sabato 25 luglio 2015

Disintossicazione da mimesi. Un percorso nel pensiero di Serge Latouche





«Nell’errare, il mestiere del pensiero[1]». Con queste parole Martin Heidegger indicava il carattere instancabilmente itinerante del suo filosofare, dopo aver oltrepassato il varco della propria Kehre (svolta) degli anni ’30. In questa relazione cercherò di tratteggiare alcune caratteristiche della filosofia di Serge Latouche, attraverso un confronto critico tra due testi. Uno è L’occidentalizzazione del mondo. Saggio sul significato, la portata e i limiti dell’uniformazione planetaria; l’altro s’intitola Come si esce dalla società dei consumi. Corsi e percorsi della decrescita. Se esiste un punto in comune tra Heidegger e Latouche, questo può essere rintracciato nella critica all’Occidente. Nello “sciamano della parola” tedesco essa si declina anzitutto come critica alla metafisica occidentale, rea di aver obliato l’essere in favore della Tecnica. Nell’ “obiettore di crescita” francese, invece, essa si articola come critica al fenomeno dell’occidentalizzazione del mondo, che avrebbe sradicato e deculturato l’intero pianeta. Tra le numerose divergenze (che in tale sede non è possibile enucleare per ragioni di spazio) vi è sicuramente il riconoscimento, da parte del secondo, che non è corretto identificare l’essenza dell’Occidente con il mero dispositivo tecnico del Gestell. Infatti, nonostante la tecnica rappresenti senz’altro un apparato basilare della macchina occidentale, questa non si riduce a quella. Il mostro Occidente è un ente molto più complicato, per sua stessa natura ambiguo e contraddittorio, in cui confluiscono vari aspetti troppo spesso trascurati dagli studiosi, che Latouche intende sviscerare nel corso delle sue opere e che, nelle pagine a venire, proverò a illustrare.
L’obiettivo di questo scritto è, perciò, tracciare una traiettoria lungo la linea di pensiero di Latouche, scegliendo arbitrariamente i due testi sopracitati come principio e traguardo del tragitto. L’arco temporale che si dipana nel frammezzo si dispiega attraverso una progressione di temi e interessi, che vanno dalla denuncia socio-antropologica della derelizione del Terzo Mondo, alla proposta politica di una ecologia della decrescita, incastonando stimolanti riflessioni filosofiche[2]. Il fil rouge che lega i vari momenti della ricerca di questo studioso è, in ogni caso, una visione eretica dell’elemento economico, che costituisce di conseguenza la cifra di continuità delle opere. Effettivamente, il leitmotiv ripetuto da Latouche è il seguente: è necessario uscire dall’economia, per ritrovare il sociale e il politico. La sua argomentazione è che, a un certo punto della storia, la sfera economica si è emancipata dalle altre dimensioni dell’essere, finendo per divenire un insieme a sé stante radicalmente scollegato dalla società, dalla politica e dalla natura. Per dirla diversamente, l’economia ha iniziato a crescere come una gigantesca bolla che, dopo essersi elevata al rango di scienza prima, pilota oggi quasi ogni altro settore dell’umano. La crescita, nuovo imperativo categorico degli economisti ortodossi, conduce secondo il nostro al vicolo cieco dello sviluppo. La soluzione consiste, quindi, nell’invertire repentinamente la rotta, se non vogliamo sbattere una volta per tutte contro l’iceberg infernale della ipercrescita.
Ma se è possibile mappare il cammino di Latouche con segnavia più precisi, direi che si tratta di un viaggio in tre tappe: occidentalizzazione, catastrofe e decrescita. Il primo stadio è stato ampiamente raggiunto a livello mondiale: sta a noi decidere se oggi abbiamo definitivamente raggiunto l’apice (o toccato il fondo) dell’uniformazione planetaria. L’opzione determina conseguentemente lo scenario successivo: l’Apocalisse (di cui l’attuale crisi ecologica mostra i sintomi premonitori) o una società di opulenza frugale liberamente scelta. L’aut aut per Latouche è radicale: «L’alternativa è dunque: decrescita o barbarie![3]».
E’ interessante notare che entrambe le opere prese in considerazione si aprono con un incipit, in qualche modo, aurorale: l’ascesa dell’Occidente e il risveglio degli amerindi. Tuttavia, mentre il primo è letteralmente destinato a tramontare, come suggerisce il participio presente del latino occidĕre (“cadere”, “declinare”); il secondo, viceversa, appare investito di una nuova luce, in quanto alba di un possibile altro mondo “vernacolare”. Eppure, tra il crepuscolo degli dei occidentali – tecnica, scienza, progresso, sviluppo, crescita – e il fiorire di un nuovo giorno, passa la fredda notte della “catastrofe produttivista”.
Il progetto filosofico di Latouche, allora, proprio come la nottola di Minerva, esce sul far della sera, a cose fatte in un mondo immondo; e vigila il declino dell’Occidente, nell’attesa che un altro sole risorga, salvandoci dall’abisso del buio eterno.  In questo caso, la catastrofe non è intesa solamente come disastro sciagurato portatore di rovine e sfacelo. Al contrario, essa è accolta positivamente come “scrittura dell’ultima strofa”, secondo l’etimologia greca che rimanda propriamente alla conclusione del poema epico: lo scioglimento dell’intreccio alla fine del dramma. Latouche mostra, infatti, che l’epilogo della tragedia si conclude solitamente con la punizione o la morte del protagonista, sanzionato per la propria hybris.  L’autore ci esorta però a cogliere il kairos, l’occasione propizia per poter scrivere una storia diversa da quella attuale. La catastrofe, in aggiunta, è per lui l’unico modo realistico con cui le persone riescono pragmaticamente a comprendere i rischi concreti dello stile vita occidentale. Cosicché, sulla scia della “euristica della paura” di Hans Jonas, Latouche si fa promotore di una “pedagogia della catastrofe”. Insomma, come ricordava Heidegger con i versi del poeta Hölderlin: «Dove c’è il pericolo cresce anche ciò che salva».
