sabato 1 giugno 2013

L'antropologo marziano


Cosa direbbe di noi un antropologo proveniente da Marte? Che cosa annoterebbe nel suo diario di bordo per descrivere la specie umana durante il suo viaggio spaziale? Dopo aver studiato i terrestri a lungo, sconcertato da così inspiegabili contraddizioni, credo concluderebbe il suo rapporto all’incirca in questo modo: “Gli esseri viventi che si autoproclamano homini sapiens non sanno abitare il loro pianeta e finiranno per estinguersi”.
            Poiché se ci guardiamo attorno in maniera accorta e circospetta, ci accorgiamo che noi umani non siamo effettivamente più in grado di abitare la terra. Infatti, l’homo sapiens pare che si sia dimenticato le istruzioni d’uso per svolgere adeguatamente le attività basilari che si richiedono a un qualsiasi organismo vivente su questo pianeta, ossia evolversi e riprodursi in maniera fisiologica. Nel dettaglio, da parecchio tempo gli esseri umani non sanno più come nutrirsi in maniera razionale, come vestirsi per proteggere il loro corpo dal clima, come modificare il proprio ecosistema per costruirvi una dimora sicura. In aggiunta, non sono più capaci di vivere coi propri simili e questo fatto, per un animale sociale, rappresenta un deficit strutturale di grande portata. Ma su che basi osiamo insinuare che ci siamo scordati il modo con cui si ciba, ci si abbiglia, si edifica o si sta insieme? Le cose, a una prima occhiata, sembrano dimostrare il contrario.
            Prendiamo, per esempio, il tema del cibo: in tv, ogni canale trasmette, con ottime percentuali di share, programmi culinari dedicati al buon cibo e i Tg, inoltre, non finiscono mai di deliziarci la vista con curati servizi sull’ultima fiera del caviale russo piuttosto che sul campionato internazionale del giro-pizza o, ancora, sul recente record mondiale per quantità di hot-dog inghiottiti nel minor tempo possibile. In aggiunta, passeggiando tra i reparti gastronomici di un qualunque supermercato, le nostre pupille risultano quantomeno impressionate e rincuorate da cotanta abbondanza di alimenti e vivande. E quando entriamo in un bar per una colazione o per un aperitivo le nostre papille gustative risultano decisamente confortate dai vassoi stracolmi brioche, croissant, biscotti, salatini, panini, pizzette e tramezzini. Per non parlare dei vari ristoranti etnici che sorgono come funghi un po' ovunque nelle nostre città: giapponese, cinese, messicano, brasiliano, arabo, siberiano... Ma le prove che paiono smentire la nostra accusa di inettitudine nutritiva sono anche altre: gli scaffali delle librerie sono affollati di libri di ricette scritti da cuochi più o meno esperti; su internet spopolano i siti che forniscono consigli e idee curiose per inventare la propria cena con pochi ingredienti e spendendo pochissimi centesimi; i giornali sono pieni zeppi di articoli riguardanti i prodotti gastronomici per stuzzicare il palato dei lettori e fargli venire l’acquolina in bocca; le stazioni radiofoniche bombardano gli ascoltatori con interessanti annunci pubblicitari che sponsorizzano tavole calde, pizzerie o ristoranti, omaggiando anche i migliori clienti con speciali coupon per ottenere sconti e offerte del tipo “All you can eat!”. Insomma, sembrerebbe proprio che la nostra bella fetta di mondo (già questa limitazione basterebbe a dimostrare l’irrazionalità del nostro attuale regime alimentare) mangia e beve tutti i giorni a volontà e che, perciò, lungi dall’essere degli ignoranti in cucina o ai fornelli, sappiamo bene cosa significa sfamarsi e, soprattutto, con gusto.
            Passiamo adesso al caso dell’abbigliamento. Precedentemente abbiamo asserito che la popolazione umana odierna non è più in grado di vestirsi adeguatamente. E allora dove mettiamo le continue sfilate di moda; le corse ai saldi davanti agli out-let per accaparrarsi l’ultimo capo firmato che fa tendenza; i consigli delle fashion victim sui vari rotocalchi;  la martellante pubblicità degli abiti griffati; la nostra brama di rifarci il guardaroba a ogni annata? Detto ciò, si potrebbe affermare che soffriamo di miopia se non addirittura di cecità!
            Anche per quanto riguarda l’accusa di incompetenza edile, le prove volte a confutarla non mancano. Basta pensare alle numerose convention omaggiate della presenza di archistar; alle inaugurazioni di infrastrutture pubbliche e private; agli investimenti sul mattone che (almeno così dicono…) resteranno per sempre una solida certezza; alle abitazioni che spuntano come funghi dove una volta era tutta campagna; alle opere di ristrutturazione e ai cantieri aperti, presidiati da gru, betoniere e impalcature in perenne movimento. Oltre a ciò, dato che costruire significa anche produrre, come trascurare le infinite catene di montaggio dove, ad ogni ora, schiere di operai fabbricano senza sosta oggetti e cose che scorrono poi eternamente sui nastri trasportatori? Oppure pensiamo ai gadget, ai soprammobili, alle cianfrusaglie, a tutte le mercanzie che ricoprono le bancarelle dei mercati, le mensole e le soffitte delle nostre case e che, inevitabilmente, finito il loro corso, saturano le sconfinate discariche. Davvero l’homo sapiens non sa più costruire? 
            L’ultima calunnia che abbiamo mosso contro l’umanità contemporanea riguarda, infine, l’imperizia nello stare assieme ai propri simili. Eppure, prima facie, le occasioni sociali di scambio, condivisione, confronto e convivialità non sembrano affatto essere venute meno; anche perché suonerebbe un po’ assurdo sostenere che le persone sono sole in mezzo a sette miliardi di altri individui! D’altronde, in famiglia cresciamo coi parenti, a scuola abbiamo dei compagni, a lavoro collaboriamo coi colleghi e trascorriamo il tempo libero con amici o partner. In altri termini, affacciandoci sulla finestra del mondo, che ci regala immagini di masse per le strade, folle oceaniche negli stadi, resse in qualsiasi ambiente pubblico, sembra davvero paradossale dire che l’uomo non vive più con gli altri membri della specie. 
            In virtù di quanto detto, siamo forse pazzi, allora? Non direi. Piuttosto siamo attenti osservatori, circospetti investigatori. Perché la verità è che viviamo nel Paese di Hansel e Gretel: una squisita metropoli le cui case sono fatte di zucchero, i fiumi di miele e gli alberi di cioccolato che, però, nasconde un terribile segreto. Viviamo nella Stanza degli Specchi del Luna Park, dove la nostra immagine viene continuamente distorta e deformata dai vetri luccicanti delle vetrine, che non ci permettono di riconoscere il nostro autentico aspetto. Viviamo nella Città di Leonia descritta da Italo Calvino o nel Paese dei Balocchi di Collodi: località magnifiche e divertenti, dove tutto è nuovo e pulito, a patto di non visitare le mura fatte di spazzatura che delimitano il villaggio, ormai globale, o di imbattersi nel terribile Mangiafuoco. Viviamo infine, in Matrix o sull’isola del Truman Show, appagati, soddisfatti, magicamente accontentati, eppure soli e infelici. Insomma, abitiamo in una Gabbia Dorata: una distopia pienamente realizzata. Proviamo allora ad argomentare in difesa della lapidaria sentenza, priva di contradditorio, stabilita del nostro severo giudice extraterrestre.



