unica via di cui la politica alla fine disporrà, facendo avanzare il “principio paura” sotto la maschera del “principio speranza”.[27]» In questo passo, che riporto integralmente per la sua densità concettuale, il pensatore mette in mostra tutto il suo realismo politico:

«Siamo così entrati in una zona ambigua della politica, nella quale il profano si aggira mal volentieri, preferendo lasciare la parola agli addetti ai lavori. Qui potrebbe rivelarsi necessario un nuovo Macchiavelli, che dovrebbe però esporre la sua dottrina in forma rigorosamente esoterica. Sarebbe naturalmente meglio, e più auspicabile sotto il profilo etico e pragmatico, poter affidare la causa dell’umanità al diffondersi di una vera “coscienza”, animata dal necessario idealismo politico, che in anticipo di generazioni si facesse volontariamente carico, per i propri discendenti e nello stesso tempo per i contemporanei bisognosi di altri popoli, delle rinunce che una situazione privilegiata non impone ancora.  Data l’imperscrutabilità del mistero “uomo”, questo non va escluso. […] L’autore è preparato al rimprovero di cinismo e non desidera contrapporgli l’assicurazione delle sue buone intenzioni.[28]»

L’euristica della paura pare quindi condurre inevitabilmente a una cinica visione del futuro del mondo; purtuttavia, nonostante l’acclamazione di un’accettazione quasi passiva dell’operare del potere da parte di cittadini-sudditi, secondo Jonas, all’interno di quella zona grigia della politica adombrata da finzioni e apparenze, vi è ancora spazio per un labile barlume: «se la verità è dura da sopportare, deve venire in soccorso una buona menzogna. Ma forse in questo modo si sottovalutano gli uomini; forse anche una verità terribile è in grado di entusiasmare, non soltanto i pochi ma in definitiva anche i molti. Questa è la speranza migliore nei tempi bui.[29]»
Ma ritorniamo alla legittimità di ciò che si può chiamare un dispotismo verde. In un altro paragrafo intitolato “Il vantaggio del potere governativo totalitario”[30] egli rivela l’importanza di trasmettere nella prassi dei cittadini lo “spirito di razionalità”, anche con rimedi impopolari. A tale scopo ipotizza l’adeguatezza di quella che può essere definita una buona tirannide: «Queste misure [impopolari] sono proprio quel che la minaccia del futuro esige ed esigerà sempre di più. […] Si tratta quindi dei vantaggi governativi di ogni tirannide che, nel nostro contesto, deve essere una tirannide benintenzionata, beninformata e animata da giuste convinzioni.[31]» La manchevolezza della democrazia a vantaggio del marxismo come Stato totale, tuttavia, non elimina il problema della idoneità dei governanti e della moralità delle istituzioni pubbliche, ovvero quello che Jonas denomina «il grande “se” della classe dirigente[32]». Egli prova quindi di non essere uno sprovveduto quando, ad esempio, indica gli “effetti demoralizzanti del dispotismo” i quali, però, si ritrovano anche, magari in una forma più velata, nello sfruttamento economico. Il “buono Stato”, secondo l’autore, deve saper coniugare sapientemente libertà politica e moralità civile. La prospettiva dell’utopismo realistico, nel dettaglio, ammette il sacrificio della libertà personale in cambio della stabilità sociale, giudicata più essenziale in un eventuale momento di nichilistica crisi ecologica. Ne deriva che un tipo di utopia autoritaria e paternalistica può servire come idea-guida per la prassi politica.
Continuando il discorso sulla desiderabilità di uno Stato fortemente interventista anche nelle vicende economiche, Jonas traccia in seguito un parallelismo tra regimi liberali e regimi illiberali. In seguito all’analisi, stipula così: «La nostra tesi è che i sistemi liberali sono superiori sul piano etico al loro antagonista, anche se quest’ultimo può superarli sotto alcuni aspetti in quanto a rendimento. […] E’ evidente, ma non vincolante per il nostro giudizio, il fatto che l’utopismo non stimi in considerazione dei vantaggi ricavati un troppo elevato rinunciare alla libertà individuale, arrivando a dichiarare pura illusione (“pregiudizio borghese”) l’oggetto del sacrificio[33] 
Infine, prima di addentrarsi nella sua critica dell’utopia marxista (avvalendosi, tra l’altro, delle nozioni scientifiche più aggiornate dell’epoca sui confini fisici di tolleranza della natura) e della filosofia blochiana, Jonas accenna ad alcune questioni di politica internazionale implicate nella crisi ambientale, in cui soggiorna la società tecnologica contemporanea. Egli, ad esempio, aggiorna la teoria di Marx sulla lotta di classe, facendo vedere come essa possa in realtà convertirsi in una furibonda lotta delle nazioni. La nuova costellazione della guerra tra nazioni esige perciò, nell’interesse statale, nuove risposte da una impellente politica costruttiva globale. Altrimenti non è escluso un lugubre scenario di anarchia internazionale[34].