Seguendo la dialettica dell’autore, la decrescita corrisponderebbe pertanto all’Aufhebung: momento di sintesi e superamento della negazione; una sorta di bussola per una società alternativa democratica, conviviale, pacifica, serena e retta da una sobria abbondanza. In particolare, la décroissance è, per il suo teorizzatore, la soluzione che ci permette di evitare la crisi della civiltà occidentale e la relativa distruzione della biosfera. L’espressione, ricavata dal titolo per una raccolta di scritti dell’economista romeno Nicolas Georgescu-Roegen (fondatore della bioeconomia o economia ecologica), rappresenterebbe una sorta di formula magica per “decolonizzare l’immaginario”, rompere le cantilene sireniche dello sviluppo illimitato e spezzare l’incantesimo del consumismo[4]. De-crescere significa per Latouche de-credere, ossia diventare atei nei confronti della religione dei consumi, sostenuta in continuazione dei sortilegi della pubblicità. Anche perché, sotto al velo di Maya delle vetrine, si nascondono pur sempre le discariche colme di rifiuti. In quanto controcanto della produzione e scarto del consumo, la spazzatura è appunto l’altra faccia dello sviluppo, potremmo dire the dark side of the earth[5]. 
E’ curioso osservare che l’Occidentalizzazione del mondo esce nel 1989, l’anno del crollo del muro di Berlino – evento catalizzatore che avvia in maniera massiccia l’americanizzazione del mondo. Da questo momento in poi, effettivamente, è possibile incontrare un contadino della Papua Nuova Guinea bere una lattina di Coca-Cola o guidare una Toyota, esattamente come un manager statunitense o un tycoon giapponese. Ciascuno fa ormai parte del villaggio globale, a differenza del fatto che questi ultimi hanno, in genere, più probabilità di risvegliarsi il mattino seguente.
Latouche insiste sul fatto che l’universalismo predicato dall’Occidente non si è realizzato affatto come fratellanza cosmopolita, bensì come produzione seriale di esistenze anonime, svuotamento delle identità culturali dei popoli e perdita di senso.  Certo, ci si può domandare se l’Occidente abbia, in definitiva, trionfato oppure fallito, e fino a che punto è lecito considerare un successo il primo o il secondo esito. D’altra parte, sarebbe un atteggiamento a dir poco terroristico ignorare in toto i veri progressi che la civiltà occidentale ha messo in pratica, grazie anche agli sviluppi di scienza, tecnologia ed economia[6]. In effetti, questa è la principale obiezione che è stata mossa contro il sostenitore della decrescita, il cui giudizio su Diritti dell’uomo e Organizzazioni Non Governative filantropiche, per esempio, è tutt’altro che encomiastico, in quanto rientrerebbero anch’essi, forse inconsapevolmente, nella logica dell’omologazione culturale. Tuttavia, la sua posizione è la seguente: «Si dice spesso che la decrescita è tecnofoba e nemica della scienza. E’ un’enorme assurdità. Noi non esprimiamo un’opposizione cieca al progresso, ci opponiamo al progresso cieco![7]». In un altro passo, egli sostiene che «uscire dallo sviluppo, dall’economia e dalla crescita non significa rinunciare a tutte le istituzioni sociali che l’economia si è annessa, ma reinquadrarle in una logica differente[8]». A titolo esemplificativo, «la moneta deve servire e non asservire[9]». In generale, l’economia deve tornare a essere un mezzo e non un fine. La crescita è paragonata dall’intellettuale di Vannes a un virus o a una droga, poiché causa rispettivamente l’annichilimento delle difese immunitarie, e un’assuefazione a capricci posticci.
Malgrado ciò, si può legittimamente dubitare che il contributo yankee alla globalizzazione si esaurisca nell’american way of living, fatto esclusivamente di “mcdonaldizzazione” e “cocalizzazione” del mondo, fast e junk food.  Comunque, non è un caso che il termine décroissance sia difficilmente traducibile nelle lingue germaniche o anglosassoni, a differenza di quanto accade per quelle latine o mediterranee[10].
Un altro argomento importante nelle riflessioni di Latouche è la critica allo “sviluppo sostenibile”, per lui un autentico ossimoro. In particolare, le varie soluzioni proposte come palliativi alla febbre capitalistica, dall’ecoefficienza alla green economy, non fanno altro che ricadere all’interno della medesima logica del profitto a tutti i costi. È paradigmatico, a tale proposito, il cosiddetto “effetto rimbalzo” che molte strategie “verdi” comportano: costruire automobili più pulite significa in molti casi utilizzarle più spesso, aumentando così lo spreco energetico e l’inquinamento atmosferico. Come afferma il professore: «Con la crisi economica, la crescita verde è diventata, a destra come a sinistra, la panacea, il cuore di un New Deal ecologico, che permette un greenwashing e il rilancio di un capitalismo rifondato, etico e responsabile, drogato con gli ormoni dell’ecobusiness[11]».
L’unica terapia per guarire il malessere dell’umanità e scongiurare una terrificante finis mundi è, secondo Latouche, procedere oltre l’impostura del Pil, liberarsi del predominio dell’economia e distaccarsi dal ben-avere, per riappropriarsi di un reale benessere. E’ necessario perciò intraprendere il “Tao della decrescita”, insieme progetto educativo, slogan provocatorio e progetto politico incentrato sulle cosiddette otto “R”: rivalutare, ricontestualizzare, ristrutturare, rilocalizzare, ridistribuire, ridurre, riutilizzare, riciclare[12]. La meta finale è istituire una società ecosocialista giusta e democratica: «Oggi la festa è finita. […] La sola possibilità di sfuggire alla pauperizzazione, al Nord come al Sud, consiste nel ritornare ai fondamenti del socialismo, questa volta però senza dimenticare la natura: dividere la torta in modo equo[13]».
