martedì 22 marzo 2022

Diario di pace


Racconto breve liberamente ispirato al servizio di un telegiornale

 

 

Il primo giorno nella nuova scuola tutti ci hanno battuto le mani - un lungo e fragoroso applauso da parte delle maestre, del dirigente, del personale e degli altri bambini. Appena si è aperta la porta e siamo entrati nell’androne dell’istituto io e mio fratello siamo rimasti confusi; ci siamo guardati negli occhi più volte, in mezzo a quella calorosa e inaspettata accoglienza, tra palloncini gialli e blu, fogli bianchi sventolanti e bandiere arcobaleno. Perché ci hanno applaudito così intensamente? Quale sarebbe il nostro merito?

 

Siamo da pochi giorni in Italia, un paese che sentivamo ogni tanto pronunciare dai nostri genitori o dai loro amici, quando parlavano di qualche parente che qui era venuto per lavorare oppure in vacanza. Dell’Italia venivano lodate le bellezze artistiche: statue, quadri, musei ma anche il buon cibo e il vino, i paesaggi incantevoli e l’ospitalità delle persone di questo paese europeo, dalla bizzarra forma di stivale, che sembra disteso nel mare mediterraneo. Il nostro papà era persino diventato tifoso della squadra di calcio Milan, dopo che Andry Shevchenko era stato acquistato da quel club della serie A italiana.

 

Chissà se sta bene papà... ormai sono otto giorni che non lo vediamo. L’abbiamo abbracciato e poi siamo saliti sul treno, continuando a salutarlo con la mano dal finestrino mentre il convoglio partiva. La mamma piangeva e ci baciava. Noi guardavamo la neve che si posava sui rami spogli, sulle automobili in coda e sulle macerie dei primi palazzi distrutti.

 

Abbiamo sentito che è scoppiata la guerra contro i russi, anche se le mamma non ha mai usato quella parola, che finora io avevo letto solo sui libri di storia. Contro i russi, poi? Nostra zia è russa, come il mio ormai ex maestro di scienze, da cui ho imparato quasi tutto sul disastro nucleare di Chernobyl. Chissà come sarà adesso il mio nuovo maestro di scienze... Chissà se ha mai visitato l’Ucraina. Mi mancano i miei ormai ex compagni di scuola: Olga, Sofia, Anastasia, Roman, Petro... Chissà dove sono, cosa fanno, se hanno preso il treno anche loro. Magari qualcuno è venuto in Italia!

 

I nuovi compagni sembrano gentili e simpatici, ma non parlano la nostra lingua. Tutti qui in verità sono particolarmente cordiali nei nostri confronti: da quando siamo arrivati ci chiedono spesso se stiamo bene, se abbiamo bisogno di aiuto, se vogliamo mangiare o bere qualcosa di caldo. A dire il vero qui in Italia il clima è meno freddo rispetto all’Ucraina. Non c’è nemmeno la neve...

 

Continuo a non capire perché siamo stati costretti a dividerci, a lasciare la nostra casa e a cambiare di colpo vita. E come noi migliaia di altre famiglie ucraine. Anche se mi sforzo proprio non riesco a capire perché i russi siano entrati in Ucraina coi carri armati. Mamma ci ha spiegato i piani militari di Putin, dell’annessione della Crimea, degli indipendentisti del Donbass, della resistenza del Presidente Zelensky. Anche mio fratello Ivan mi ha parlato della NATO e della Guerra Fredda, delle repubbliche sovietiche e delle forniture di gas o petrolio. Tutte questioni che conosco anche io, ma che comunque secondo me non riescono a giustificare davvero quello che abbiamo vissuto, visto e sentito: bombe lanciate sugli ospedali, bambini e anziani uccisi, milioni di persone che hanno abbandonato le loro città per cercare un rifugio.

Ma dopotutto io sono solo una bambina di undici anni - forse un adulto riuscirà un giorno a farmi capire.

 

Adesso torno da mamma e Ivan, perché proviamo a videochiamare papà, visto che ci manca tanto. Spero che torni presto con noi è che la guerra finisca subito.

 

Iola

 


Fabio Dellavalle                                                                                                                                               

15/03/2022 

lunedì 19 agosto 2019

Aurelio Peccei e il Club di Roma: un neoumanesimo tra economia ed ecologia

«Non vi sono scappatoie: la realtà va affrontata così com’è[1]»
(Aurelio Peccei)

«Immagini che hanno il solo scopo di presentare il prodotto[2]»
(In parecchie pubblicità televisive e su molte confezioni alimentari)

«Caution: objects in this mirror may be closer than they appear! [3]»
(Sugli specchietti retrovisori delle automobili Usa)

«Lo scopo del gioco è di trarre profitto […]. Quando il penultimo giocatore ha fallito, l’ultimo giocatore rimasto vince la partita[4]»
(Regole di “Monopoli”)



[1] A. PECCEI, La qualità umana, Castelvecchi, Roma, 2014, p. 91.
[2] In G. CUOZZO, Filosofia delle cose ultime. Da Walter Benjamin a Wall-E, Moretti e Vitali, Bergamo, 2013, p. 66.
[3] “Attenzione: gli oggetti nello specchio potrebbero essere più vicini di quanto sembrino”, in J. BAUDRILLARD, L’America, trad. it. di L. Guarino, Feltrinelli, Milano, 1987, p. 7.
[4] Regole del gioco “Monopoli”, Società Editrice Giochi S.p.A., Milano, 1985. 

La mia tesi ha primariamente lo scopo di presentare la vita e il pensiero di Aurelio Peccei: economista torinese, partigiano, dirigente Fiat, imprenditore internazionale e soprattutto fondatore del Club di Roma – associazione senza scopo di lucro nata nel 1968 per sensibilizzare la popolazione mondiale circa i maggiori problemi dell’umanità.

L’obiettivo principale del lavoro è perciò di ricavare una sorta di distillato filosofico dalla vicenda biografica e intellettuale di Aurelio Peccei, al fine di esaminare gli elementi di quella che può essere definita filosofia “pecceiana”.


