Spesso una grande bellezza è insita nella fragilità.
Cantava Fabrizio De André – maestro di Bellezza caduca – nella sua ballata “La
Canzone di Marinella”: «E come tutte le più belle cose/vivesti solo un giorno
come le rose». La delicatezza dei petali che regalano una fioritura fugace; un
breve bacio d’un istante che pare eterno. Effimere (dal greco epì, emera:
“di un solo giorno”) i colori potenti sulle graziose ali delle farfalle; la sublime
decadenza di Venezia, appesa a un labile destino (innalzamento del livello del
mare docet…). D’altronde, la vita
stessa è un transito terrestre passeggero: facciamo però che non sia una
camminata nichilistica tra le macerie della storia.
E proprio A spasso tra i rifiuti (Mimesis, 2014) s’intitola una precedente pubblicazione
di Gianluca Cuozzo, docente di filosofia presso l'Università degli Studi di Torino. Perché la nostra società dell’usa-e-getta assomiglia purtroppo
al “Paese delle ultime cose” del romanziere statunitense Paul Auster, dove «gli
oggetti sono ancora per un attimo, ma subito dopo si trasformano in cumuli di
spazzatura[1]».
Come non pensare, allora, a Italo Calvino il quale, urbanista di castelli di
carte, durante il suo tour delle città invisibili, fa tappa a Leonia. Cinta
all’interno di mura costituite da rifiuti, ogni giorno questa polis riparte da zero: al mattino tutto
è nuovo, mentre le robe vecchie vengono gettate via. La precarietà sembra in
effetti il marchio di fabbrica di quest’epoca postmoderna, che si crede priva
non solo di fisse fondamenta metafisiche e ideologiche (i “Grands Récits” della modernità, denunciati da Jean-François Lyotard),
ma addirittura del basamento naturale su cui poggiamo i piedi. A tale
proposito, in Regno senza grazia Cuozzo
scrive:
Che questo pensiero
profondo – quello del radicamento –
ci sfugga oramai del tutto, è in qualche modo testimoniato dal nostro
atteggiamento nei confronti della realtà straziante dei terremoti: unica presa
d’atto, da parte dell’odierno uomo occidentale, della sua dipendenza da una
Madre Terra che non è né sarà mai addomesticabile in tutto e per tutto.[2]
Eccoci qui, dunque, a indignarci
ancora una volta di fronte alla gracilità delle italiche istituzioni politiche
che perpetuano il declino di una città come l’Aquila. Perché siamo al punto in
cui “fine della storia” non indica più primariamente la ricerca di uno scopo,
di un proposito o di un’aspirazione nei riguardi del Tempo. Fine della storia
oggi può letteralmente significare fine della corsa: rovina dell’ambiente,
crollo del sistema Terra, game over
della società umana, quand’anche punto omega del mondo. Un po’ come il
terremoto che colpì Lisbona nel 1755, ma di proporzioni globali e all’ennesima
potenza[3].
«I mortali devono anzitutto imparare ad abitare», tuonava lo “sciamano della
parola” Martin Heidegger, giacché «solo se abbiamo la capacità di abitare
possiamo costruire[4]».
Invece, in questi tempi crepati, mentre assistiamo al parto di ecomostri venuti
al mondo assieme a colate di cemento, cerchiamo per lo più un giaciglio dove
poter dormire ed espletare le nostre esigenze fisiologiche – un tetto per non
essere colpiti dai fulmini e dalle piogge acide. Così, se i rendering virtuali disegnano progetti
che poi, nella realtà, non rispettano
i protocolli antisismici, dobbiamo poi dire con Papa Francesco: «Se l’architettura
riflette lo spirito di un’epoca, le megastrutture e le case in serie esprimono
lo spirito della tecnica globalizzata, in cui la permanente novità dei prodotti
si unisce a una pesante noia[5]».
Prendere residenza in una città vuol
dire perciò soprattutto sentirsi parte di una comunità. In generale, l’ecologia
insegna appunto come il singolo individuo sia parte di un tutto organico che si
sviluppa grazie a una fitta rete di relazioni biologiche; una trama intessuta
da fibre di biodiversità che si crea tra animali, vegetali e l’intero ambiente
circostante. Un milieu brulicante di
esseri viventi e inanimati che fanno respirare il pianeta grazie all’armonia
sinfonica e concertata degli elementi che rendono possibile la vita, e
l’evoluzione delle specie all’interno della biosfera, nostra casa resa
traballante anche per colpa dell’abusivismo edilizio umano. Con un’immagine possiamo dire che al posto della città di Prometeo è quindi
giunto il momento di insediare la città di Anfione, il quale costruì le mura di
Tebe con il suono magico della sua lira: secondo il mito, le pietre si posavano
simmetricamente grazie al potere ordinatore della musica[6].