Riguardo a ciò, Latouche fa propria la lezione di Georgescu-Roegen sull’impossibilità di una crescita economica infinita su un pianeta finito, basata sulla termodinamica e sulla legge dell’entropia. La Terra ha dei limiti fisici che la produzione economica non tiene in considerazione; risorse ambientali rinnovabili e non, di conseguenza, devono essere sfruttate sapientemente. Ed è dunque la saggezza, la phronesis aristotelica, ciò che l’uomo deve nuovamente riattivare, contrapposta alla razionalità strumentale e calcolatrice che, in molti casi, si rivela piuttosto come una follia schizofrenica, che dimentica il senso del limite e della misura, conducendo la specie umana sul baratro della sesta estinzione di massa[14].
Con l’ausilio di un’immagine, la filosofia di Serge Latouche può essere interpretata come un vespro, la preghiera dell’imbrunire, rivolta contro il vento Zefiro, brezza di ebbrezza, che spira da ponente. Per lui è suonata l’ora canonica del West. Sarà importante non confondere, come Pitagora, il pianeta Venere – Vespero, stella della sera visibile a ovest, sull’orizzonte, dopo il tramonto – con Lucifero, l’asterisco afrodisiaco del mattino.
In che senso si può però parlare di occidentalizzazione del globo? Cosa significa precisamente? Per rispondere Latouche si avvale di due metodi: diagnosi storica ed esame analitico. Dapprima, si preoccupa di scavare nel passato onde scovare i capisaldi del fenomeno, in qualche modo sulla scorta del processo genealogico nietzschiano. In seguito, punta direttamente alla cosa, direbbe Edmund Husserl, per cercare di individuare ciò che si può chiamare l’occidentalità, ossia definire fenomenologicamente l’essenza del suo oggetto di studio.
Il punto di partenza per Latouche è il dato presente, vale a dire il fatto sociologico che, già verso la fine degli anni ‘80 del XX secolo, lo stile di vita “western” si è imposto sui costumi di gran parte dei popoli. Il simbolo emblematico di questa standardizzazione di massa è la costatazione che, pressoché in ogni angolo del pianeta, le strade si svuotavano all’ora di “Dallas[15]”. Le assurdità dell’attualità rappresentano, per lui, uno status quo a cui è necessario opporsi. Effettivamente il reale si impone, come direbbe Maurizio Ferraris[16], anche se spesso in maniera offuscata, e scorre sotterra come un fiume carsico che riaffiora occasionalmente in superficie. Compito dell’intellettuale è, secondo Latouche, (in affinità col pensiero critico della Scuola di Francoforte) osservare obliquamente gli avvenimenti correnti, al fine di risalire il mainstream contemporaneo – un po’ come i salmoni o, come suggeriva Walter Benjamin, spazzolando la storia contropelo.
In questo modo, l’economista-filosofo francese giunge sino al periodo coloniale, inteso come atto di nascita ufficiale del processo di occidentalizzazione. Qui si assiste alla presa sulle ricchezze e sulle anime dei popoli indigeni. In prima battuta i bianchi, perpetuando uno scriteriato dominio della natura, si occupano della conquista militare di territori vergini e dei rispettivi abitanti, vittime di asservimento commerciale e sfruttamento produttivo. Tuttavia, l’imperialismo dei colonizzatori non si realizza soltanto sotto forma di soggiogamento politico mediante una presenza concreta e violenta, ma anche come dominazione astratta, cioè come imposizione potente di forze simboliche. Queste sono i valori propri dell’Occidente, ossia in sostanza la fede nel progresso, il culto della scienza e il dogma della tecnica. In altri termini, accanto all’occupazione dei mercati e all’approvvigionamento dissennato di materie prime, si attua un’estesa opera di evangelizzazione ai comandamenti dell’Europa dell’epoca. Ancora, oltre alla ricerca di nuove terre e manodopera, la crociata occidentale si svolge come amministrazione delle menti e dell’immaginario dei popoli sottomessi. A ben vedere, i conquistadores hanno portato in trionfo il modello occidentale grazie a quelle che Latouche chiama le tre “m” dell’imperialismo, ovvero militari, mercanti e missionari: «Le compagnie dei condottieri assicurano la conquista dei territori e degli uomini, le compagnie delle Indie assicurano la conquista dei mercati, la compagnia di Gesù assicura la conquista spirituale[17]».
Le tappe di questa colonizzazione sono sostanzialmente tre per l’autore. La prima inizia intorno al XII secolo come predicazione cristiana: «Si rileggano i romanzi cavallereschi e vi si troverà già tutto l’immaginario dell’epopea coloniale[18]».  La seconda raggiunge il suo culmine nel XVI secolo sotto l’imperium di Carlo V, mentre la terza si colloca nel XIX secolo come fardello dell’uomo bianco, corsa alla bandiera e inventario enciclopedico del cosmo. Da queste basi si costruirà l’ordine nazionale-statale che, dopo la Prima Guerra Mondiale, entrerà in crisi con l’affondamento della Belle Époque, lasciando spazio all’espansione dell’economia-mondo capitalistica. A questo punto, si inaugura dunque una fase inedita di subdolo neocolonialismo, che si protrae anche dopo le cerimonie ufficiali della decolonizzazione. In realtà, ragiona Latouche, con l’affermarsi del liberismo, gli Stati stanno nel complesso diventando sempre meno indipendenti, manovrati dalla mano invisibile di un’organizzazione economica che, tramite il mantra del laissez-faire, dirige le briglie del mondo. I diritti dei popoli e la sovranità nazionale, infatti, hanno ceduto il passo al libero scambio in libero mercato. Mediante un processo di mimesi fatto di violenza e seduzione, la coscienza di sé dell’Occidente si afferma sul globo, come industrializzazione periferica e spesso come legge della giungla o, per l’appunto, del far west.