Partendo dai concetti di Predicament of Mankind (“malpasso dell’umanità”) e World Problematique (“problematica mondiale”), nei suoi scritti Aurelio Peccei elabora una forma di umanismo ambientalista. Innanzitutto, egli effettua una diagnosi della complicata crisi globale, individuandone la causa profonda: la “primitività”, l’arretratezza o la decadenza dell’essere umano, che subisce una regressione spirituale e una involuzione morale, surclassato dalla ultramodernità dei sistemi artificiali che, viceversa, progrediscono a un ritmo quasi inverosimile, grazie ai prodigi di scienza e tecnica. È quindi indispensabile per Peccei investire nello sviluppo dell’uomo, offrendogli in prima battuta una formazione sistemica ed eclettica, affinché egli compia una vera e propria evoluzione culturale, un rinnovamento etico che faccia emergere le capacità potenziali e le qualità latenti in ciascun individuo. Perché ciò si verifichi occorre secondo l’autore unacoscienza di specie”, che si può innescare mediante un nuovo umanesimo, che vada ad integrare le “scienze esatte”, foriere di rivoluzioni materiali scientifiche, industriali e tecnologiche.

In particolare, per Peccei una delle più importanti missioni della specie umana – come si evince peraltro dai vari rapporti al Club di Roma, a partire dal famoso The Limits to Growth del 1972 – è costruire una “Realutopia” ecologica a partire da una gestione conservativa delle risorse naturali, passando dalla crescita produttiva esponenziale a una crescita limitata, differenziata, organica e sostenibile, per raggiungere una condizione di equilibrio dinamico del sistema mondiale.

Il punto di partenza della mia ricerca è in effetti la crisi ecologica in atto come graduale disfacimento del pianeta Terra, che si manifesta ovunque tramite vari segni quali il cambiamento climatico e la perdita di biodiversità. Ho cercato di mostrare, tuttavia, come oggigiorno la devastazione della biosfera si combini pure, da un lato, con lo sfibramento della naturalità umana (intesa come unione di corpo e psiche) e, dall’altro, con la disintegrazione dello stesso mondo reale. Nel dettaglio, il fenomeno si esplica attraverso quelli che riconosco come i processi di dis-umanizzazione, dis-animalizzazione e dis-oggettivazione, che nel complesso configurano una iperrealtà virtuale, distorta, falsata, deformata o snaturata.

Ho allora rintracciato una meta-fisica postmoderna, dopo la metafisica classica e quella rappresentata dai “Grandi Racconti” ideologici della modernità, smascherati dai postmodernisti stessi. Essa indica il pensiero astratto consumistico-tecnocratico in un certo senso sovra-umano, soprannaturale ed extra-terrestre, che ci ha in qualche modo condotti fuori dal corpo, oltre la Terra, lontano dal mondo concreto.

Di conseguenza, la pars destruens dello studio consiste essenzialmente in una disamina della società dei consumi, vittima di una strana alienazione percettiva, interpretativa ed etica che denomino “jet lag esistenziale”: la sindrome di chi ha smarrito, per così dire, le coordinate spaziotemporali e vaga quasi “senza fissa dimora”. Analizzando l’occidentalità postmoderna, si nota infatti che è la cosiddetta “società del benessere” a produrre in larga misura mal-essere, esemplificato da patologie psicosomatiche, disuguaglianze socioeconomiche e distruzione della realtà fisica. La civiltà opulenta dei Paesi altamente industrializzati è appunto basata sul continuo spreco di risorse sia naturali che umane. Così, avvalendomi specialmente delle riflessioni del Professor Gianluca Cuozzo e con anche l’ausilio di alcune opere d’arte come film e racconti, ho osservato che la produzione di beni è sempre produzione di rifiuti e rifiutati.

Passando alla pars construens della mia proposta teorica, volta al recupero di un ben-essere psicofisico integrale, chiamo “ermeneutica della sopravvivenza” o “perifisica” semplicemente il rovesciamento della meta-fisica postmoderna. Essa implica pertanto un fisiologico ritorno a vivere secondo natura. In primo luogo, “vicino alla natura” del nostro corpo vivente e sensibile. In secondo luogo, “presso la natura” intesa propriamente come ambiente, cioè dentro a un ecosistema con precise leggi fisiche, che garantiscono la continuazione della vita su questo pianeta. In terzo luogo, perifisica significa “a contatto con la natura” del mondo fenomenico, senza mai dimenticare dunque la materialità effettiva delle cose.

In conclusione, seguendo le tracce lasciate da filosofi come Hans Jonas, Ivan Illich, nonché dallo stesso Aurelio Peccei, la perifisica corrisponde in sostanza a una ecosofia, nel senso di cultura dell’abitare e saggezza della “casa” comune, dove ri-prendere residenza per ottenere un autentico “permesso di soggiorno” (terrestre), potremmo dire, svolgendo responsabilmente le nostre “faccende domestiche”, alla stregua di umili “casalinghi” planetari.

Le qualità umane di Aurelio Peccei



Lo scopo di questo articolo è di ricavare, presentando la sua costellazione di idee e ideali, una sorta di distillato filosofico dalla lettura della vicenda storica e intellettuale di Aurelio Peccei: partigiano torinese, manager Fiat, imprenditore internazionale, noto soprattutto in qualità di fondatore (con lo scienziato scozzese Alexander King) del Club di Roma[1].


In via preliminare, occorre dire che teoria e prassi rappresentano due addendi inscindibili nella sua personalità: l’assidua concomitanza di idea e azione, di pianificazione e realizzazione, è una costante del pensiero (e del lavoro) di Aurelio Peccei. In aggiunta, è regolarmente presente nel suo stile un modo di procedere che alterna pars destruens e pars construens. Dopo la critica, infatti, egli non scorda mai la fase propositiva ma, al contrario, lancia soluzioni pragmatiche pur lasciando aperto il dibattito – propone ma non impone. Tipico del suo messaggio è, una volta analizzato dettagliatamente un determinato problema, l’appello a non perdere tempo e, di rimando, ad agire in fretta. Queste caratteristiche del suo modo di meditare e di essere, ne hanno fatto a buon diritto una specie di consulente dell’umanità.