La Realpolitik ecologica di Vittorio Hösle
Il testo del filosofo italo-tedesco è composto da una serie di lezioni tenute all’università di Mosca nel 1990. Questo dato storico rappresenta una differenza basilare rispetto al Tractatus technologico-ethicus di Jonas.  I due testi, com’è noto, sono separati da quello spartiacque epocale che è stato la caduta del muro di Berlino nel 1989, catalizzatore di una serie di avvenimenti alquanto importanti. “L’anno della rivoluzione”, come dice Hösle, ha infatti determinato la crisi del marxismo, i sovvertimenti e la nuova distribuzione delle forze nell’Europa centrorientale, le elezioni nella Repubblica Democratica Tedesca e la questione della trasformazione giuridico-statale dell’Unione Sovietica. A tale proposito, dobbiamo sempre tenere presente l’interlocutore diretto a cui Hösle si riferisce, ossia il pubblico russo.
Ciò che l’autore intende elaborare è un’autentica “filosofia della natura”: a livello teoretico, egli individua le direttrici storico-spirituali della metafisica moderna, responsabile della crisi ecologica, vale a dire scienza, tecnica ed economia del XIX-XX secolo. A livello pratico, Hösle compie interessanti riflessioni etiche e politiche. Prendendo spunto dall’etimologia del termine ‘ecologia’, il suo lavoro va inteso, in definitiva, come una “dottrina della casa”, volta in primo luogo alla preservazione della dimora materiale dell’uomo (il pianeta Terra) e, in secondo luogo, al recupero di una dimensione metafisica – dimora ideale – per lo Spirito della civiltà tecnica.
Nel capitolo “L’ecologia come nuovo paradigma della politica” il filosofo parte proprio dal fatto che «crollano le mura»: tale stato di incertezza, al bivio tra consenso e violenza, esige un cambiamento di paradigma politico-morale, un nuovo edificio di pensiero per cui occorre «mettere ali alla filosofia». La crisi del marxismo, osserva Hösle, comporta una triplice configurazione di opzioni alternative: il tentativo di resistenza di alcune roccaforti ideologiche; la brama di intraprendere la via occidentale; il recupero di tradizioni pre-rivoluzionarie. Il suo auspicio è infatti il fiorire di un “Rinascimento russo”, guidato dalla conoscenza di un mondo diverso da quello attuale ma reale, ossia il ritrovamento di un passato trasfigurato per sviluppare il nuovo paradigma spirituale di cui necessita il secolo dell’ambiente.
In particolare, per Hösle il problema è appunto scongiurare una completa adesione spirituale al Primo Mondo da parte dei paesi di quello che ormai chiama “l’ex Patto di Varsavia”. «Non è opportuno», ragiona, «che i paesi a economia pianificata adottino il sistema sociale dell’Occidente senza alcun correttivo», ovvero in modo acritico. I motivi alla base della tesi sono tre: in primo luogo, le “vittime dell’imperialismo stalinista e del predominio bolscevico” – che hanno vissuto sulla propria pelle egli effetti collaterali della Rivoluzione d’Ottobre e della II Guerra Mondiale – potrebbero compromettere il loro patriottismo (che per Hösle è diverso dal nazionalismo), facendo avanzare piuttosto il pericolo di sciovinismo. In secondo luogo, il raggiungimento dello standard di consumo occidentale si otterrebbe a discapito della libertà spirituale: desiderare i vizi dell’occidente significherebbe sacrificare gli altri valori attraverso bisogni che non si è in grado di soddisfare, rinunciando pertanto alla propria identità. In terzo luogo, «l’universalizzazione del tenore di vita occidentale non è attuabile senza il totale collasso ecologico della Terra.[35]». I limiti del pianeta, infatti, porteranno a lotte di spartizione, ancora più terrificanti in uno scenario dominato da armi di distruzione di massa.