            Così, nonostante si intravedano temporaneamente delle crepe nel sistema occidentale, come dimostrano le sue periodiche crisi, esso riesce nuovamente a rigenerarsi dalle sue stesse ceneri, alla stregua dell’araba fenice. Il motivo di ciò è che l’Occidente è più che la somma delle sue parti. Il “Paese della sera”, esamina Latouche, ha sicuramente una base geografica, ossia l’Europa. Esso è però diventato un paradigma “deterritorializzato”, riproducibile in altre zone del mondo quali Stati Uniti e Giappone che, insieme alla penisola europea, formano ciò che lui chiama la Trilaterale. In secondo luogo, è intriso di cristianità, anche se non si esaurisce affatto in una griffe religiosa, come risulta anche dalla proliferazione confessionale oltre al cattolicesimo[19]. In terzo luogo, è stato inizialmente un monopolio della razza bianca, estendendosi poi a macchia d’olio, indifferentemente dal colore della pelle o da un improbabile legame di sangue. In quarto luogo, si basa su una filosofia, che corrisponde in breve all’etica universalistica dei Lumi. Ma accanto a questo lato, potremmo dire, apollineo dell’ideologia occidentale, è emersa anche la sua ala dionisiaca, di cui Nietzsche rappresenta l’esponente di spicco. Infine, pure l’attributo che più degli altri sembrerebbe una specie di marchio di fabbrica dell’Occidente, cioè il capitalismo, appare insoddisfacente, dal momento che ignora quel che viene prima della sua esplosione. D’altronde, in questo modo non terremo nemmeno conto della sua variante sovietica, ovvero il socialismo reale che, a ben vedere, condivide col capitalismo mania di industrializzazione e urbanizzazione, culto del progresso e dominazione modernista della natura.
            Che cos’è allora l’Occidente? Latouche lo paragona a una macchina vivente, un ibrido organico e meccanico che, prendendo a prestito l’espressione da Lewis Mumford, chiama “Megamacchina” tecno-economica o tecnico-scientifica. In altri luoghi del libro, utilizza la metafora di un rullo compressore che tenta di livellare ogni alterità, lasciando dietro di sé il deserto. Altrove lo definisce “Centro” che invade le periferie del mondo, innestando il suo immaginario sociale: concezione lineare e cumulativa del tempo, credenza nel dominio totalitario della natura, fiducia nella ragione geometrica per organizzare l’azione dell’uomo. Newton e Descartes sarebbero dunque coloro che avrebbero rinforzato il “poligono giudeo-ellenico-cristiano”, l’arsenale concettuale dell’Occidente. 
Ecco che l’Occidente si configura più specificatamente come una “anti-cultura” che si regge sull’architrave della performance: un gusto per il record che rende gli individui pedine di un gioco concorrenziale che, a sua volta, esclude ovviamente i perdenti. In ciò esso sarebbe opposto al senso della misura di certe culture arcaiche, olistiche perché offrono a tutti i loro membri una chance alla “sfida dell’essere”.
Insomma, se è utile un’altra figura (assente in Latouche), l’Occidente prenderebbe le sembianze di una piovra i cui tentacoli prendono il nome di Europa, razza bianca, cristianità, Illuminismo, capitalismo, scienza, tecnica e sviluppo. La testa sarebbe formata dal culto della performance e dalla consapevolezza della propria superiorità nei confronti delle altre culture. Del resto, l’Octopus è un mollusco cefalopode (dal greco kephale, “testa” e pous, podos, “piede”) presente in tutti gli oceani, e molto diffuso nel mar Mediterraneo. Privo di scheletro, è in grado di assumere qualsiasi forma e ha la capacità di cambiare repentinamente colore; abilità che gli permette di mimetizzarsi piuttosto bene. Per di più il polpo, animale molto solitario, è dotato di tre cuori e possiede una doppia fila di ventose su ognuno degli otto tentacoli. Emette inchiostro nero per difendersi e confondere possibili predatori. Considerato uno degli invertebrati più intelligenti, riesce a liberarsi piuttosto bene dai pescherecci.  
L’occidentalizzazione, secondo Latouche, è quindi un cancro che si estende sulla superficie della Terra fomentando il sottosviluppo quand’anche il genocidio. In quanto modello trans-storico e a-spaziale, è un sistema parassitario di spoliazione che provoca anche deculturazione ed etnocidio. Tale conversione ai valori dell’Occidente comporterebbe una vita disincantata, un’assimilazione da parte delle culture tradizionali della sua Weltanschauung. Tuttavia, il filosofo francese insiste anche sul carattere assolutamente pacifico di questa aggressione culturale, perpetuata più che con le armi, col trucco irresistibile e soffocante del dono. 
Gli agenti di siffatto sradicamento sono per Latouche la logica della fabbrica, l’urbanizzazione e il “nazionalitarismo” – categoria con cui denomina l’imposizione dell’ordine nazionale-statale come unica forma del politico. Questa, però, rappresenta ai suoi occhi anche un limite dell’occidentalizzazione. Lo Stato-nazione è entrato in crisi, perché sono venuti meno i concetti di nazionalità economica e di società industriale. Sia che si tratti di uno Stato guardiano notturno che di uno Stato padrone onnipresente, ormai la nazione è erosa dall’internazionalizzazione e dalla “multinazionalizzazione” dell’economia. «La macchina tecno-economica», afferma Latouche, «continua a girare in un quadro sempre più surreale[20]». Parimenti, la società si sgretola a colpi di “transculturazione”, estraniazione o alienazione generalizzata, il che implica un progressivo impoverimento culturale. Ne deriva la fine della società delle nazioni: un caos fatto di istituzioni destrutturate, un mondo “a macchia di leopardo” in cui poche isole di prosperità – l’arcipelago dell’Assurdistan – si rinchiudono dentro a bunkers. Le economie sono sempre meno autocentrate e sempre più “estroverse”, mentre volge al termine l’era dello Stato-Provvidenza.