Emergono perciò alcune peculiarità attitudinali che costituiscono le specificità del suo carattere: fermezza d’animo, forza di volontà, perseveranza, statura morale, sensibilità e ambizione, rigoroso metodo di lavoro, pensiero originale e coerente. Queste virtù, generalmente, diventano anche i connotati che contraddistinguono il Club di Roma (la sua “creatura” più nota), riversandosi a loro volta nei vari rapporti da esso richiesti.

Ripercorrendo la vita e l’opera di Aurelio Peccei troviamo una persona curiosa delle diversità del mondo, poliglotta, viaggiatore e conferenziere instancabile, tessitore di reti con gli strumenti di comunicazione di un’epoca pre-Internet, scrittore efficace che sa rivolgersi al pubblico con una prosa paratattica, capace di metafore pregnanti e immagini suggestive.[2]

È la descrizione offerta da Mario Salomone, educatore ambientale e scrittore[3]. Anna Pignocchi, segretaria personale di Aurelio Peccei, oltre a evidenziarne il calore umano e il senso dell’umorismo, ricorda come egli amasse autodefinirsi «a hopeless generalist[4]», un inguaribile eclettico. Uomo libero e cittadino del mondo, Peccei appare anzitutto come un filantropo che sente la propria responsabilità verso l’umanità. Aveva la «capacità di ascoltare in modo aperto e umile e di imparare da diverse culture[5]», ricorda Eleonora Barbieri Masini, epigona dei future studies in Italia, membro onorario del Club di Roma, vice presidente della Fondazione Aurelio Peccei e docente di Ecologia Umana presso l’Università Gregoriana. Enrico Cerasuolo, regista torinese che ha scritto e diretto Last call, film-documentario sulla saga che ruota attorno ad Aurelio Peccei, al Club di Roma e agli “eroi” de I limiti dello sviluppo scrive che, in virtù di una capacità visionaria, egli «aveva il coraggio dell’utopia, la volontà di progettare un futuro migliore e di compiere passi concreti per la sua realizzazione[6]». Gianfranco Bologna mette a fuoco il suo connaturato “pro-getto”: «Aurelio era sempre proiettato in “avanti”. Aveva la straordinaria capacità di “vedere” nel futuro e di interpretare i problemi, le situazioni, le necessità con decenni di anticipo[7]».

Pensare per Peccei – concordemente con la comune radice greca del verbo “vedere” e del sostantivo “idea” – significava appunto soffermarsi sui processi in corso onde prevederne gli effetti. Perciò egli è stato un precursore sotto molti punti di vista: metaforicamente, quasi un veggente teso a leggere dentro quella sfera di cristallo che è il mondo – una fragile perla blu. Al di là della suggestione, Peccei si mostra come un ermeneuta realista intento a capire i segni sul grande libro della natura, decifrando e traducendo i sintomi dei mali dell’umanità. Federico Mayor, direttore generale dell’UNESCO dal 1987 al 1999, lo elogia come segue: «A un’intelligenza brillante univa un magnetismo e un ascendente unici, che ci incantavano e davanti ai quali tutti gli ostacoli cadevano. La sua forza di convinzione era impastata di questa “qualità umana”, di cui si è fatto promotore e che […] è l’esigenza fondamentale del nostro tempo[8]».


Dal punto di vista professionale, Peccei è un economista sui generis, potremmo dire, e un manager illuminato. Nel ricoprire ruoli prestigiosi in giro per il mondo, egli associa alla perizia e all’esperienza manageriali la deontologia civile dei grandi capitani d’industria. Come rileva Adriana Castagnoli, considerando in veste di dirigente industriale il capitale umano l’asset più importante di un’azienda, egli è convinto che l’ethical man venga prima dell’economic man. Secondo il suo punto di vista, l’impresa multinazionale deve infatti unire il principio della redditività a quello dell’utilità sociale, che si concretizza in obblighi ecologici, culturali ed educativi. A tale riguardo, per le sue sottili doti imprenditoriali e la solida conoscenza dell’economia globale, Daisaku Ikeda, con cui scrive Campanello d’allarme per il XXI secolo, lo descrive come un «consulente economico e un brillante uomo d’affari[9]». Cerasuolo mette però in luce che egli «era un industriale e aveva un sogno, costruire una governance dello sviluppo sostenibile attraverso capitalisti illuminati e politici lungimiranti[10]». Unendo quasi in maniera alchemica il raziocinio empirico dell’imprenditore con la calda immaginazione dell’utopista, il suo è perciò un pensiero mite e temperato. Ad ogni modo, si può affermare che per lui prima dell’occupazione viene la preoccupazione, ossia l’apprensione verso i tormenti della specie Homo.

Sulla scia delle idee di Luigi Einaudi e del “Manifesto di Ventotene” di Altiero Spinelli, politicamente Peccei sogna una comunità europea (e mondiale) federale e sovranazionale. Ammiratore degli Usa ma critico verso lo spauracchio della “civiltà tecnetronica” con cui si sollazza lo zio Sam, crede in un “neoatlantismo”: una reale globalizzazione di idee e valori tra le due sponde dell’oceano, invece che di soli beni materiali.