            Per quanto concerne il cibo, siamo l’unica specie animale che nonostante le ingenti quantità di mezzi di sussistenza a disposizione, per svolgere le proprie funzioni vitali in modo fisiologico, soffre di malnutrizione: quotidianamente sentiamo parlare di obesità, anoressia, bulimia, denutrizione. Paradossalmente, si spende più denaro per dimagrire che per sostentarsi. Ogni anno sprechiamo la metà del cibo raccolto. Quella della tv è pornografia del cibo. Per garantirci tutto l’anno e in tutto il mondo gli stessi prodotti, generiamo un inquinamento folle, a prezzi folli, che sta compromettendo, prima di tutto, la nostra salute attuale, oltre che la stessa sopravvivenza del pianeta negli anni a venire. Tranne rare eccezioni (per fortuna, in graduale aumento) abbiamo completamento dimenticato elementari nozioni circa la stagionalità e la localizzazione dei frutti della terra: quando e dove maturano le diverse verdure? Questo significa che non possediamo più una appropriata cultura del cibo, un’educazione alimentare. Il cibo è spazzatura ancora prima di finire dell’immondizia: come superstiti di una recente apocalisse, vaghiamo alla disperata ricerca di sostanze da inghiottire per non morire di fame.
            Quanti di voi fanno ancora il cambio di stagione nell’armadio? Invece di vestirci a seconda delle condizioni meteorologiche esterne, preferiamo inventare climatizzatori, potenti condizionatori e sofisticati impianti di riscaldamento che, a loro volta, condizionano il clima, innescando un corto circuito pazzesco e incomprensibile. In poche parole, modifichiamo il clima che abbiamo modificato! Tutto ciò comporta un dispendio illogico di energia che va a cozzare coi limiti imposti dalle risorse naturali, oltre che con il portafogli nelle nostre tasche. Vedere donnine mezze nude presenziare gli studi televisivi in pieno inverno fa letteralmente accapponare la pelle. Così come essere costretti a indossare un maglione in aereo o nello scompartimento di un treno nel cuore dell’estate perché il sistema di rinfrescamento è insostenibile. E come non citare le porte spalancate delle profumerie o dei negozi di abbigliamento durante la stagione fredda, da cui fuoriesce un ondata di musica ad altissimo volume insieme a fiumane di calore e intense essenze per attirare, come calamite magnetiche, i clienti consumatori! Nello stesso periodo dell’anno in cui, invece, molto spesso gli studenti delle scuole sono obbligati ad aprire le finestre delle loro aule perché i termosifoni sono eccessivamente caldi e, pertanto, un tantino insopportabili.
            Costruiamo tanto per costruire (o, piuttosto, per avere degli introiti), senza criteri di adeguamento in base all’ambiente circostante o regolamentazioni dettate dalla morfologia di un terreno o dalla vicinanza di una fiume o di un vulcano. Giuridicamente si chiama reato di abusivismo e dovrebbe essere punito dalla legge, mentre, assai di frequente, si assiste al parto di ecomostri venuti al mondo assieme a colate di cemento. «I mortali devono anzitutto imparare ad abitare», tuonava la voce di Martin Heidegger, perché «solo se abbiamo la capacità di abitare possiamo costruire[1]». Un tempo bastava il buon senso, e la consapevolezza che una casa era La Casa, dove vivere e far nascere i propri figli e ospitare la famiglia e gli amici; edificata per accogliere i vari momenti dell’esistenza di una persona. Oggi, oltre alla seconda casa, cerchiamo per lo più un giaciglio dove poter dormire, un tetto per non essere colpiti dai fulmini. Costruiamo, fabbrichiamo, cementifichiamo, produciamo cose, per la maggior parte inutili, ovvero utili alle ragioni di mercato, che adorneranno le nostre discariche a cielo aperto. Apriti Cielo…