L’altro limite dell’occidentalizzazione è il fallimento dello sviluppo. Qui Latouche distingue tra un’occidentalizzazione passiva e una attiva. La prima è quella subita dai paesi del Terzo Mondo, mentre la seconda corrisponde all’acculturazione adottata, per esempio, dal Giappone. In entrambi i casi, il diktat economico conduce al crack del sociale; a élites caricaturali e grottesche in mezzo a un “Sud” miserabile e marginalizzato. La promessa di abbondanza materiale e quantitativa per tutti non è logicamente possibile. Pertanto, il tessuto sociale si lacera e si decompone la trama solidale della collettività. E il capitale se ne frega.
L’Occidente sta cadendo a pezzi, resta da vedere se questo corrisponde soltanto alla fine di una civiltà o alla fine dei tempi tout court. La risposta di Latouche è, com’è noto, la prima. Esistono ancora in certe zone del globo sopravvivenze, resistenze e stravolgimenti che testimoniano il dinamismo dell’Altro, non spianato completamente dalla Megamacchina. Società eterodosse si dimenano dai tentacoli della piovra e reagiscono alle performances dell’Occidente con un bricolage creativo. All’orizzonte del maelstrom si profilano nuove prospettive autenticamente postmoderne, come gli artigiani del settore “informale”: industriosi e ingegnosi senza essere ingegneri e industriali. Essi si scontrano coi presupposti ideologici dell’economia “formale”: edonismo individualistico a livello antropologico; contrattualismo a scopo lucrativo a livello sociale; trasformazione della natura per soddisfare i bisogni dell’homo oeconomicus a livello fisico-tecnico. In questo senso, occorre abiurare la missione redentrice dell’accumulazione illimitata e della produzione per la produzione, puntando sulla ricchezza di un’umanità pluralista. Perché «la pluralità dell’uomo è forse sul piano culturale come sul piano genetico la condizione della sua sopravvivenza[21]».
Ora, rifiutando ogni manicheismo, bisogna andare sia al di là del “desiderio di apocalisse” sia oltre alla “nostalgia dell’universale”. Nel dettaglio, dobbiamo tanto sdrammatizzare il fascino masochista della catastrofe, quanto sbarazzarci dell’illusione dell’immortalità, ovvero della leggenda della marcia vettoriale della civiltà moderna. Allo stesso modo, è necessario riconoscere e la fine del solipsismo culturale e il “paradosso dell’uguaglianza”: «Riteniamo che non si dia vera universalità che sia monopolio di una cultura, foss’anche la nostra[22]». Al contrario, bisogna ricreare uno spazio vitale di coesistenza, ottenibile mediante un dialogo autentico tra le culture. Per questo è necessario prestare ascolto a quelle «testimonianze commoventi della ricostituzione delle differenze[23]».
La questione del “doposviluppo” è affrontata più approfonditamente in Come si esce dalla società dei consumi. Corsi e percorsi della decrescita (letteralmente in francese: “vie e voci della decrescita”). Questo libro del 2010 è contrassegnato, potremmo dire, da un’impronta ecologica più accentuata rispetto al primo volume. Infatti, partendo dalle analisi scientifiche più aggiornate del tempo su, ad esempio, la “deregolazione climatica” o altri fenomeni irreversibili provocati dall’essere umano, esso si chiede: ci sarà vita dopo lo sviluppo?
L’opinione di Latouche è che ormai sia già troppo tardi per arginare gli effetti collaterali del “sovraconsumo esosomatico” sugli ecosistemi. Adesso si tratta di capire come gestire il collasso dell’Antropocene, e la sua “minaccia di eutrofizzazione”, cioè di asfissia della vita. L’impasse del “turbocapitalismo” è avvenuta per lui in tre fasi. Nel 1750 nasce il capitalismo occidentale: è il sogno di Adam Smith, l’utopia liberale della classe borghese, che determina però la distruzione delle civiltà contadina e artigiana, oltreché una “rapina imperialista” del mondo. Il 1850, tramite la macchina a vapore e il carbon fossile, segna il passaggio al “sistema termoindustriale”, che è ancora caratterizzato da periodiche crisi di sovrapproduzione. E’ soltanto con l’invenzione del marketing – «l’arte di riduttore di teste per eccellenza[24]» – nel 1950 che si inaugura la società dei consumi, retta da pubblicità, credito e obsolescenza programmata.
Il retro del lusso è però una “massiccia produzione di decadenza”, stimolata dall’accelerazione dell’usa e getta. Ecco perché «l’economia della crescita ha la derelizione come motore e moltiplica i “disgraziati”[25]». Per tale motivo, la colpa della società dello spreco è il “disconoscimento” o l’oblio dell’essere: «Istituendo la scarsità per mercantilizzare la fecondità della natura e rifiutando di prendere in considerazione il “rovescio” della produzione mercantile – cioè i rifiuti, l’inquinamento, la distruzione dell’ambiente, lo sconvolgimento degli equilibri ecosistemici – la società della crescita dimostra di “dimenticare” l’essere[26]».
Un obbiettivo della futura civiltà sarà allora la “riabilitazione dei falliti”, dal momento che «una società decente non produce falliti[27]». Di conseguenza, occorre riattivare uno “spirito del dono”, che trasmetta un sano altruismo tra gli individui.  Per Latouche è fondamentale riguadagnare i beni relazionali, secondo la dottrina della philia aristotelica, affinché regni giustizia, e gli uomini riconoscano il loro debito con la biosfera, le generazioni future e il Sud del pianeta.