È questo il messaggio che sgorga da Verso l’abisso, la sua prima fatica letteraria edita nel 1969 dalla Macmillan di New York col titolo The Chasm Ahead. Il saggio esamina infatti il divario creatosi tra Stati Uniti ed Europa, cioè la frattura in seno alla “piattaforma Atlantica”, che può degenerare in una nuova “deriva dei continenti”. Secondo l’autore, il Vecchio Mondo corre il pericolo di rimanere troppo indietro rispetto alle conquiste formidabili del Nuovo Mondo. Tale gap tecnologico rischia di inficiare una volta per tutte i rapporti tra i due che, invece, bisogna rinsaldare al più presto. Pertanto, la tesi principale del libro è che tra le rive dell’oceano salpato da Colombo ci sono contemporaneamente forze divergenti – crepacci carsici come cicatrici sulla cartina politica della Terra – e correnti convergenti, che rispettivamente distanziano e avvicinano europei e americani. Il suo auspicio, ovviamente, è che a prevalere siano i punti di contatto, indispensabili in un villaggio globale e interconnesso. Per ridurre tale «écart de civilisation» (p. 63), si può dire che secondo Peccei occorre in primo luogo scongiurare un altro “ratto di Europa”, che non deve cioè divenire una «copia carbone degli Stati Uniti» (p. 75); in secondo luogo, è indispensabile ricucire la solidarietà con le altre nazioni avanzate, sulla falsariga della cooperazione tra i popoli.


È importante notare come nella mente di Peccei vi fosse già una limpida visione d’insieme sulle tendenze evolutive del mondo, sempre più unito grazie alle scoperte frutto dell’ingegno umano: comunicazioni, trasporti, intrattenimento di massa. Inoltre, sono qui presenti in nuce i principi guida della sua impostazione teorica matura: unità globale come premessa di sopravvivenza; pianificazione a lungo termine con obiettivi ad ampio respiro; approccio olistico per affrontare la complessità dei problemi che gravano il mondo.

Ovviamente, non manca chi gli ha mosso contro delle critiche, sia in Italia che nel dibattito internazionale. Come annota Mario Salomone, «per la sinistra il “manager” Peccei è la longa manus di qualche complotto capitalista»[11]. Nel 2005 Human Events, una rivista della destra americana, lo inserisce nella lista dei trenta autori più pericolosi del XIX e XX secolo. Parimenti, vari esponenti liberal considerano Peccei e il Club di Roma i fautori di un elitarismo escatologico che inscenerebbe l’effetto Cassandra tipico del catastrofismo millenaristico, invocando addirittura lo spettro di un ritorno al Medioevo; nel migliore dei casi il loro operato appare niente di più che un’idea romantica ma irrealizzabile. I partigiani del business as usual, inoltre, hanno calcato la mano su errori e inesattezze de I limiti dello sviluppo[12]; per converso, teorici della decrescita come Georgescu-Roegen hanno definito il Club di Roma una «incredibile fanfara[13]».


Alcune obiezioni sono certamente discutibili e, in ogni caso, non rientra negli intenti di questo lavoro effettuare una dettagliata analisi argomentativa per confutarle una ad una. Comunque, sembra per lo meno interessante osservare che il 2008 (centenario della nascita di Peccei) sia stato aspramente segnato da una crisi finanziaria in qualche modo prevista dall’autore, che purtuttavia resta soltanto un sintomo di quella più complicata problematica mondiale sviscerata e affrontata nell’arco di una vita. In più, «non ascoltare le Cassandre può talvolta significare aprire la strada a qualche Hitler[14]». Ad ogni modo, è indubbio che Aurelio Peccei è stato un personaggio scomodo, difficilmente etichettabile secondo dogmatismi e canoni ideologici.

Di conseguenza, la prospettiva con cui osservare il cammino esistenziale e intellettuale di Peccei può essere quella della “resistenza”. Dapprima egli milita infatti nel movimento antifascista durante la Seconda Guerra Mondiale. Ma dopo aver attivamente preso parte alla Resistenza partigiana (detta anche “Secondo Risorgimento”), il sogno di Peccei è l’avvento di un nuovo Risorgimento, questa volta mondiale, che abbracci tutti i popoli della Terra per costruire un’avvenire migliore. Possiamo allora vedere l’incessante impegno di Peccei dopo la fondazione del Club di Roma come una seconda Resistenza, un’opposizione a ciò che Pier Paolo Pasolini definiva “fascismo dei consumi” o totalitarismo economico.

Aurelio Peccei appare in un certo senso un illuminista post-litteram, tenace e intraprendente, critico del presente ma detonatore di una positiva carica di speranza. Contro i moderni barbari egli si fa promotore dell’esortazione latina divenuta con Kant motto dell’Illuminismo: “Sapere aude!”. “Abbi il coraggio di conoscere”, ci comunica Peccei dalle pagine dei suoi scritti: “Non fermarti al gradino dei pregiudizi, dei luoghi comuni o delle opinioni del passato ma, al contrario, serviti della tua propria intelligenza per scalare la vetta infinita della saggezza, passo dopo passo. Non avere paura del futuro, o uomo, ma osa uno splendido avvenire, che potrai fabbricare con le tue stesse mani, guidate dal tuo stupefacente cervello”.

La sua posizione è quella di un ottimismo moderato, che nasce dall’inquietudine di chi spalanca gli occhi di fronte alla realtà, ma non si rassegna nonostante lo sdegno. Consapevole delle difficoltà dello status quo ma fiducioso nei confronti del domani, l’eroe per Peccei è colui che si attiva energicamente per affrontare a viso aperto e con la schiena dritta gli ostacoli che si frappongono sul cammino dell’essere umano. Certo, non si avverte nel suo pensiero l’idea della speranza di un Ernst Bloch, così come egli è ugualmente lontano dalla disperazione intransigente di Günter Anders. Si può dire che Peccei sia piuttosto in linea con la responsabilità di Hans Jonas, anche se forse con meno paura e più fiducia – euristica della speranza?

Un’ultima nota circa il senso del sacro in Peccei. Egli si professa un ateo agnostico: «Non sono un credente secondo il significato attribuito a questa definizione dalle varie religioni[15]». Purtuttavia, nonostante l’educazione laica influenzata dal socialismo, egli ritiene che la religiosità sia una dimensione essenziale che l’Homo Consumens ha smarrito, soppiantata dal riduzionismo del neopagano culto materialista, «il mito della sacra divinità della crescita, che presiede la nostra società mercantile[16]». Ne deriva che «questa umanità, ancorché prigioniera di motivazioni materialistiche, ha un profondo bisogno di spiritualità[17]».





