domenica 9 giugno 2013

Al tempo si comanda?

“Al tempo, ai matti e ai padroni non si comanda”, recita un noto proverbio italiano. In generale resta sempre valido il consiglio di non esprimersi tramite frasi fatte o modi di dire come sono, appunto, i proverbi, ma piuttosto di usare parole proprie (come, per esempio, esortano a fare i prof quando raccomandano il metodo di studio più appropriato), solitamente segno di un proprio pensiero anteriore all’esposizione orale e posteriore alla mera memorizzazione di nozioni. Tuttavia, spesso anche i proverbi rappresentano delle interessanti formule linguistiche, espressioni di una cultura antica in cui la saggezza collettiva e l’educazione orale avevano un peso determinante. Allo scopo di preservare tale importante patrimonio culturale è sorta, infatti, la paremiologia, disciplina che si interseca con altri campi di studio quali la sociologia, la filosofia, la storia, la meteorologia, la religione, l’agronomia e la zoologia. In certi casi, però, è opportuno esaminare il rapporto tra le modalità con cui una lingua comunica la propria concezione di verità e la verità che il proprio periodo storico rivela. In particolare, risulta necessario analizzare il modo con cui le parole si modificano nel tempo, andando a plasmare le idee degli uomini e pertanto anche il loro comportamento. Capita infatti che pensiero, linguaggio e azioni si influiscano vicendevolmente e che qualcuno di essi rimanga, per così dire, indietro rispetto alle altre, perché ormai desueto o incompatibile coi modi con cui l’uomo esprime la verità di un dato periodo storico. Il caso che prenderemo in considerazione in questa sede è suggerito dalla massima iniziale. Domandiamoci dunque se il detto sopracitato sia ancora valido oggigiorno, ovvero se esso rifletta tutt’ora una qualche verità de facto.
            In realtà, esiste anche una variazione, diciamo, cacofonica dell’adagio con cui abbiamo aperto, ossia “Al tempo, al culo e ai padroni non si comanda”. Ora, poiché il discorso risulterebbe assai lungo e complicato, lasciando da parte matti, ani, o padroni, ciò su cui ci soffermeremo è il concetto che compare in ambedue le varianti dell’aforisma, cioè il tempo. Innanzitutto, il termine italiano può significare almeno due cose: il tempo come scorrere degli eventi, quindi storia; il tempo atmosferico, ossia il clima. A noi qui interessa la seconda accezione che il lemma può assumere. Effettivamente, fino a un certo momento della storia il clima era davvero qualcosa che non poteva essere comandato dagli uomini, alla stregua di una entità incontrollabile, misteriosa, quasi magica e imperscrutabile, come gli dei, che soggiogavano gli esseri umani e a cui quest’ultimi dovevano avvicinarsi in maniera cauta e prudente, data l’alta natura dalla questione. Non a caso, le prime divinità venerate o avversate dalle antiche civiltà erano esattamente gli agenti atmosferici quali il sole, i fulmini e le nuvole, forieri dei fenomeni meteorologici che, nel bene e nel male, decidevano le vite di innumerevoli individui: siccità, tempeste, inondazioni, uragani, ecc. Per questi motivi, la meteorologia fu una della più remote arti coi l’uomo si cimentò, attraverso l’invenzione di strumenti adatti, per ragioni evidentemente vitali come la coltivazione e l’irrigazione dei campi o la navigazione. Di conseguenza, il motto a cui stiamo facendo riferimento, aveva una sua effettiva validità in passato, dal momento che era vero che gli uomini potevano poco o nulla, con le loro misere tecnologie, al cospetto di forze naturali così potenti e lontane nello spazio. Cionondimeno, l’uomo ha da sempre cercato di interpretare i segni della natura per capire il tempo atmosferico, in genere attraverso un metodo d’indagine induttivo basato sull’associazione di casi simili ricorrenti nelle stesse condizioni atmosferiche, ad esempio osservando, alla stregua di attenti etnologi ante litteram, il comportamento degli animali prima di determinati fenomeni climatici. In questo senso, possiamo affermare che l’uomo è sempre stato, seppur in maniera vaga e imprecisa, un meteorologo, come testimonia il peculiare desiderio umano di leggere il grande libro della natura al fine di carpirne i segreti. D’altro canto, ogni essere vivente su questo pianeta possiede delle capacità più o meno efficaci che gli consentono di effettuare delle previsioni approssimative sul clima. E l’uomo non ne è certamente da meno, in quanto animale sulla Terra.