Secondo lo studioso, la strada per arrivare a ciò consiste in un progetto di tre momenti: critica alla società della crescita, programma politico di transizione e utopia concreta dei circoli virtuosi della decrescita. In primo luogo, occorre quindi “decolonizzare l’immaginario”, vale a dire frantumare il “martello dell’economico” che ci batte nella testa, rompere con le parole dell’omnimercificazione. Sul piano delle rappresentazioni siamo infatti avvelenati da una particolare “tossicità del pensiero”: la logica suicida della Crescita. In secondo luogo, bisogna compiere “la rottura delle cose”, ossia dichiararsi “partigiani della decrescita” e combattere il delirio della “fantaeconomia”. Così facendo, l’uomo può di nuovo metabolizzarsi con il suo habitat naturale, per liberarsi dalla camicia di forza dell’ultramodernità. Serve innescare una “demercificazione” di lavoro, terra e moneta, le tre merci fittizie. Soltanto in questo modo è possibile, per Latouche, una vera ricerca della giustizia, mediante un progetto politico rivoluzionario, da realizzare però attraverso un programma di transizione riformista. Al circolo virtuoso delle otto “R” della decrescita si giunge mediante un’utopia concreta che, fra l’altro, prevede di ricompartimentare il mercato finanziario e riframmentare gli spazi monetari. Il fine del piano è una sobria autolimitazione dei bisogni, basata sulla nozione di resilienza[28].
Tuttavia, tale esito è impensabile senza un’appropriata educazione alla decrescita. E’ necessario, in altre parole, uno schema pedagogico diverso da quello che si può chiamare il sistema d-istruzione consueto. Latouche parla infatti di una “disinformazione scolastica”, che insegnerebbe ignoranza, “controverità strabilianti” e “negazionismo ecologico”: «La scuola è un rituale iniziatico alla magia economica. Ed è anche una propedeutica alla banalità del male[29]». In aggiunta, l’attuale paideia è affidata alla tv, che cagionerebbe nei giovani una “lobotomizzazione dei cervelli”. Gli adolescenti vivrebbero dunque in tale regime di “cretinizzazione civica”, vittime di una “formazione deformante” e della “formattazione” delle loro menti. 
Invece di allevare alla mandevilliana favola della api[30], per cui greed is good (l’avidità è buona[31]), i docenti, per essere decenti, dovrebbero piuttosto spiegare l’estinzione delle api, pare dirci Latouche. Si deve perciò passare dall’addestramento di ingranaggi lubrificanti per la Megamacchina, alla formazione dei granelli di sabbia che la bloccheranno. E’ urgente demistificare e demitificare il grande racconto occidentale, per riacquistare un’autotrascendenza o spiritualità laica, basata sulla virtù dell’askesis. Anche perché l’ukase della tecnoscienza condurrebbe alla servitù volontaria del superliberalismo, ovvero a un’emancipazione fasulla degli individui, tradendo le speranze dell’Illuminismo[32].
In sostanza, l’homo oeconomicus prometeico somiglierebbe a un Übermensch che, vittima della sua stessa hybris, si è allontanato dal concreto, a causa della “corruzione tecnocratica” e dei “guasti dell’utilitarismo”. Tuttavia, la Megamacchina, dopo aver “artificializzato” il mondo, appare come un “colosso monolitico dai piedi d’argilla”, scosso da movimenti sismici “antisistemici”. La sua crisi rappresenta pertanto un’opportunità. Secondo Latouche, un altro sviluppo non è concepibile, sia esso equo-solidale o ecosostenibile. La soluzione è, come intravisto in precedenza, la creazione di bioregioni autonome gestite da una democrazia locale, lontane da un ecofascismo da “Khmer verdi”. Nondimeno, se una pennellata di verde non riuscirà a porre fine alla “farsa del capitalismo”, prima di approdare a una società della decrescita, possono rivelarsi utili coloro che il nostro chiama i “sensali della decrescita”. Voci diverse da quelle del pensiero unico e dai discorsi progressisti dell’economia e della tecnica, che conviene ascoltare[33].
Tra queste, Latouche cita l’economia della felicità. Essa si presenta come una “buona economia”, più vicina all’etica che alla crematistica. Una manifestazione di tale paradigma è l’economia del consumo di Arnaud Berthoud, basata appunto sul concetto di oikonomia aristotelico. Da simili premesse si sviluppa pure l’economia civile di Luigino Bruni, seguace della scuola napoletana di Antonio Genovesi del XVIII secolo. Sulla scia dell’eredità del tomismo, e a differenza dell’economia politica scozzese classica, entrambe le prospettive mettono in luce il ruolo della persona e del bene comune, allo scopo di costruire comunità solidali amministrate da un buon governo, indirizzato alla felicità terrestre. «Il progetto smithiano» commenta Latouche, «si fonda sull’immunitas del mercato contro la communitas[34]». Parafrasando Hobbes, possiamo dire che Robinson ha fatto naufragio nel cuore del deserto di ghiaccio, per cui abbiamo bisogno di una metanoia che ci traghetti oltre il “paneconomicismo”.
Nel libro esaminato compare anche una sezione dedicata alla presunta “via mediterranea” del controsviluppo. Infatti, a partire dal partenariato euromediterraneo tenutosi a Barcellona nel 1995, ha iniziato a diffondersi una certa nostalgia per una supposta identità meridiana, avallata da studiosi come il sociologo Franco Cassano. Secondo costui, esisterebbe una speciale “complicità geopolitica” tra la riva settentrionale del mar Mediterraneo e il Terzo Mondo, alternativa al modello occidentale standard. In realtà, argomenta Latouche, l’ideale di una Europa del Sud coincide con il mito dell’utopia mediterranea, che nasconde un’atroce ironia: «I rapporti mediterranei oggi sono fatti soprattutto di scambi di missili, di attentati terroristici, di prese di ostaggi e di flussi migratori[35]». Ad ogni modo, il pensatore francese riconosce, per esempio, l’esigenza di promuovere la dieta mediterranea (il “regime cretese”), per contrastare l’epidemia di cibo spazzatura, alimentata dalla globalizzazione, causa di obesità e malnutrizione.