[1] Associazione senza scopo di lucro nata nel 1968 con l’obbiettivo di sensibilizzare la popolazione mondiale circa i maggiori problemi dell’umanità. Cfr. http://www.clubofrome.org/.
[2] M. SALOMONE, La società umana oltre il “malpasso”. Orientati al futuro: Aurelio Peccei e il Club di Roma, Istituto per l’Ambiente e l’Educazione Scholé Futuro, Torino, 2012, p. 70.
[4] A. PIGNOCCHI, “La forza dell’ottimismo”, in ivi, op. cit., p.145.
[5] E. B. MASINI, L’eredità di Aurelio Peccei e l’importanza della sua visione anticipatrice, testo originale in lingua inglese pubblicato sul sito http://www.clubofrome.org, tradotto da S. Arnaldi e F. Curet (Istituto Jacques Maritain di Trieste), p. 17.
[6] E. CERASUOLO, “La necessità di raccontare la storia di Aurelio Peccei e I Limiti dello sviluppo”, in A. Castagnoli (a cura di), Fra etica, economia e ambiente. Aurelio Peccei: un protagonista del Novecento, SEB 27, Torino, 2009, p. 97.
[7] G. BOLOGNA, “Introduzione” di A. Peccei, La qualità umana, Castelvecchi, Roma, 2014, p. 12
[8] F. MAYOR, “L’influenza del pensiero di Aurelio Peccei”, in Lezioni per il ventunesimo secolo. Scritti di Aurelio Peccei, a cura della Fondazione Aurelio Peccei, Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento per l’informazione e l’editoria, Roma, 1993, p. 283.
[9] D. IKEDA, “Una rivoluzione interiore”, in M. SALOMONE, La società umana oltre il “malpasso”, op. cit., p. 134.
[10] E. CERASUOLO, “Ultima chiamata”, in .eco, n. 5 - maggio 2008, anno XX/150, p. 16.
[11] M. SALOMONE, La società umana oltre il “malpasso”, op. cit., p. 47. Addirittura, girano in rete dietrologie per cui Peccei farebbe parte di una cospirazione segreta massonica (http://ambientalismodirazza.blogspot.it/2008/06/aurelio-peccei-ed-il-club-di-roma-il.html).
[12] Sulle polemiche suscitate dal primo rapporto del Club di Roma cfr. L. PICCIONI, G. NEBBIA, I limiti dello sviluppo in Italia. Cronache di un dibattito 1971-74, “I quaderni di Altronovecento n. 1”, Fondazione Luigi Micheletti, Brescia, 2011; P. BRAILLARD, L’impostura del Club di Roma, trad. it. di F. Cavallo, Edizioni Dedalo, Bari, 1983.
[13] N. GEORGESCU-ROEGEN, Bioeconomia. Verso un’altra economia ecologicamente e socialmente sostenibile, a cura di M. Bonaiuti, Bollati Boringhieri, Torino, 2003, p. 219.
[14] T. DE MONTBRIAL, Energia. Conto alla rovescia, trad. it di C. Bay, Mondadori, Milano,1982, p. 171.
[15] A. PECCEI, D. IKEDA, Campanello d’allarme per il XXI secolo, Bompiani, Milano, 1985, p. 89.
[16] A. PECCEI, “Alcune risposte ai critici dei Limiti dello sviluppo”, in Lezioni per il ventunesimo secolo, op. cit., p. 23.
[17] A. PECCEI, Cento pagine per l’avvenire, Mondadori, Milano, 1981, p. 38.

Lo sciopero dei manichini


I manichini del grande magazzino entrarono in sciopero. Era ormai l’orario di chiusura, quando le code si creano in prossimità delle casse. Quei fantocci di plastica, che fino ad allora erano sempre stati immobili in mezzo alla gente che passava distratta, di colpo si animarono. Quegli spaventapasseri alla moda vagamente sessuati, quelle vetrine tridimensionali agghindate secondo le tendenze stagionali, che si ergevano come statue classiche, scolpite seguendo gli attuali parametri estetici, presero infine vita. Ai bambini arroccati sui carrelli sembrò di trovarsi magicamente nel pieno di un racconto fantastico, come all’interno del paese dei balocchi, dove decine di Pinocchio iniziavano inspiegabilmente a muoversi; oppure dentro al laboratorio di un elegante Dottor Frankenstein, dove mostri graziosi si trasformavano in esseri viventi. Commessi, cassieri e clienti osservavano impietriti quella inedita sfilata. Dopo aver mosso i primi passi, i manichini si raggrupparono per poi mettersi in marcia, fino a formare un corteo silenzioso tra i vari reparti del centro commerciale. Con le loro movenze irrigidite, simili a robot dall’aspetto umano, ma privi di occhi e cavità interne, raggiunsero le porte automatizzate del supermercato, che rimasero aperte. Qui si schierarono l’uno accanto all’altro, voltando le spalle agli scaffali ricolmi di merci, rivolti verso il parcheggio. Nel frattempo, la sirena antifurto continuava il suo insopportabile lamento.




Polenta e kebab


In principio fu “Lambrusco e pop-corn” di Luciano Ligabue, canzone scanzonata in maniera piuttosto seriosa, di un album al gusto di albume. Come è possibile vivere tra la via Emilia e il West, ossia sognare la vita da star portandosi sulla pelle le cicatrici ombelicali della provincia? È lecito abbinare il nobile vino rosso con il mais scoppiato, come se la nostra stessa esistenza fosse un film hollywoodiano da proiettare in un drive-in della Bassa? Era la domanda a cui cercava di dare una risposta artistica il rocker di Correggio. Era il 1991, lo stesso anno in cui il porto di Brindisi fu invaso da una massa indistinta di albanesi, teste e corpi abbrustoliti dal sole del Mediterraneo. La penisola dei famosi si scoprì Terra Promessa. Da quel momento seguirono altri sbarchi, altre invasioni, altre teste bruciate dal sole: marocchini, gente di colore, romeni nel Bel Paese stagionato.  D’altra parte, l’invasione fu una costante nella storia Stivale, che ora si scopre di gomma, e attraccato costantemente da gommoni. E come non pensare che anche i grandi fratelli d’Italia furono profughi, verso la Merica, dopo che sulla terra del meridione di Teano si incontrarono terroni e polentoni.

