Mio zio mi ha dato la sua vecchia mountain bike, dato il suo mancato di utilizzo. Si tratta di una bicicletta bianca, con il telaio ornato di striature violacee con 7 cambi e una serie graduata di attriti. L’ho appesa a una parete del garage, sopra due staffe, dove è stata per tutto l’inverno. A primavera l’ho tirata giù: ho gonfiato le gomme e ho deciso di partire per un giretto attraverso i sentieri boschivi nei dintorni.
Una prima
salita mi fa imprecare ognuno dei raggi delle ruote, mentre smanetto sui
rapporti per trovare una marcia leggera adatta all’arrampicata, finché la
catena si inceppa, bloccando i pedali e facendomi così perdere l’equilibro. Fortunatamente
con un goffo balzo riesco a togliermi dalla sella, evitando in questo modo il
capitombolo. Al che rimetto a posto la catena e già che ci sono alzo un poco la
sella perché sembro un clown su quelle bici piccole del circo, con le ginocchia
in prossimità delle spalle. Poi riparto.
L’esperienza
insegna che dopo una salita segue una discesa: in quel momento l’aria mi arriva
in faccia e pare davvero di volare, tanto che per un attimo mi viene in mente
di chiudere gli occhi e lasciarmi trasportare per godere a pieno il momento. Un
clacson di automobile mi fa repentinamente cambiare idea, e capire che sto
leggermente invadendo la corsia di una strada provinciale a due sensi di marcia
ma priva della linea di mezzeria. Penso a tutte le volte che guidando la
macchina mi sono imbattuto anche io in scene del genere ma a rapporti invertiti,
maledicendo il ciclista, o più spesso il gruppetto di ciclisti, che se ne sta come
un re beato al centro della strada ignorando completamente il fatto che dietro
di lui c’è una vettura nel cui abitacolo risiede un guidatore magari di fretta
che, sorpassandolo, esprime a gesti o a parole o solo mentalmente il disprezzo
generalizzato verso tutta la categoria.
Finito l’asfalto,
mi inoltro in un sentiero sterrato, che fa sobbalzare le mie natiche poco
allenate, e le mie braccia come se stessi impugnando un martello pneumatico. Intanto
spero che i pneumatici non esplodano di colpo, dato che sono alquanto datati.
In seguito la luce che abbaglia i miei occhi si attenua; il fogliame degli
alberi in fiore filtra i raggi del sole, dando tregua alle pupille che, però,
devono già subito concentrarsi per trovare il passaggio migliore onde evitare
alcune pozzanghere. Riesco a schivare la prima defilandomi sulla destra; torno
poi di nuovo al centro della carreggiata dove scorgo un varco aperto da un
altro ciclista; alla terza pozza, non vedendo vie d’uscita percorribili,
accelero la pedalata con l’intenzione di oltrepassare il pantano a mo’ di
motoscafo. Il risultato tuttavia è che, dopo un paio di metri di schizzi, la
ruota davanti si impaluda. Allora sono costretto a scendere e guadare la melma
spingendo il velocipede a mano, mentre scopro di essere interamente punteggiato
di macchioline beige, credo anche in faccia.
Il percorso
prosegue sul terreno ghiaioso o fangoso, a tratti concavo e altre convesso, in
una corsa davvero divertente su piccole montagne russe naturali, cercando di schivare i rovi che fanno capolino lungo la via. Il fatto di
non andare particolarmente veloce mi consente di osservare gli splendidi sfondi
ai miei lati: querce, castagni, gaggìe si alternano campi di erbe selvatiche o
coltivate; e a qualche sacco della spazzatura o rifiuti di plastica. L’andatura,
inoltre, mi permette di recuperare un concetto, diciamo, più naturale del
tempo: col variare della velocità capisco davvero cosa significhi percorrere una
salita e una discesa; una cosa non più così immediata procedendo con un motore
sotto il sedere. Pedalare insegna che una discesa costa fatica. Andando in bicicletta ho così
imparato quanto bisogna sudare prima di godere di libertà e brezza fresca. La forza di gravità ha i suoi privilegi ma anche i suoi inconvenienti. Il contesto
silvestre lascia dunque spazio a un piccolo agglomerato di abitazioni, dove
decido di sostare un po’ per riprendere fiato, bere dalla borraccia un
miscuglio di acqua e sali minerali e far riposare le mie chiappe doloranti. Capisco
quindi l’assoluta necessità di procurami dei pantaloncini imbottiti, o magari
direttamente un cuscino a forma di sellino.
Finita la
pausa mi rimetto in marcia, con i polpacci sempre più duri e gli occhi che
bruciano a causa del sudore che cola dalla fronte. Ogni tanto, quando la
sofferenza è al limite della sopportazione, sollevo il deretano provando una
sensazione di gioia immensa, e quasi mi commuovo. Nel viaggio di ritorno
incontro qualche altro amante delle due ruote, a cui un codice non scritto
impone l’obbligo di porre un saluto, come intendo presto. Verso la fine, altri
due corridori mi superano con estrema facilità, prestando fede al codice non
scritto (e probabilmente aggiungendovi anche un pizzico di sarcasmo).
Ritorno a casa
stanco e sporco; appena metto nuovamente piede sulla terraferma, manca poco che
casco al suolo, poiché le gambe tremano e paiono non reggermi. Sono una specie di
robot sudicio con il culo indolenzito che cammina a scatti. Do una pulita alla
bicicletta e alle mie scarpe totalmente ricoperte di fango marrone. Ma sono
veramente contento dell’esperienza, che intendo ripetere a breve. E ragiono sul
fatto andare in biciletta non è poi così diverso dallo scrivere. Macinare
chilometri e aggrumare parole: partire, avanzare lungo una strada dove si
incontrano sassi e lettere, arrivare alla fine del tragitto. E’ una questione
di ritmo – bisogna prendere il tempo giusto, trovare il giusto rapporto. Capita
di bloccarsi e bisogna pertanto fermarsi per risistemare la catena e ripartire.
Si sale e si scende, si va in piano, con fatica oppure lasciandosi trasportare
da un flusso mentre si vorrebbe chiudere gli occhi e immergersi in un universo
di piante e aria fresca. Ma un clacson o un sacchetto della spazzatura ci
riportano bruscamente alla realtà.
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