Assolutamente benvenuti, invece, sono per l’intellettuale i segni di quello che si può chiamare un risorgimento degli amerindi. La scoperta, nel 1978, delle fondamenta stratificate della piramide azteca di Tenochtitlàn è assunto come simbolo di tale rinascita indiana. Essa, infatti, ha riportato in auge anche le radici delle culture schiacciate, solo parzialmente, dalla laminazione occidentale. Queste costituiscono «un crogiuolo di apici radicali da cui è possibile far germinare una nuova civiltà[36]». Riprendono vigore i movimenti rivoluzionari sudamericani, quale il Fronte zapatista del subcomandante Marcos. Rivendicazioni etniche, affiancate dalla teologia della liberazione, sono una ventata di freschezza per il vecchio terzomondismo latinoamericano. Così, risorgono i popoli autoctoni, dai metissaggi bravos e ladinos. Loro, attraverso gli ideali indigeni del sumak kausai (‘ben vivere’ in quechua) e del mandar obedeciendo (‘comandare obbedendo’), sono i portavoce di autonomia, diversità e pluriversalismo.
Altre voci, fuori dal coro monodico del crescendo “sviluppista”, provengono ancora, in qualche modo, dai versi polifonici degli animali. La zoologia di Latouche è interessante quando descrive alcuni “brevetti rubati alla natura”. Le galline, che in breve tempo trasformano il calcare in gusci d’uovo, potrebbero produrre un materiale più resistente del calcestruzzo e meno oneroso del cemento. Parimenti, le ostriche edificano conchiglie assai più durevoli dei nostri palazzi, e i ragni un filo più elastico del nylon. Terribilmente profetica appare la passività della rana, la quale si abitua al progressivo surriscaldamento dell’acqua in cui è immersa, morendo sbollentata[37]. Onde evitare questo triste finale, l’autore d’oltralpe eleva, in un certo senso, a guida dell’umanità la lumaca, in virtù, oltreché della sua lentezza, soprattutto della sua umile saggezza. Essa, a un certo punto della sua crescita, interrompe le spirali del proprio involucro, che diverrebbe un peso eccessivo per sopravvivere[38].
Avviandoci verso la conclusione del presente lavoro, si può dire che il secondo testo recupera il filo del discorso là dove si era interrotto nel primo. Infatti, la domanda di partenza de L’occidentalizzazione del mondo era sostanzialmente: come siamo arrivati a questo punto (o, secondo l’autore, come abbiamo fatto a ridurci così)? Come si esce dalla società dei consumi, invece, si chiede: adesso che abbiamo capito come siamo piazzati, che fare? Insomma, se il primo è maggiormente rivolto al passato (in fondo, l’espressione “occidentalizzazione” del titolo esprime un processo avvenuto, ancorché in corso), il secondo si proietta verso il futuro (sebbene ciò non significhi affatto un ripudio di antiche tradizioni, anzi) e indica una via d’uscita (di emergenza) che corrisponde al maniglione antipanico della decrescita.
Infine, riprendendo la duplicità semantica del verbo “errare” presentata all’inizio della relazione, può darsi che il disegno filosofico di Serge Latouche in certi punti pecchi di semplicismo, sbandando nel tentativo di sbrogliare l’intricata matassa di problemi che ci presenta la complessità del mondo odierno. Inoltre, sebbene preceduta da una coerente pars destruens, la proposta della decrescita risulta prima facie una soluzione politica di difficile attuazione. Tuttavia, il suo impianto teorico rappresenta senz’altro uno di quei “segnalatori d’incendio”, direbbe Walter Benjamin, del pensiero controcorrente. Resta infatti innegabile la necessità di fermarsi a riflettere sul destino della nostra civiltà, per poi mettersi nuovamente in cammino imboccando altri sentieri. 








BIBLIOGRAFIA

Gianluca Cuozzo, A spasso tra i rifiuti. Tra ecosofia, realismo e utopia, Mimesis, Milano-Udine, 2014.
Antonio Dall’Igna, “Occidentalizzazione del mondo e suoi limiti in Serge Latouche”, in Gianluca Cuozzo, Resti del senso. Ripensare il mondo a partire dai rifiuti, Aracne Editrice, Roma, 2012.
Martin Heidegger, Saggi e Discorsi, a cura di G. Vattimo, Mursia, Milano, 1991.
Serge Latouche, L’occidentalizzazione del mondo. Saggio sul significato, la portata e i limiti dell’uniformazione planetaria, trad. it. Di Alfredo Salsano, Bollati Boringhieri, Torino, 1992.
–, Il pianeta dei naufraghi. Saggio sul doposviluppo, trad. it. di Alfredo Salsano, Bollati Boringhieri, Torino, 2004.
–, Come sopravvivere allo sviluppo. Dalla decolonizzazione dell’immaginario economico alla costruzione di una società alternativa, trad. it. di Fabrizio Grillenzoni, Bollati Boringhieri, Torino, 2007.
–, La scommessa della decrescita, trad. it. di Matteo Schianchi, Feltrinelli, Milano, 2007.
–, Come si esce dalla società dei consumi. Corsi e percorsi della decrescita, trad. it di Fabrizio Grillenzoni, Bollati Boringhieri, Torino, 2011.