Quale sarà allora il destino del XXI secolo? Con la fine guerra fredda, ossia raggiunto l’accordo di collaborazione reciproca tra le superpotenze, e la vittoria della democrazia occidentale, siamo ormai giunti, come sostiene Francis Fukuyama, alla fine della storia? Niente affatto: per Hösle è necessario un cambiamento di paradigma ancora più drastico rispetto a quello del 1989, che metta al centro il valore della natura. Il nuovo modello sociale dovrà spodestare l’attuale, cioè l’economia, così come quest’ultima ha detronizzato i suoi predecessori: religione e nazione. A dimostrazione dell’attuale primato dell’elemento economico sugli altri sottoinsiemi della società, Hösle osserva che est e ovest, sebbene mediante un metodo diverso (economia pianificata / economia di mercato), erano in fondo accomunate dal medesimo obbiettivo: soddisfare il maggior numero possibile di bisogni materiali del maggior numero possibile di cittadini, tramite lo sviluppo della tecnica. Tuttavia, il filosofo nota che l’economia non è sempre stata al centro delle strutture portanti della società nel corso della storia. Infatti nella Grecia arcaica, in cui vigeva un’economia di sussistenza, nello specifico era data importanza politica ad altri ambiti, che poi sarebbero stati soppiantati nello Stato moderno capitalistico o socialista.
Al fine di scovare gli altri ambiti centrali su cui si reggevano le istituzioni del passato, il nostro autore si avvale pertanto delle analisi svolte da Carl Schmitt nel saggio “L’era delle neutralizzazioni e della spoliticizzazioni”, contenuto in La categoria del politico del 1929. In quest’opera Schmitt identifica la relazione amico-nemico come essenza della politica: uno spostamento degli assi amicizia-inimicizia ha come conseguenza un cambiamento del paradigma politico. Inoltre, il pensatore ricerca il casus belli delle varie epoche storiche a partire dal consolidamento dell’entità statale, vale a dire il motivo centrale per cui schiere di eserciti hanno ritenuto legittimo ammazzarsi vicendevolmente in guerra. All’inizio dell’età moderna, questo era rappresentato dalla religione: dal medioevo fino al XIX secolo, passando per l’Illuminismo, il Cristianesimo rappresentava il paradigma sociale. Era infatti l’imposizione dell’omogeneità confessionale che mosse le guerre civili e soprattutto la Guerra dei trent’anni. Ma nel corso di tale conflitto avvenne quello che Schmitt chiama “spoliticizzazione della religione”, che determinò così un nuovo schieramento: la Francia cattolica si alleò con la Svezia protestante, contro il Sacro Romano Impero di Nazione Tedesca. Ciò aveva significato il passaggio dal principio del cuius regio, eius religio a quello del cuius regio, eius natio. Ora si apriva dunque la seconda fase della modernità, il cui fulcro era la nozione di Stato. Il secolo XIX vide l’affermarsi della Nazione: è l’omogeneità interna a mobilitare lo scacchiere militare tramite il dispiegarsi di guerre nazionali. E se da un lato l’affermarsi dell’entità statale ha portato progresso, sotto forma di indipendenza ed emancipazione, dall’altro lato, commenta Schmitt, in quanto categoria anti-universalistica (a differenza della Chiesa), la nazione può per ceti versi considerarsi un regresso.
Infine, si è approdati al cuius regio, eius oeconomia del XX secolo. E’ emblematico infatti che la Guerra Fredda si configurasse come una contesa tra due sistemi di alleanze, per fissare un sistema economico col potere dello Stato. La terza fase ha perciò comportato il trasferimento dallo Stato di diritto liberale allo Stato Sociale. Anche in questo caso si può parlare di progresso dal momento che è avvenuta un’evoluzione nella storia del diritto; il declino è però riscontrabile, dapprima, nell’aumentata aggressività internazionale degli Stati moderni e, in aggiunta, proprio nella crisi ecologica. Lo Stato si fa promotore di un’intensa politica di sfruttamento naturale per soddisfare i bisogni economici dei cittadini, conservando così la pace sociale. La risultante di tale processo, quindi, è che la politica contemporanea si è assoggettata al paradigma dell’economia.
