Ha
suscitato scalpore e curiosità – non solo nel mondo della settima arte – la recente
notizia della “metamorfosi” delle sorelle
Wachowski. Infatti, ora anche Andy (nato Andrew) ha rivelato la sua
“evoluzione” come Lilly. In passato era stato il fratello maggiore, ossia Larry
(nato Laurence) a trasformarsi in Lana. I due geniali cineasti di Chicago,
divenuti famosi dopo aver diretto la spettacolare trilogia di The Matrix, sono perciò usciti allo
scoperto facendo pubblicamente outing e palesandosi come donne transgender.
Cambiare corpo per trovare la propria identità: la saga degli ex fratelli
Wachowski sembra già di per sé una intrigante sceneggiatura per un eccentrico
movie hollywoodiano.
D’altra parte, temi quali i concetti di reincarnazione e
transfer spirituale, rappresentazione e transizione, universi paralleli e
destino sono tutti ben presenti nelle loro pellicole. La poetica dei loro film,
effettivamente, è incentrata sulla costante contaminazione di generi, sul
duello tra reale e virtuale, com’è tipico dell’estetica del postmoderno o delle filosofie orientali. D’altronde, nell’epoca
della bioingegneria e della robotica, le questioni dell’ibridazione tra uomini
e animali, OGM, chirurgia plastica, cyborg e intelligenze artificiali non sono
più oggetto di fantascienza. Inoltre, l’ideale buddista del bodhisattva (“essere un’illuminazione” in
sanscrito) – che prescrive la regola aurea secondo cui tutte le cose esistenti
nell’universo sono unite da un rapporto d’interrelazione e d’interdipendenza,
similmente alla metafora della rete di Indra, o al Tao come unione di yin e yang – non sembra molto lontano dalla lezione dell’ecologia, per
cui ogni organismo è intrecciato nel tessuto ecosistemico del rispettivo
ecotopo. E che cos’è poi il karma, se
non l’accento sulle conseguenze morali delle scelte passate che di fatto
ereditiamo e che condizionano le (ri)nascite future?
Ecco il nucleo concettuale e narrativo su cui è costruito Cloud Atlas, film del 2012 scritto e
diretto dai/dalle fratelli/sorelle Wachowski, insieme a Tom Tykwer. Il
lungometraggio, tratto dal romanzo L'atlante
delle nuvole di David Mitchell,
intreccia infatti sei storie ambientate in luoghi e tempi diversi, legando
personaggi e situazioni tramite riferimenti e citazioni interne (ad esempio, la
voglia a forma di stella cometa che contrassegna il corpo del protagonista
messianico intenzionato a cambiare il mondo in cui vive). Nel dettaglio, gli
episodi narrati sono: “Il Viaggio nel Pacifico di Adam Ewing” (metà ‘800); “Lettere
da Zedelghem” (anni ’30 del XX secolo); “Mezze vite – Il primo caso di Luisa
Rey” (anni ‘70); “La tremenda ordalia di Timothy Cavendish” (epoca
contemporanea); “Il verbo di Sonmi~451” (futuro distopico); “Sloosha Crossing e
tutto il resto” (futuro post apocalittico). Cloud
Atlas è, da questo punto di vista, un’opera ricchissima di contenuto,
confezionata in una forma maniacale e visionaria. Pellicola fantasmagorica,
colma di citazioni colte (due su tutte Solzenicyn e Soylent Green), che si colloca all’interno del genere distopico,
andando a trattare in maniera iperbolica la critica all’«ordine naturale
prestabilito» dello status quo e, di rimando, la possibilità di emancipazione
da esso. Film lungo e largo nello spazio e nel tempo, che incastona sei storie
particolari in un’unica grande Storia.