[1] M. HEIDEGGER, “La cosa”, in Saggi e Discorsi, a cura di G. Vattimo, Mursia, Milano, 1991, p. 122.
[2] Come egli stesso ammette, Latouche è ampiamente debitore nei confronti delle illuminazioni di Ivan Illich e Cornelius Castoriadis, propri numi titolari, che qui non approfondisco per motivi economici. Altri teorici di riferimento sono Jean-Pierre Dupuy e André Gorz; in senso lato, anche Ruskin, Thoreau, Gandhi e Aurelio Peccei, co-fondatore del Club di Roma. Si segnala, da ultimo, che Latouche ha recentemente curato una collana per Jaca Book sui precursori della decrescita: Jacques Ellul, Berlinguer, Terzani, Pasolini, Fourier e Tolstoj.
[3] S. LATOUCHE, Come si esce dalla società dei consumi. Corsi e percorsi della decrescita, trad. it di Fabrizio Grillenzoni, Bollati Boringhieri, Torino, 2011, p. 175.
[4] Su questo tema in particolare: S. LATOUCHE, Come sopravvivere allo sviluppo. Dalla decolonizzazione dell’immaginario economico alla costruzione di una società alternativa, trad. it. di Fabrizio Grillenzoni, Bollati Boringhieri, Torino, 2007.
[5] Cfr. G. CUOZZO, A spasso tra i rifiuti. Tra ecosofia, realismo e utopia, Mimesis, Milano-Udine, 2014.
[6] A questa e altre critiche Latouche replica nel volume Il pianeta dei naufraghi. Saggio sul doposviluppo, trad. it. di Alfredo Salsano, Bollati Boringhieri, Torino, 2004.
[7] S. LATOUCHE, Come si esce dalla società dei consumi, op. cit., p. 133.
[8] Ivi, p. 147.
[9] Ivi, p. 179.
[10] V. ivi, pp. 60-64.
[11] Ivi, p. 49.
[12] Il manifesto teorico della Società della decrescita è S. LATOUCHE, La scommessa della decrescita, trad. it. di Matteo Schianchi, Feltrinelli, Milano, 2007.
[13]S. LATOUCHE, Come si esce dalla società dei consumi, op. cit., p. 173.
[14] Ad ogni modo, resta da vedere fino a che punto la Società della decrescita non assuma anch’essa i connotati di un credo confessionale ascetico, ispirato più a una mistica professione di fede che non a presupposti ragionevoli.
[15] “Dallas” è una serie televisiva statunitense prodotta dalla CBS dal 1978 al 1991. La soap opera, poi ripresa dal 2012 al 2014, è incentrata sulla ricca famiglia Ewing, operante nel settore petrolifero e nell’allevamento industriale di bestiame.
[16] Filosofo torinese, teorico del cosiddetto “Nuovo Realismo”.
[17] S. LATOUCHE, L’occidentalizzazione del mondo. Saggio sul significato, la portata e i limiti dell’uniformazione planetaria, trad. it. Di Alfredo Salsano, Bollati Boringhieri, Torino, 1992, p. 16.
[18] Ivi, p. 18.
[19] Si potrebbe qui fare accenno al noto parallelismo istituito da Max Weber su spirito del capitalismo ed etica protestante.
[20] S. LATOUCHE, L’occidentalizzazione del mondo, op. cit., p. 109.
[21] Ivi, p. 144.
[22] Ivi, p. 148.
[23] Ivi, p. 127.
[24] S. LATOUCHE, Come si esce dalla società dei consumi, op. cit., p. 144
[25] Ivi, p. 70.
[26] Ivi, p. 73.
[27] Ivi, p. 70.
[28] Latouche cita come esempi concreti di “prosperità decrescente” le Transition Towns. In ogni caso, egli insiste nel ribadire che la decrescita non è una alternativa, bensì una “matrice di alternative”.
[29] S. LATOUCHE, Come si esce dalla società dei consumi, op. cit., p. 118.
[30] La favola delle api: vizi privati e pubbliche virtù, poemetto satirico di Bernard de Mandeville, pubblicato nel 1714.
[31] Motto di Gordon Gekko, ricco e spietato protagonista, impersonato da Michael Douglas, nel film “Wall Street” del 1987, diretto da Oliver Stone.
[32] Si potrebbe qui fare riferimento alla dialettica dell’Illuminismo di Horkheimer e Adorno. Il binomio Kultur-Zivilisation, invece, compare in parecchi luoghi della storia della filosofia; tra questi si ricordano Thomas Mann, Freud e Spengler, autore de Il tramonto dell’Occidente.
[33] L’autore attribuisce molta importanza anche alle voci delle donne: «Il capitalismo, l’economia e il fantasma della crescita infinita […] sono patricentrici e fallocratici, insomma maschilisti. […] La società della decrescita sarà femminista o non sarà. I valori specificatamente veicolati dalle donne, come quello del care, devono avere o riavere la meglio». (S. LATOUCHE, Come si esce dalla società dei consumi, op. cit., p. 156).
[34] Ivi, p. 82.
[35] Ivi, p. 153.
[36] A. Dall’Igna, “Occidentalizzazione del mondo e suoi limiti in Serge Latouche”, in G. CUOZZO, Resti del senso. Ripensare il mondo a partire dai rifiuti, Aracne Editrice, Roma, 2012, p. 90.
[37] S. LATOUCHE, Come si esce dalla società dei consumi, op. cit., p. 44. Esiste anche una disciplina, la Biomimetica, che studia la tecnologia della natura; peraltro, tale attività è stata da sempre eseguita dall’uomo. 
[38] Latouche nota che la chiocciola è stata scelta come rispettivo emblema sia dal movimento Slow Food che dai neozapatisti. Inoltre, caracol (“lumaca” in spagnolo) è il nome del centro politico-culturale nella regione indigena del Chiapas.

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