Di ritorno da quell’America che si pensava India, Cristoforo Colombo portò con sé il mais o granturco, dalla cui farina le popolazioni dell’Italia settentrionale impararono a fare la polenta. Cibo di magra, a volte unico alimento per tenersi in piedi durante le malore contadine o montane. Per la sua preparazione, la polenta necessita di pazienza: occorre girare e girare, affinché non rimanga troppo dura. I nonni piemontesi raccontano che spesso di appendeva un’acciuga che scendeva al centro del tavolo, dove sedevano bocche da sfamare dopo una dura giornata di lavoro. L’acciuga serviva da condimento, da toccare con un pezzo di polenta, che di per sé ha un gusto abbastanza insipido, ed è pesante da digerire.

Per amalgamare la polenta serve l’acqua, come quella del Mediterraneo dal cui fondo gridano persone umane. Ma non riusciamo ad ascoltarle. Granoturco: “turco” come il kebab, ossia esotico, lontano, diverso. Per convivere ci vuole molta pazienza, e l’intelligenza è forse l’ingrediente di cui la società necessita per amalgamarsi.  L’integrazione tra etnie diverse risulta spesso indigesta. Proprio come la polenta e il kebab. Ma la scienza insegna che senza innesto gli alberi da frutto non producono, e sono condannati alla sterilità. Una lezione ci è fornita anche dalla storia: l’imbastardimento rappresenta un’iniezione di linfa vitale per un popolo che, senza l’assiduo confronto con l’Altro, è destinato a estinguersi.




Il signore con la mosca al guinzaglio


È da un po’ di anni a questa parte che si è consolidata la consuetudine di avere un animale domestico da compagnia. Ossia una bestiola, presumibilmente fedele nei confronti del suo padrone, da tenere in casa o in giardino. Compito del padrone è dimostrarsi severo e affettuoso al punto giusto, ponderando premi e punizioni, in modo da addestrare il pet (come lo chiamano gli inglesi) in maniera adeguata. Anche se, purtroppo, il destino di alcuni di questi amici dell’uomo è, dopo essere stati abbandonati sul ciglio delle autostrade o condannati al randagismo, di morire come mosche.
Ora, c’è chi possiede un cagnolino/one, chi un micio, chi un criceto, chi un coniglietto, chi delle tartarughe, chi i pesci rossi. Tuttavia, nel mondo in cui viviamo, bombardato continuamente da nuove mode e tendenze, tra cui quella dell’esotismo, non è raro incontrare persone che allevino un’iguana che gira tranquillamente in salotto, serpenti velenosi sulla mensola della cameretta, ragni pelosissimi di fianco al cuscino. D’altronde, è la democrazia. Eppure, mai nessuno aveva ancora osato avere come fiera da compagnia una mosca. Tale è l’inconsueta scelta di un normale avvocato sulla cinquantina, il Signor Eugenio Ditterio.  

            Il Signor Ditterio tutti i giorni, con tanto di guinzaglio e collarino, portava a spasso il suo personale insetto, che aveva chiamato Aralda. Alle 16 in punto inaugurava la passeggiata per i marciapiedi della città, con quell’aria fiera e baldanzosa. Il Signor Ditterio è un ometto basso ma largo, con una pancia tonda come un’anguria. La testa somiglia a una biglia liscia e lucida; tra le guance costantemente scarlatte compare un nasino da maialino, su cui s’appoggiano un paio di lenti rotonde che riparano due occhietti scuri e sottili. A completamento di quella faccia a forma di luna piena spuntano due baffoni neri arricciati all’insù i quali, insieme alla mosca sotto il labbro inferiore, formano una specie di pizzetto, comunque ben curato.
Quando il Signor Ditterio usciva dalla porta della sua nobile dimora, situata nel centro urbano, eseguiva sempre i medesimi gesti, che oramai noi del posto conoscevamo a memoria. Dapprima dava un’occhiata al cielo per capacitarsi delle condizioni atmosferiche; in seguito indossava la sua bombetta marrone; dopodiché gettava lo sguardo sull’orologio da polso; portava poi fuori dall’androne il guinzaglio con Aralda; infine si voltava di schiena per chiudere le serrature dell’uscio. Tutti i santi giorni la stessa collaudata cerimonia.
Dopo aver sceso i quattro gradini di marmo che ornano l’entrata del palazzo, il Signor Ditterio e la fida Aralda incominciavano la loro quotidiana passeggiata delle ore 16 spaccate. Non appena svoltavano l’angolo della via in cui risiedevano, l’avvocato attaccava a fischiettare, come un usignolo un po’ obeso – ogni dì una melodia diversa, sicché si pensa che sia un buon intenditore di musica. Era solito procedere con il busto sbilanciato all’indietro e, ogni volta che Aralda sentiva il bisogno di fermarsi un momento, anche il Signor Ditterio si bloccava, in attesa di un impercettibile segnale dell’insetto che lo invitasse a riprendere la marcia. I più attenti del quartiere sostengono che sul collarino della mosca sia inciso il nome dell’insetto oltre che il numero civico dell’abitazione, evidentemente come riferimento in caso di smarrimento. Alle 16,30 eccoli entrare puntualmente nel Caffè da Chicco, dove consumavano rispettivamente un cappuccino macchiato tiepido e tre gocce di acqua-letamata, la specialità della casa. Dopo la breve sosta i due ripartivano per rincasare: esattamente alle 17,30 tornavano tra le mura domestiche.
Durante le loro tranquille camminate pomeridiane, il Signor Ditterio e la mosca Aralda non erano disturbati da nessuno, giacché oramai i loro concittadini erano avvezzi a tale stravaganza, vale a dire un uomo che porta in giro una mosca col guinzaglio. Soltanto i ragazzini delle scuole, gli unici ancora incuriositi da un evento così bizzarro, si divertivano a seguire il loro abituale percorso, nascosti nei cespugli o dietro alle automobili parcheggiate. Pure per quei pochi turisti che si trovavano per caso in città un uovo gigante in panciotto, che si faceva guidare da un insetto col cinturino, era davvero una scena fuori dal comune, una specie di attrazione gratuita.