            Successivamente, le idee degli uomini si sono evolute (per certi versi), così come le loro applicazioni tecnologiche: la natura diviene sempre meno potente e incontrollabile grazie alla cultura. Le nuvole si fecero in qualche modo meno lontane e si configurò, perciò, un’epoca in cui fu possibile prevedere il clima, ossia annunciare in anticipo, in virtù di calcoli e sofisticate apparecchiature, l’esito indicativo delle condizioni climatiche che si sarebbero manifestate nel breve futuro. Questa abilità umana, col passare del tempo e con l’affinarsi delle tecniche di calcolo, si è fatta sempre più precisa, rendendo l’uomo l’unico essere vivente in grado di avere la consapevolezza razionale delle condizione climatiche dell’avvenire. Arrivò poi un’era in cui l’homo sapiens divenne addirittura capace di interferire col clima, vale dire modificare volontariamente il naturale corso dei fenomeni atmosferici, per renderlo favorevole alle proprie attività economiche. Stiamo parlando, ad esempio, delle cannonate sparate in cielo per scongiurare una tempesta in arrivo. Tuttavia, capitò pure che le attività dell’uomo interferissero al di là delle sue intenzioni sul clima: effetto serra, surriscaldamento globale del pianeta, aumento delle temperature, scioglimento dei ghiacciai, innalzamento del livello del mare, eventi meteorologici estremi, sono gli esiti che un certo modo di fare spiccatamente umano produsse, i quali, passati inosservati per troppo tempo, sono oggi studiati attentamente da scienziati e portati alla ribalta dai cosiddetti ambientalisti o ecologisti, che dir si voglia.
            Come abbiamo visto, le idee (incubatrici di tecnica) e le azioni delle persone sono cambiate nei secoli, apportando notevoli conseguenze al problema di cui si stiamo occupando, ossia il concetto di tempo atmosferico e la sua relazione con la rappresentazione che l’uomo ha di esso. Tuttavia, ci accorgiamo adesso che il linguaggio non ha fedelmente accompagnato pensiero e azione in questa trasformazione, se ancora oggi è lecito asserire con convinzione una sentenza come “al tempo non si comanda”. Magari uno non pensa sempre a tutto quello che dice e parla senza chiedersi seriamente che significato abbiano le sue parole, dando aria alla sua bocca. Ma più sovente ancora, succede che le persone possiedano un linguaggio arretrato rispetto alle mutate condizioni storiche, come dimostra il caso appena esaminato. Perché è senz’altro vero che al tempo non si comanda mai totalmente, come ci insegnano i sismologhi o i vulcanologi. Ma è anche vero che non possiamo più lamentarci in continuazione del “brutto” tempo o piangerci addosso quando “capitano” eventi meteorologici paranormali, maledicendo la sorte o qualche celata divinità celeste, perché anche noi siamo in parte responsabili. Allo stesso modo, non dovremmo più subire in maniera passiva un tornado o un nubifragio, come se fosse una piaga mandata dall’alto e a cui noi nulla possiamo, bensì comprendere che, innanzitutto, ciò è anche colpa nostra e delle nostre abitudini quotidiane e che, in secondo luogo (a discapito di quello che insinuano i proverbi e i luoghi comuni), abbiamo finito per comandare eccessivamente al tempo, al punto che esso ora si sta ribellando.    


P.S. Questa riflessione è nata in seguito a un colloquio con mia nonna, la quale commentava con dolore misto a rassegnazione i traumi materiali e mentali che degli alluvionati hanno dovuto subire a causa di un nubifragio in alcune regioni del centro Europa, appresi dalle prime pagine di un quotidiano nazionale. Dopo alla commossa lettura delle tragiche notizie, il suo commento a caldo è stato: “Povera gente... Tanto al tempo non si comanda”. Da qui ho iniziato a ragionare sulla percezione che molta gente, in buona fede e inconsciamente, ha di alcuni fatti della realtà e, a maggior ragione, sulle responsabilità che il normale sistema di informazioni ha su tale percezione. 

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