Tuttavia, tale modello di crescita economica “infinitistica” – complice lo sviluppo demografico – non può durare ancora a lungo, poiché la Terra è una superficie finita governata da evidenti limiti naturali. Secondo Hösle è allora giunto il momento di innescare il nuovo paradigma, ossia quello dell’ecologia, che dovrà guidare la politica sulla strada di ciò che oggi chiamiamo sostenibilità ambientale. D’altronde il XXI secolo è stato definito non a caso “il secolo dell’ambiente”: la cura dei fondamenti naturali della vita dovrà essere lo scopo dello Stato. «La buona politica» sancisce Hösle, «sarà quella capace di salvaguardare in modo globale i fondamenti naturali del mondo in cui viviamo, non più quella capace di consentire lo sviluppo quantitativo dell’economia e la soddisfazione dei bisogni più assurdi, né una politica che persegua l’identità culturale e linguistica di una nazione a discapito di altre, e tanto meno, per finire, una politica che cerchi di imporre con la violenza l’omogeneità culturale o religiosa.[36]»
Il nuovo paradigma, secondo lo studioso, comporterà anche nuovi raggruppamenti amico-nemico, sull’onda lunga della distensione est-ovest. La crisi ecologica però, se da una parte può diventare il nemico comune dell’umanità, dall’altra essa potrebbe pure fungere da pretesto per nuove guerre. «Lo sviluppo demografico, il riscaldamento dell’atmosfera, l’aumento dei veleni chimici nell’acqua, l’erosione del terreno, l’assottigliarsi dello strato di ozono, la diminuzione delle risorse alimentari, la riduzione della varietà delle specie: tutti questi fenomeni non possono che creare una situazione nella quale si verificheranno delle catastrofi ecologiche. Esse provocheranno quasi inevitabilmente lotte di spartizione.[37]»
Se la difesa dell’ambiente giocherà un ruolo sempre più importante in politica estera, le conseguenze di questo mutamento si vedono già nelle lotte interne per il potere. Infatti Hösle prende in considerazione il dispiegamento odierno dei partiti politici in riferimento alle questioni ecologiche.  In linea generale, troviamo forze legate al vecchio paradigma economico caratterizzato dal pensiero quantitativo, opposte a forze che mirano a una trasformazione della società industriale in senso ecologico.  Attraverso la disamina attuata da Habermas delle tradizionali categorie politiche di “destra” e “sinistra”, “reazionari”, “conservatori” e “progressisti”, Hösle mostra come siano cambiati i rapporti in campo, spesso seguendo il principio de “il nemico del mio nemico è un mio amico”.
In altri termini, alle soglie del nuovo paradigma dell’ecologia, si formeranno nuovi raggruppamenti amico-nemico, definiti in base a valori e interessi comuni sul lungo periodo: la natura (priva di diritti nella filosofia moderna classica), le generazioni future, gli abitanti del Terzo Mondo. E se il trionfo della razionalità rispetto allo scopo è stato, per Hösle, il più grande errore della storia politica e spirituale dell’età moderna, è sempre più chiaro che «in un prossimo futuro la questione ecologica acquisterà necessariamente un grande rilievo politico.[38]»
Arrivato a questo punto, il professore italo-tedesco, espone le conseguenze politiche della crisi ecologica, facendosi portavoce di quella che definisce “una Realpolitik ecologica”, diametralmente opposta al moralismo politico. «Abbiamo bisogno di una Realpolitik ecologica, perché soltanto a una politica di questo genere è dato di conseguire risultati concreti: per un bizzarro ribaltamento dialettico, l’enunciazione di ideali sublimi ma irrealizzabili può avere come unica conseguenza la conservazione dello status quo.[39]» La sua analisi è impegnata su tre fronti: riorganizzazione economica, politica interna e relazione internazionali.