            Chicco del Caffè da Chicco, si sa, sa tutto di tutti. Dal suo bancone vintage di vetro ci sta narrando che la prima donna delle pulizie del Signor Ditterio era andata a spifferare a chiunque incontrasse che, all’interno di una delle innumerevoli sale della reggia, ce n’era una interamente dedicata al minuto volatile, con tanto di due ciotole (una per il cibo e l’altra per le bevande), un collarino e un guinzaglio di ricambio, una copertina in seta donata da una ricca prozia deceduta e addirittura una cuccetta in bronzo fatta costruire dal più abile artigiano della provincia.
- ...E poi com’è che è stata licenziata questa donna delle pulizie? - chiede Alz lo smemorato al nostro barista di fiducia.
- Ma te l’abbiamo già detto quarantasei volte! - inveisce adirato Mitra il mite.
A questo punto interviene Svizzera a placare gli animi già riscaldati dallo spirito dell’acqua tonica corretta:
- Su Chicco, raccontacela di nuovo! -
Così Chicco riattacca con la storia per l’ennesima volta e noi stiamo ad ascoltarlo divertiti e compiaciuti.
            Girano, infatti, molte leggende più o meno veritiere su questa losca faccenda. La più avvincente è la versione secondo cui tale inserviente sia stata congedata dal Signor Ditterio dopo che, durante un assolato post pranzo di agosto, aveva tentato inconsciamente di schiacciare con le mani Aralda, la quale svolazzava tra i lampadari di cristallo della sala per gli ospiti abbastanza rumorosamente da disturbare l’innocuo pisolino che la domestica cercava invano di schiacciare. Al violento schiocco di palmi, il Signor Ditterio si alzò di scatto dal suo sofà imperiale e vide con estremo dolore che, sul tappeto siriano, stava agonizzando inerme il suo docile animaletto, il quale con l’unica ala rimasta integra invocava disperatamente aiuto.
Preso dallo sgomento, il Signor Ditterio si gettò tra le zampine della bestia e, straripante di lacrime, comandò repentinamente alla domestica di telefonare alle seguenti istituzioni nel seguente ordine: pronto soccorso, guardia medica, veterinario, carabinieri, polizia, pompieri, protezione civile, gli alpini, squadra artificieri, unità mobile antimafia, Vespa Club e il M.L.N.N.G. (Movimento di Liberazione Nazionale Nani da Giardino). L’inserviente, anch’essa in preda al panico e tanto spaventata quanto imbarazzata per l’incidente da lei stessa causato, chiamò in fretta e furia tutti quei numeri di telefono. Fatto sta che in quattro e quattr’otto il salone per gli ospiti era pieno imballato di divise e uniformi sgargianti e pluridecorate, tanto che un vecchio alpino dalle coronarie già fragili svenne per la mancanza di ossigeno.
Ogni rappresentante delle varie forze militari, paramilitari e non, tentò dunque con ogni sua forza di rianimare la dolce Aralda, che continuava a giacere a terra tra le dita sudaticce del Signor Ditterio, intento a fare aria con la bombetta marrone. Un volontario del pronto soccorso constatò la frattura scomposta di un’ala mentre un membro della guardia medica decretava già il decesso avvenuto. Intanto che un poliziotto componeva il numero delle pompe funebri, un pompiere si stese sul tappeto e avviò la respirazione a bocca a bocca con la mosca rantolante.
All’improvviso un carabiniere, presumibilmente non in forma smagliante data la cera verdastra del volto, mise in moto il suo deretano e lasciò partire una sonora scoreggia stratosferica che rimbombò tra le pareti in carta da parati per almeno sette secondi, come dichiarò successivamente l’ammiraglio del M.L.N.N.G. il quale, esterrefatto da cotanta potenza, aveva azionato il suo preciso cronometro. Gli artificieri indossarono immediatamente le maschere antigas e, con sofisticatissimi apparecchi, registrarono il livello di radioattività concentratosi nella zona ormai contaminata. Nel frattempo un geologo, confluito chissà come nell’unità mobile antimafia, lanciò l’allarme sismico da codice rosso, cosicché le forze dell’ordine si allarmarono e misero la stanza in totale disordine. A causa di tutto quel trambusto l’alpino svenuto si riprese ma, sfortunatamente, il turbine puzzolente lo investì con tutto il suo fetore facendolo ricadere, questa volta, in uno stato di coma profondo.
Di colpo il miracolo assolutamente inaspettato: la donna delle pulizie decise di spalancare le finestre per salvare il salvabile; l’aria di fuori, mescolandosi con l’uragano del carabiniere, creò una corrente interna che si diresse verso il tappeto siriano. Le punte dei baffoni del Signor Ditterio si abbassarono sconsolate e, in breve tempo, assunsero una colorazione ocra. Ma, appena il maleodorante vortice penetrò nella minuscola proboscide della mosca, a un tratto il soffio della vita alitò nuovamente nell’esile corpicino, il quale riprese conoscenza tra la commozione indescrivibile dei presenti. Tutti, tranne l’abbattuta penna nera, commentarono il prodigio con un fragoroso applauso corale. Adesso il Signor Ditterio piangeva, però, di gioia e continuava a sbaciucchiare la peluria facciale della sua Aralda, ripetendo in continuazione: «Non voglio perderti mai più, non voglio perderti!».

