Ovviamente siamo
felici. Come si fa a non essere felici in un posto come questo? Per
sopravvivere qui dentro dobbiamo necessariamente conviverci con la felicità.
Sennò è finita. La felicità è un dovere inalienabile. L’infelicità è un lusso
che solo i benestanti e gli sfigati possono permettersi. In secondo luogo, non
c’era tempo per essere infelici. (infelicità ≠ tristezza). Il nostro personale
zibaldone ce lo avevamo stampato in faccia – bastava leggere tra le rughe – e
pure sulle cicatrici della nostra pelle a quadretti coi margini rinforzati.
Tutto sommato, eravamo e siamo, ceteris
paribus, mestruazioni di Dio. Corteggiando le tenie della città, che si
annidano sui sedili del bus, sui corrimano dei tram, nei vagoni di treni
sfigurati. Calpestando capelli a doppie punte sui sampietrini maldestri del
centro, sui marciapiedi di fumo e cemento. D’altra parte, i vermi solitari
uscivano oramai in gregge per andare a fare le vasche nel centro storico e sul
tardi prenotavano il tavolino per andare a ballare. I ticket delle consumazioni
erano evidentemente consumati. Noi gareggiavamo a pisciare sui cassonetti
dell’immondizia. Le porte spalancate anche d’inverno degli eleganti negozi di
abbigliamento e delle rinomate profumerie erano cosa gradita ai vari barboni
che si accomodavano davanti per far asciugare la muffa dalle loro ossa.
Intanto, i bassi ad altissimo volume delle autoradio coprivano gli acuti degli artisti
di strada, usignoli scansati dai passanti come piccioni infettivi. Nero candido
nel basso dei cieli. Nema. Alice ha appena barattato il suo abito talare con un
eskimo liso e sdrucito.
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