giovedì 2 aprile 2015

13.



Ovviamente siamo felici. Come si fa a non essere felici in un posto come questo? Per sopravvivere qui dentro dobbiamo necessariamente conviverci con la felicità. Sennò è finita. La felicità è un dovere inalienabile. L’infelicità è un lusso che solo i benestanti e gli sfigati possono permettersi. In secondo luogo, non c’era tempo per essere infelici. (infelicità ≠ tristezza). Il nostro personale zibaldone ce lo avevamo stampato in faccia – bastava leggere tra le rughe – e pure sulle cicatrici della nostra pelle a quadretti coi margini rinforzati. Tutto sommato, eravamo e siamo, ceteris paribus, mestruazioni di Dio. Corteggiando le tenie della città, che si annidano sui sedili del bus, sui corrimano dei tram, nei vagoni di treni sfigurati. Calpestando capelli a doppie punte sui sampietrini maldestri del centro, sui marciapiedi di fumo e cemento. D’altra parte, i vermi solitari uscivano oramai in gregge per andare a fare le vasche nel centro storico e sul tardi prenotavano il tavolino per andare a ballare. I ticket delle consumazioni erano evidentemente consumati. Noi gareggiavamo a pisciare sui cassonetti dell’immondizia. Le porte spalancate anche d’inverno degli eleganti negozi di abbigliamento e delle rinomate profumerie erano cosa gradita ai vari barboni che si accomodavano davanti per far asciugare la muffa dalle loro ossa. Intanto, i bassi ad altissimo volume delle autoradio coprivano gli acuti degli artisti di strada, usignoli scansati dai passanti come piccioni infettivi. Nero candido nel basso dei cieli. Nema. Alice ha appena barattato il suo abito talare con un eskimo liso e sdrucito.

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