Per quanto riguarda il primo punto, Hösle tenta di avvalorare l’ipotesi di un Green Capitalism, ovvero di un’economia ecologico-sociale di mercato. La sua strategia è fare leva sull’egoismo tipico del capitalismo in funzione di una conversione ecologica del sistema produttivo. Per ottenere ciò, secondo l’autore è necessario modificare le “condizioni generali” dell’apparato industriale, entro cui lo spirito neoliberale possa così muoversi secondo precise regole ‘ecosostenibili’, diremmo noi. Il compito dello Stato è allora quello di circoscrivere uno spazio delimitato dove la mano invisibile possa muoversi, incrementando la logica del profitto con un ragionevole criterio di sopravvivenza. Nel dettaglio, la proposta di Hösle è l’attuazione di una riforma tributaria, cioè un sistema di tasse ecologiche tese alla salvezza dell’ambiente, che ha il pregio di unire lo sprono dell’utile personale a un principio morale. La riforma dovrebbe essere però compensata da sgravi fiscali in altri ambiti per le aziende; necessiterebbe di una trasformazione graduale; comporterebbe l’abolizione delle sovvenzioni statali (in molti casi mere azioni riparatrici per conservare lo status quo). In questo senso l’economia politica, oltre a definire le condizioni generali adeguate al mercato, deve intervenire nella formazione di imprenditori “verdi”, consapevoli dei rischi a lungo termine della crisi ambientale[40]. Mediante un’economia ecologico-sociale di mercato, per il filosofo, è possibile arginare la disoccupazione di massa e la distruzione dell’ambiente, i due mali più gravi dello Stato sociale moderno.
Hösle mette in luce anche le obiezioni che si possono muovere alla riforma. In primo luogo, il pericolo di ingiustizia sociale derivante dal fatto che inquinare, ad esempio, diverrebbe un privilegio dei ricchi. L’autore ribatte però che per scongiurare una catastrofe naturale saranno necessarie delle limitazioni frugali aldilà delle invidie personali. Inoltre, si potrebbero prevedere dei sussidi economici dello Stato sociale a tutela dei più deboli. In secondo luogo, la riforma nuocerebbe le aziende sul piano della concorrenza internazionale. Per ovviare a questa problematica Hösle preme sulla priorità di incrementare gli accordi internazionali, evitando forme di protezionismo e la chiusura dello Stato mercantile (anche se istituire dogane ecologiche potrebbe risultare utile). Insomma, «nell’era della crisi ecologica il fatto che vi sia un’economia mondiale cui però non corrisponde uno Stato mondiale è particolarmente pericoloso.[41]»
In seguito il ragionamento di Hösle si sposta su questioni di politica interna, anche se riconosce che sarà fondamentale in questo caso la pressione che la società riuscirà a esercitare verso i reggenti: «L’inerzia dei politici dà adito al timore che si farà poco, a meno che un numero sempre maggiore di cittadini ben informati e caparbi non sottoponga proposte concrete ai politici e agli amministratori responsabili.[42]» Per prima cosa comunque, egli appoggia l’idea della famiglia di piccole dimensioni: occorre limitare il diritto di avere figli, attraverso la libera scelta o tramite la coercizione dello Stato. Per questo serve un uso assennato di pratiche quali anticoncezionali e sterilizzazione, anche se egli si dichiara per ragioni morali contrario all’aborto. Oltre a ciò, l’autore sancisce l’obbligo delle istituzioni di informare l’opinione pubblica circa le problematiche ambientali. Lo Stato di diritto sociale e democratico, dichiara, deve diventare uno “Stato ecologico” e, di conseguenza, la conservazione del pianeta e i diritti delle generazioni future devono diventare un obbligo per la filosofia dello Stato. Infatti, la possibile distruzione dell’umanità o il pericolo di catastrofi naturali sono sintomi di una impellente emergenza politica, che gli enti di diritto pubblico devono farsi carico per la tutela dell’ambiente. La conservazione dei fondamenti naturali della vita è d’altronde la condizione necessaria della sopravvivenza dello Stato di diritto.