            Giorno dopo giorno assistiamo alla riduzione della sfera sociale o restringimento della dimensione interessante (inter-esse). Sono paradigmatiche le parole del poeta Paul Valéry che Benjamin riporta nel suo Angelus Novus, quando diagnostica la «sindrome “civiltà tecnica”»: «L’uomo civilizzato delle grandi metropoli ricade allo stato selvaggio, e cioè in uno stato di isolamento[2]». Un dato facilmente verificabile è il ratto di interstizi interpersonali ad opera dei media: vengono meno le occasioni reali di scambio e condivisione così come le relazioni carnali tra individui. Per esempio, momenti squisitamente sociali, al di là dei gusti personali di ciascuno, come il cinema, le partite allo stadio, i concerti e il teatro sono spesso sostituite dalla tv o da altri mezzi informatici. Stiamo diventando delle monadi solitarie e autarchiche in un universo parallelo enormemente distante dalla realtà. A quanto pare, ci siamo dimenticati che la distanza tra me e te è una terra dell’oro ricchissima o uno scrigno prezioso da cui attingere. La diversità che ci caratterizza è una frontiera mai totalmente assoggettabile ma comunque riducibile: essa è uno spazio che può essere avvicinato con uno sguardo, colmato con delle parole, diminuito con una stretta di mano, una pacca sulle spalle o una carezza, quand’anche squarciato con uno schiaffo o penetrato con un pugno; esso, infine, si può eliminare per un momento con un abbraccio oltre che con un bacio.
            Siamo primitivi, niente da fare. Già Baudrillard intuiva la paura che il fuoco si spenga tipica della tribù americana, simbolo lampante della “civiltà” dei consumi di stampo occidentale: «Gli americani sono ossessionati dalla paura che i fuochi si spengano. Nelle case, le luci stanno accese tutta la notte, nei grattacieli, gli uffici vuoti restano illuminati. Sulle freeways, in pieno giorno, le macchine procedono con i fari accesi[3]». Dopo anni di evoluzione naturale e culturale, stiamo inesorabilmente regredendo verso una condizione da primordi dell’umanità. Non sono mere sfumature, perché c’è una grossa differenza tra nutrirsi e saziarsi, tra vestirsi e indossare, tra costruire e fabbricare, tra socializzare ed essere inseriti. Invece di conservare sprechiamo, invece di ripararci trasfiguriamo l’ambiente, invece di riparare abbattiamo e produciamo ex novo, invece di ballare sballiamo. Per dimostrare quando abbiamo detto ci sono miriadi di dati scientifici, ottenuti dai numerosi studi di sociologi ed economisti ambientali. Ma a cosa servono tabelle, grafici le statistiche quando la catastrofe sociale e naturale è testimoniata ogni giorno dai fatti della realtà? 
            Avendo perso la testa, non sappiamo più in che giorno viviamo e gli indicatori temporali non sono altro che un susseguirsi di numeri. Non siamo più in grado stare al mondo e di abitare la terra. Gli extra-terrestri siamo noi. Come faremo a sopravvivere? Per fortuna, non tutto è perduto e, di conseguenza, abbiamo ancora la possibilità di modificare il pietoso verdetto del marziano, dimostrandogli che abbiamo i mezzi e le possibilità per riscattarci dalla sventura imminente. Esseri umani di tutto il mondo, unitevi!




[1] M. Heidegger, “Costruire Abitare Pensare”, in Saggi e Discorsi, trad. it. G. Vattimo, Mursia, 1991 ,p.107
[2] Cit. in W. Benjamin, Angelus Novus, trad. It. di R. Solmi, Einaudi, Torino, 2001, p. 109
[3] J. Baudrillard, America, trad. it. di Laura Guarino, SE, Milano, 2009, p. 60-61

Nessun commento:

Posta un commento