            Qualche giorno dopo il sinistro, mentre proseguiva la lenta convalescenza della bestiola, il Signor Ditterio avviò una serie d’indagini serrate per capire che cosa fosse realmente successo quel mostruoso pomeriggio di terrore, dal momento che la domestica si dimostrava reticente e si proclamava estranea al misfatto (probabilmente per paura di perdere il lavoro). Nel frattempo, la notizia finì su ogni quotidiano e fece il giro di tutti i TG nazionali e internazionali, tanto che la tranquilla cittadina fu invasa da sciami di troupe giornalistiche che, coi loro furgoni, intasarono ogni angolo di strada.
Di lì a poco furono organizzate delle vere e proprie “gite dell’orrore”, cioè escursioni guidate sul luogo del delitto che attirarono decine di migliaia di persone. Vista l’inaspettata ondata di “turisti della tragedia”, il sindaco ordinò di installare una serie di bancarelle intorno alla reggia del Signor Ditterio, dove venivano smerciati i gadget più svariati, tra cui il profumo ‘Scoreg n°5’, che divenne subito un must delle fashion victim. Contemporaneamente, sul web impazzarono gli occhiali a mosca, ultimo trend delle nuove generazioni. Come se non bastasse, gli addetti alla stampa misero in piedi un camping a tutti gli effetti con tanto di zona barbecue e area pic-nic.
Accanto ai venditori delle bancarelle, divenuti incredibilmente miliardari, si formarono pure gruppi di arditi manifestanti che protestavano violentemente contro il disumano trattamento cui i ditteri di tutto il pianeta sarebbero sottoposti. I rivoltanti organizzarono pertanto qualche corteo per la città scandendo ad alta voce i seguenti slogan: «No ammazza-mosche!», «Insetticida non ne vogliamo!», «Ronzeremo fino alla morte!». Tuttavia, all’interno della coalizione, ben presto si formarono due fazioni avverse che si diedero battaglia a vicenda: da una parte lo schieramento reazionario-conservatore dei “Mosca cieca” e, dall’altra, l’ala degli “Zitti e mosca”, alquanto più democratica.
Nel giro di una settimana, sul più noto palinsesto televisivo locale fu mandata in onda una puntata speciale in cui i vari ospiti, molti dei quali erano opinionisti provenienti da vari reality show, cercavano di ripercorrere passo dopo passo la sequenza del dramma sfiorato. Nello studio televisivo era anche stato mirabilmente costruito un modellino di plastica che riproduceva in scala gli interni della lussuosa dimora del Signor Ditterio, la quale venne ribattezzata “Il vaso di Pandora”. Intervistato davanti alle telecamere, però, il Signor Ditterio, protagonista indiscusso della serata (lo share del programma toccò il livello massimo nel momento in cui partì il collegamento in diretta con Aralda sul letto d’ospedale), fece l’errore di affibbiarsi tutti i meriti del salvataggio della mosca e, perciò, fu soprannominato “La mosca cocchiera”. A Napoli, invece, i migliori artigiani del posto crearono originali statuine del presepe (anche se era solo settembre) raffiguranti i principali personaggi della truce vicenda. Tuttavia, le indagini volte alla ricerca del presunto colpevole proseguivano senza risultati soddisfacenti, nonostante l’assunzione dei più acclamati detective del mondo.

            A causa di mancanza di prove attendibili, l’inchiesta fu infine archiviata, nonostante che i maggiori sospetti ricadessero immancabilmente sulla domestica, perché era l’unica presente in casa quel giorno oltre alla vittima e al Signor Ditterio. La donna continuò comunque a dichiararsi innocente, asserendo ripetutamente che non avrebbe fatto male a una mosca. I vicini di casa, d’altro canto, dicevano che era una persona perbene e che, nell’insieme, si trattava di gente tranquilla e gentile. A complicare maggiormente la procedura fu un pernicioso gossip su una presunta scappatella, avvenuta in passato, tra il figlio trentenne della domestica e la buon’anima della prozia dell’avvocato.
Gli inquirenti avanzarono pure l’ipotesi di un tentato suicidio da parte dell’animale. Quest’ultimo venne ascoltato in tribunale come parte lesa ma, forse per il forte trauma subito, non fu in grado di deporre nemmeno una parola. Di conseguenza, gli investigatori rimasero con un pugno di mosche in mano, dato che non furono in grado di concludere nulla. Per questo motivo, fecero saltare la mosca al naso (da porcellino) del Signor Ditterio, stizzito dai loro metodi da buoni a nulla.
Le cronache, tra l’altro, riferiscono che un celebre regista hollywoodiano avrebbe perfino comperato i diritti dei due libri pubblicati sul caso per farne un colossal di ampio respiro. Invece, onorato con la medaglia d’onore, il carabiniere morì nel giro di qualche mese a causa di una rara forma di diarrea, probabilmente contratta durante un soggiorno natalizio alle isole Seychelles in seguito alla puntura di una mosca tse-tse. Una volta che la salma rientrò in patria, il soldato fu proclamato eroe nazionale in occasione di una pomposa celebrazione in suo luttuoso ricordo, durante la quale la banda comunale suonò un’aria di Petoven a lui dedicata. Sulla sua lapide al cimitero fu inciso: «Una mosca bianca…».

Tre mesi più tardi la storia finì nel dimenticatoio e nessuno ne parlò più. Oggi, il Signor Ditterio e la sua mosca Aralda hanno finalmente ripreso la loro salutare passeggiata quotidiana, anche se sono stati costretti a ridurla di 30 minuti, poiché l’animaletto si affatica più facilmente. Quindi, per guadagnare tempo, hanno deciso di eliminare la sosta al Caffè da Chicco, dove ci siamo noi che, tra una sambuca con la mosca e l’altra, sopravviviamo alla meno peggio agli eventi che capitano nei paraggi. Ogni tanto stiamo a osservare i bambini delle scuole che, vigili e curiosi, spiano la camminata dei due amici: il Signor Ditterio e il suo insetto da compagnia. E non si sente volare una mosca.