Per tale motivo è necessario correggere la tradizionale bipartizione giuridica persone-cose, che riflette la dicotomia cartesiana res cogitans/res extensa. Viceversa, è importante che anche il regno dell’organico acquisti dignità ontologica in virtù del valore intrinseco degli animali, degli ecosistemi, dei biotopi, delle specie e, infine, dell’uomo stesso. Parimenti, bisognerebbe revisionare il concetto di proprietà, mediante un aggiornamento della nozione fichtiana di proprietà basata sull’uso che preveda proprietari parziali di un bene comune. Diversamente dalla concezione hegeliana, fondata sulla proprietà illimitata di una singola struttura psichica, che soggiace all’ideale di autonomia della moderna soggettività borghese. Nel concreto c’è bisogno quindi di leggi a tutela delle risorse rinnovabili quali il mare o la foresta pluviale, come recita il noto mantra per cui «la Terra ci è solo stata data in prestito dai nostri figli». Un ulteriore scottante problema concerne invece lo smaltimento dei rifiuti, specialmente nella “società usa-e-getta” del Primo Mondo. Per risolvere tale dilemma si potrebbe pensare, afferma Hösle, a una separazione tra contenitore (che resta di proprietà del produttore) e contenuto (alla mercé del consumatore). Ad ogni modo, per lui bisogna rivedere il concetto di responsabilità, avanzando l’ipotesi di una diritto penale ecologico.
Scendendo più in profondità nel discorso, egli propone la figura di un tutore, come previsto dal diritto civile, per proteggere gli interessi delle generazioni future e della natura, facendo progredire la lotta per la conquista della democrazia. A tale proposito, dovrebbe rientrare nella Costituzione la salvaguardia dell’ambiente come fine dello Stato. Inoltre, alla Corte Costituzionale dovrebbe spettare una particolare competenza legislativa (seppure in casi eccezionali, per non minare il principio della separazione dei poteri). Insomma, le vicende ecologiche devono divenire faccende dei tribunali amministrativi, penali e civili, per cui servono anche nuove competenze dei giudici.
A livello nazionale, risulta impellente per i Governi rivalutare il Ministro dell’Ambiente, per esempio potenziandone il bilancio; l’autodisciplina del lusso e un’adeguata formazione della classe dirigente rappresentano altri essenziali correttivi.  A livello locale, l’amministrazione della casa e della città deve orientarsi verso una urbanistica in armonia con la natura, tramite un approvvigionamento energetico decentrato, il riutilizzo dei rifiuti e una riconversione dell’agricoltura. Il grattacielo e la metropoli sono per l’autore il simbolo della negazione astratta del limite e della misura, tipica dell’età contemporanea.
E se l’odierna democrazia liberale non risulta all’altezza di tutto ciò, Hösle ammette anche la possibilità di “provvedimenti straordinari”, mettendo in luce l’ambiguità del rischio di guerre ecologiche o il pericolo di una eco-dittatura. «Ritengo che un’ecodittatura, anzi una lotta furibonda tra varie ecodittature per la spartizione delle ultime risorse […] costituisca un pericolo assolutamente reale, e proprio per questo ritengo che la rapida introduzione delle riforme necessarie sia un obbligo morale imprescindibile.[43]». Ancora, «per i paesi del Primo Mondo poche cose sarebbero moralmente più umilianti di un intervento militare nelle loro ex colonie al fine di salvaguardare l’ambiente; tuttavia mi sembra che non si possa negare, almeno a istituzioni internazionali, il diritto di muovere simili guerre ecologiche.[44]»
Con ciò arriviamo alla sezione di politica estera, in cui il pensatore parla di una politica ambientale delle relazioni internazionali, un “Piano Marshall per la salvezza dell’ambiente”. Hösle afferma: «In seguito alla crisi ecologica l’istituzione di enti internazionali dotati di un reale potere coercitivo ha assunto un carattere d’urgenza che finora essa non rivestiva.[45]» A livello globale, infatti, l’ideale kantiano dello Stato universale per attuare l’idea di diritto deve concretizzarsi nell’economia mondiale, e nella cooperazione tra Stati circa le armi atomiche e la crisi ecologica. Le questioni del Terzo Mondo e dell’asincronia dello sviluppo hanno a che fare con la colonizzazione e con la distruzione dell’ambiente; il problema dell’eurocentrismo però si scontra pure con le classi dirigenti corrotte del sud del mondo. Occorre perciò estendere la teoria stoica della oikeiosis, offrendo assistenza ai paesi in via di sviluppo e limitando il principio di sovranità dell’occidente, espressione del dominio universale della soggettività moderna. Si avverte dunque l’esigenza di un contrattualismo tra paesi ricchi e poveri.
