lunedì 3 giugno 2013

La teoria del “Metabolic Rift” in Marx (1)

Fondamenti classici per una sociologia dell’ambiente 

L’articolo di John Bellamy Foster (professore alla University of Oregon), apparso nel 1999 sulla rivista “American Journal of Sociology” nella sezione dedicata alla “Environmental Sociology”, inizia con un paradosso. L’autore, infatti, espone due tesi opposte e antitetiche, che fungeranno da linee guida per l’intera ricerca: da una parte, si afferma che la tradizione sociologica classica manca di riferimenti sistematici ai problemi ambientali; dall’altra, si asserisce che la tradizione sociologica classica ha a che fare con le questioni ambientali. La prima rispecchia l’opinione degli attuali sociologi dell’ambiente, critici nei confronti della sociologia moderna, di cui studiosi come Marx, Weber e Durkheim rappresentano i principali esponenti - nelle parole di uno di questi critici, ovvero Murphy: «la sociologia classica è stata costruita come se la natura non avesse alcuna importanza» (Murphy, 1996). Viceversa, la seconda corrisponde alla posizione di Foster, autore dell’articolo, e di tutti quegli studiosi che hanno cercato di rivalutare le dottrine dei pensatori classici, accusati di indossare dei blinders, ossia dei paraocchi epistemologici che avrebbero impedito loro di vedere le questioni ambientali del proprio tempo implicate in sociologia -  «Marx - ma anche Weber e Durkheim - hanno argomentato tenendo conto della natura» (Foster, 1999). Di conseguenza, l’obbiettivo dell’autore di questo studio sarà quello di dimostrare la sua tesi, fornendo delle prove attendibili tratte dalla letteratura dei sociologi classici, al fine di confutare le critiche mosse dalla maggior parte degli ambientalisti contemporanei sulla presunta “cecità” di cui Marx, Weber o Durkheim sarebbero affetti.
            Quali sono gli ostacoli che, secondo gli odierni ambientalisti, avrebbero impedito ai sociologi moderni di trattare in maniera esplicita e dettagliata le problematiche ambientali? L’autore parte da un dato storico comunemente accertato, vale a dire la grave crisi ecologica globale che ha colpito il pianeta terra nel corso degli anni ’60 e ’70 del XX secolo. Questo fatto ha dato inizio al fenomeno dell’ambientalismo, ossia a una generale tendenza ecologica che, a partire dagli anni ’80 e ’90, ha portato a notevoli trasformazioni nei modelli teorici e pratici all’interno di varie discipline quali, ad esempio, la geografia, l’antropologia e l’economia. Tuttavia, tale mutamento di paradigma, a causa di una innata attitudine a separare la natura, di cui si occupa la biologia, dalla società umana, peculiare oggetto d’indagine della sociologia, proprio quest’ultima avrebbe incontrato delle resistenze nell’accogliere i cambiamenti dettati dai problemi ambientali. In seguito, questa presa di distanza della sociologia dalle questioni ecologiche si sarebbe allentata a tal punto che, oggi, la sociologia dell’ambiente rientra a buon diritto tra le sottodiscipline sociali. Tuttavia, la mancanza di prontezza accademica nel recepire la “svolta verde” in atto venne imputata alla tradizione sociologica classica, incapace, per l’appunto, di captare i problemi connessi con l’intervento umano sulla natura. Pertanto, la diffidenza dei nuovi ambientalisti nei confronti della sociologia moderna ha fatto sì che essa fosse etichettata come materia  “radicalmente sociologica”, cioè miope nel prendere in considerazione anche il ruolo della materia fisica nella storia della cultura umana. In questo senso, autori di spicco che hanno posto le basi alla sociologia moderna quali Marx, Weber e Durkheim avrebbero, più o meno inconsapevolmente, indossato dei “paraocchi” (blinders), poiché accecati da una impostazione antropocentrica esclusivamente improntata sull’autonomia dei processi sociali dal mondo naturale, sulla conseguente marginalizzazione dell’ambiente fisico e su un cieco determinismo socio-culturale.