Tuttavia, ancora le trivellatrici alla
ricerca di petrolio (oggetto del recente dibattito referendario) è come se
compissero attraverso perforazioni profonde un quotidiano viaggio al centro
della Terra. In questo senso l’attività dell’uomo è un alternarsi di cave: tra
miniere e discariche a cielo aperto l’umanità sta scavando la propria fossa
comune; anche se assume le sembianze di un accogliente sarcofago a led (Las
Vegas, Dubai, Disneyland…), essa resta irrimediabilmente una tomba. Lo skyline del pianeta assomiglia pertanto
a certi grafici economici: un elettrocardiogramma patologico, un sismogramma
impazzito che traccia linee irregolari sulla superficie di una litosfera
eccessivamente sotto sforzo.
Fin dai suoi esordi, troppo spesso la filosofia si è librata in volo verso
iperurani favolosi per contemplare il cielo delle idee, perdendo di vista i tanti pozzi disseminati su questo pianeta che, come
trappole, incrociano il cammino dell’uomo. Il riferimento, com’è noto, riguarda
l’aneddoto narrato da Platone secondo cui Talete, reputato da Aristotele il
primo filosofo occidentale, occupato ad ammirare gli astri della volta celeste,
incappa in un pozzo tra gli sberleffi dei passanti[7]. Infatti,
come ironizzava causticamente il commediografo Aristofane, il filosofo vive
spesso “tra le nuvole”: ma cosa succede se, guardando i suoi piedi, non trova
più il mondo? Di conseguenza, sia accolta la provocazione: evviva la rivoluzione
tolemaica! Abbiamo di nuovo bisogno di un modello geocentrico che ponga il
mondo sublunare in mezzo al nostro paradigma etico-culturale, di modo che
l’uomo non si senta più senza fissa
dimora in un angolo buio del multiverso delle idee.
Dall’iperuranio all’ipogeo: serve una
ecosofia, nel senso di cultura dell’abitare e saggezza della “casa” comune,
dove ri-prendere residenza per ottenere un
autentico “permesso di soggiorno” (terrestre), potremmo dire, dopo aver
svolto responsabilmente le nostre “faccende domestiche”, alla stregua di rispettosi
“casalinghi” planetari. Urge una filosofia tellurica: un pensiero davvero umile,
che sorga dal suolo – materia prima (come
l’animale humanum, peraltro: “uomo”
proviene dal latino humus che
significa terra; Adamo, il primo uomo, indica “argilla rossa” in ebraico). Occorre
infine una cura per guarire dalle ferite del nostro disordine esteriore e interiore,
nonché un mastice per riassestare le faglie sismiche del quarantotto mondiale.
E vorrei concludere con i primi versi
della canzone scritta da Mauro Pagani (tra l’altro, eclettico musicista che con
la PMF accompagnò la voce di De André) e, subito dopo il terremoto che ebbe
come epicentro la conca aquilana, riadatta insieme ai più celebri nomi del
panorama musicale italiano, per raccogliere fondi con la campagna “Salviamo
l’arte in Abruzzo”: «Tra le nuvole e i sassi passano i sogni di tutti, /passa
il sole ogni giorno senza mai tardare. /Dove sarò domani?/ Dove sarò?[8]».
Fabio
Dellavalle
[1] Cfr. G. CUOZZO, “Città spazzatura
e utopia del residuale: il ‘paese delle ultime cose’ di Paul Auster”, in AAVV, Quaderni Augusto Del Noce, Marco, Lungro
di Cosenza, 2010, pp. 401-420.
[2] G. CUOZZO, Regno senza grazia, Oikos e
natura nell’era della tecnica, Mimesis, Milano-Udine, 2013, pp. 20-21.
[3] Il giorno di Ognissanti del 1975
un violento movimento tettonico colpì la capitale del Portogallo. L’evento ebbe
notevoli ripercussioni anche a livello filosofico e culturale in Europa. Nel
dettaglio, il cataclisma scosse la rosea credenza nel “migliore dei mondi
possibili” espresso, per esempio, dalla teodicea di Leibniz, inaugurando la
cosiddetta “filosofia della catastrofe”. Infatti, già l’anno successivo Kant
fece pubblicare il suo primo scritto sui terremoti, mentre Voltaire redasse il Poema sul disastro di Lisbona. In
polemica con Rousseau, lo stesso autore scrisse poi Candido, o l’ottimismo, scagliandosi contro la fede ingenua nella
Provvidenza divina.
[4] M. HEIDEGGER, “Costruire Abitare
Pensare”, in Saggi e Discorsi, a cura
di G. Vattimo, Mursia, Milano, 1991, pp.107-108.
[5] PAPA FRANCESCO, Laudato si’,
Enciclica sulla cura della casa comune,
San Paolo, Milano, 2015, p. 113.
[6] Cfr. R. ASSUNTO, La città di Anfione e la città di Prometeo,
Jaca Book, 1997; L. VALLE (a cura di), Ri-abitare
la Terra, Ibis, Como-Pavia, 2005, p. 27.
[7] Cfr. H. BLUMENBERG, Il riso della donna di Tracia. Una
preistoria della teoria, trad. it. di B. Argenton, Il mulino, Bologna,
1988.
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