I campionati europei di soccer
appena trascorsi ci hanno lasciato impresse negli occhi tre immagini. La prima
è drammatica nel senso di catartica, come i grandi classici dell’epoca aurea
del teatro greco. Si tratta del coro vichingo con cui la compagine islandese
era solita congedarsi dai suoi tifosi, ringraziandoli per il sostegno, al
termine di ogni match. Il rito norreno, cosiddetto “Geyser Sound”, è stato definito
l’haka scandinava: una danza vulcanica e geotermica che ha sciolto le pupille ghiacciate
di noi supporters mediterranei. Esso ritrae la cerimonia liturgica con cui
l’intero popolo insulare si è unito intorno al sogno da favola della sua
squadra cenerentola, sebbene barbuta e tatuata, vestita di bianco-rosso-blu. Gli
stessi colori ritroviamo nella seconda immagine: il fotogramma ripreso in
autostrada con la videocamera di un cellulare, che riprende il bus scoperto,
sulla cui fiancata campeggia la réclame “Champions d’Europe”, già pronto per il
tour di Parigi dell’equipe francese. Questa è comica in quando rappresentazione
di una beffarda ironia del destino; quasi una punizione degli dei del tempio
calcistico per gli eroi dell’arena verde, che hanno peccato di hybris (o grandeur che dir si voglia). La raffigurazione finale è invece
quella del bambino portoghese che conforta il fan dei Bleus singhiozzante, dopo la sconfitta contro CR7 & Co. Essa assurge
a simbolo dell’umana commedia: dolceamara come le lacrime di delusione che si
abbracciano a quelle di chi si commuove di gioia, provando pietà per il nemico
vinto.
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