Per concludere, alla luce delle analisi di Jonas e Hösle, mi sembra che una valida soluzione per arginare la crisi ambientale sia quella di coniugare la nozione di Cura che il primo individua nel rapporto tra genitori e figli, con quella di oikos del secondo. La cura della casa ci permette in definitiva di passare dal “benessere” della Società dei Consumi a un reale ben-essere psicofisico, in cui l’uomo ritrova il fondamentale equilibrio con la terra che lo sostiene.









[1] H. Jonas, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, trad. it. di P. Rinaudo, a cura di P.P. Portinaro, Einaudi, Torino, 1993; V. Hösle, Filosofia della crisi ecologica. Etica e politica per una nuova responsabilità collettiva, trad. it. di P. Scibelli, Einaudi, Torino, 1992
[2] V. Hösle, Filosofia della crisi ecologica, op. cit., p. 9
[3] H. Jonas, Il principio responsabilità, op. cit., pp. 24-26
[4] V. Hösle, Filosofia della crisi ecologica, op. cit., p. 63
[5] Ivi, p. 29
[6] Ivi, p. 28
[7] H. Jonas, Il principio responsabilità, op. cit., p. 232
[8] Ivi, p. 188
[9] V. Hösle, Filosofia della crisi ecologica, op. cit., p. 85
[10] Qui il bersaglio polemico di Jonas è evidentemente Ernst Bloch, «enfant terrible dell’utopismo» e autore de Il principio speranza, al quale il primo intende contrapporsi. Bloch, sulla scia dell’utopismo marxista, sognerebbe appunto «un’età dell’oro come paradiso del tempo libero», emancipato dal regno della necessità (cfr. p. 248-269).
[11] H. Jonas, Il principio responsabilità, op. cit., p. 221
[12] Ibid.
[13] V. Hösle, Filosofia della crisi ecologica, op. cit., p. 139
[14] Ivi, p. 140
[15] H. Jonas, Il Principio responsabilità, op. cit., p. 38
[16] Ivi, p. 16
[17] Ivi, p. 14
[18] Attualmente non vi è un giudizio unanime neppure sull’effettivo ruolo prometeico dell’uomo nella natura, come dimostrano i dibattiti circa i fattori antropogenici dei cambiamenti climatici. A tale proposito riporto però una frase significativa di Jonas sul «cammin facendo, finché forse sarà troppo tardi» (p. 38): «La profezia di sventura è fatta per scongiurare che si verifichi quanto è temuto; sarebbe il colmo dell’ingiustizia deridere in seguito gli allarmisti con l’argomento che in fondo non è poi andata così male; l’aver torto sarà il loro merito.» (p. 150)
[19] H. Jonas, Il principio responsabilità, op. cit., p. 122
[20] Ivi, p. 192
[21] Ivi, p. 30
[22] Ivi, p. 182
[23] Ivi, p. 192
[24] Ivi, p. 185
[25] Ivi, p. 187
[26] Ivi, p. 185
[27] Ivi, p. 190
[28] Ivi, p. 191
[29] Ivi, p. 193
[30] Si segnala la cattiva traduzione dell’aggettivo tedesco «totaler», che in italiano significa letteralmente “totale”. Ciononostante, come osserva giustamente Pier Paolo Portinaro nell’introduzione del saggio, resta ad ogni modo problematica “l’evoluzione autoritaria di dittature ecologiche”.
[31] H. Jonas, Il principio responsabilità, op. cit., p. 188
[32] Ivi, pp. 192-193
[33] Ivi, p. 220
[34] Ivi, pp. 230-232
[35] V. Hösle, Filosofia della crisi ecologica, op. cit., p. 18
[36] Ivi, p. 29
[37] Ivi, p. 19
[38] Ivi, p. 20
[39] Ivi, p. 167
[40] A pag. 124 Hösle postula che il diritto alla vita delle generazioni future è più fondamentale del diritto a un posto di lavoro.
[41] Ivi, p. 126
[42] Ivi, p. 165
[43] Ivi, p. 168
[44] Ivi, p. 164
[45] Ivi, p. 156

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