A ben vedere, tutti i diversi argomenti che si dipanano
nelle varie vicende (rispettivamente schiavismo, omofobia, femminismo, senilità,
consumismo, sopravvivenza) rientrano nella macro-tematica della Libertà, presupposto fondamentale per
il raggiungimento della Verità, occultata e maneggiata dal potere di turno. Una
storia diacronica dell’umanità, perciò, che affronta il Tempo con un’apertura
di prospettive mostruosa: dal tempo lineare e vettoriale al ciclico eterno
ritorno dell’eguale. Sei racconti accomunati da un medesimo schema narrativo,
incastrati – come preziose pepite – l’una con l’altra grazie, in primo luogo,
ad elementi che fungono da “staffetta” tra le sequenze (ad esempio, la corrispondenza
epistolare dei due innamorati, la statua della divinità nel tempio/cimitero, il
diario di bordo messo sotto la gamba di un tavolo!) e, in secondo luogo, alla
presenza dello stesso cast, truccato e trasformato di volta in volta con
risultati stranianti. La Libertà vista in sei differenti contesti storici,
dunque, e attraverso altrettanti registri narrativi: dalla vicissitudine
comica, quasi picaresca del vecchio editore che organizza la fuga da una casa
di cura per anziani, fino alla tragica epopea della donna «artificio» nella
Nuova Seul.
Ogni vicenda presenta una situazione di segregazione, da
quella letterale dello schiavo ai tempi della lotta a favore
dell’abolizionismo, a quella assai meno appariscente della prigionia dei
consumi al tempo del capitalismo sfrenato. All’interno di queste galere
dell’anima umana si nascondono degli eroi, coloro che in qualche modo sanno
oltrepassare la situazione alienante del presente. Sono i redentori del genere
umano, quello strato di reietti e perseguitati di ogni razza e colore, direbbe Herbert Marcuse, ancora in grado di
superare le barriere mentali della propria epoca, fatte di pregiudizi e conformismo
conservatrice, che celano «il vero vero». Costoro rappresentano i reali
soggetti rivoluzionari capaci di spezzare il circolo vizioso che imprigiona il
presente, caratterizzato dalle contraddizioni che il Potere ogni volta produce
e mantiene nell’ombra.
Il Male si incarna qui nelle forme politiche autoritarie della
storia: i proprietari terrieri e schiavisti del ‘600, il nazismo e le
superstizioni razziali tra le due Guerre Mondiali, i detentori delle risorse
energetiche come petrolio ed energia atomica negli anni ’70, i fedeli del dio
denaro del XXI secolo, le holding multinazionali di un futuro prossimo alle
porte e, infine, i cannibali di un’era preistorica che rappresenta la fine o
l’innesco di una fase storica. Proprio questa età del mondo è il perno su cui
ruota il lungometraggio (una sorta di collage tra 6 cortometraggi), dal momento
che esso parte e termina con il faccione tatuato di Tom Hanks che si staglia davanti al cielo stellato di una galassia
lontana, ascoltando «gli antenati cianciare». Passato, presente e futuro si
amalgamano in una specie di élan vital
in cui «ogni cattiveria e ogni gentilezza si ripercuotono sul nostro futuro» (ad
sensum).
Siamo nel “106 dopo la Caduta” (catastrofe ecologica, bellica
o nucleare) e gli uomini sono divisi in tre classi: i “Prescenti” (custodi
della scienza e della tecnologia), dei selvaggi allevatori di pecore e i
cannibali. Questi ultimi sono, in qualche modo, la metafora vivente del Male di
ogni periodo storico, in quanto si cibano dei propri simili: del loro corpo o anche
della loro essenza antropologica. I pecorari, invece, parlano una lingua assai
povera e sconnessa: altro cliché del genere distopico. L’esistenza è percorsa quindi
da una crudele lotta per la sopravvivenza fisica e solo un alieno venuto
da lontano, in grado di pensare «altro», può essere quello spiraglio di salvezza
che, squarciando il Velo di Maya e uscendo dalla Caverna platonica, scopre la
Verità e conduce pertanto alla Libertà.
Ultima annotazione: Cloud
Atlas è, nel film, il titolo dell’opera musicale composta dal giovane e abilissimo
pianista gay, morto suicida nel film. Essa simboleggia in un certo senso la
sinfonia della Bellezza che risuona in eterno, abbracciando e confortando le
anime emarginate dalla società, i diversi: ancore di salvezza che sono ancora
in grado di abbandonare il peso delle convenzioni e delle regole ingiuste, per
far volare in cielo le proprio idee fino a contemplare, libere e leggere, la
Luce della Verità. Atlante delle nubi, geografia della galassia umana.
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