            A questo punto, fa notare Foster, le opzioni intraprese furono due: o tendere direttamente la mano, con tutte le implicazioni del caso, al darwinismo sociale pre-classico, come Malthus; oppure scavare attentamente all’interno della letteratura sociologica moderna al fine di riportare in luce aspetti squisitamente ecologici male interpretati o addirittura trascurati dalla critica. Quest’ultima, ovviamente, è la strada scelta dall’autore dell’articolo, il quale decide di focalizzare la sua analisi principalmente sulla figura di Karl Marx, sicuramente uno degli intellettuali più bistrattati dalla critica, ma concedendosi delle incursioni anche nelle opere degli altri sociologi moderni.
            Per quanto concerne il dibattito attuale sulla sociologia marxiana e il suo rapporto con l’ambiente, il Professore americano illustra le quattro posizioni che solitamente si assumono a riguardo: 1) il pensiero di Marx fu antiecologico dall’inizio alla fine e indistinguibile dalla pratica Sovietica; 2) Marx ha offerto illuminanti intuizioni in ecologia ma alla fine ha ceduto al “Prometeanismo” (visioni pro-tecnologiche e anti-ecologiche); 3) Marx ha offerto un’analisi sul degrado ecologico in agricoltura che, tuttavia, rimase segregato dal centro delle sue analisi sociologiche; 4) Marx ha sviluppato un approccio sistematico alla natura e al degrado ambientale (in particolare riguardo alla fertilità del suolo), che era indissolubilmente legato al resto del suo pensiero, e ha introdotto la questione della sostenibilità ecologica. Come possiamo intuire, l’autore si fa qui portavoce dell’ultima tesi. Tuttavia, chi più chi meno, i sostenitori delle prime tesi concordano tutti nell’indicare quali sono i cosiddetti paraocchi che Marx avrebbe portato nelle sue analisi sociologiche, ossia l’incapacità di esaminare: 1) lo sfruttamento della natura, 2) il ruolo della natura nella creazione di  valore, 3) l’esistenza di marcati limiti naturali, 4) il carattere mutevole della natura e l’impatto di ciò sulla società umana, 5) il ruolo della tecnologia nel degrado ambientale, 6) l’incapacità della mera abbondanza economica nel risolvere i problemi ambientali. Pertanto, il compito che Foster si prefigge nel suo lavoro è quello di inabissarsi nelle opere marxiane al fine di trovare concetti e dottrine in grado di smentire ognuno dei sei paraocchi.
            Il lavoro archeologico di Foster parte, ancora una volta, con la descrizione di un fatto storico, cioè la Seconda rivoluzione agricola che ebbe luogo tra il 1830-80 in Europa e nel Nord America. In questi anni, infatti, le popolazioni dei due continenti furono testimoni di una drammatica perdita di fertilità del suolo che, di conseguenza, non riusciva più a garantire una quantità di raccolto adatta per soddisfare tutte le bocche che, nel frattempo, erano aumentate a causa di un incremento demografico significativo. I governi dei vari paesi, quindi, affidarono ai più rinomati scienziati del tempo il compito di capire le cause di questo improvviso “esaurimento del suolo”. Due di questi scienziati, Justus von Liebig e H. Carey, attraverso una serie di esperimenti empirici e grazie alle loro perite conoscenze in campo biochimico, riportarono i risultati delle loro ricerche principalmente in tre saggi. In Chimica organica e le sue applicazioni in agricoltura e fisiologia del 1840, Liebig parlava per la prima volta di «terreni stressati» (worn-out), accusando il nascente modo di produzione capitalista di sfruttare i terreni in maniera scriteriata, vale a dire con una eccessiva pretesa di raccolto, senza garantire il naturale ciclo di reintegro dei componenti nutritivi dei campi. In un altro testo, Sull’utilizzo del liquame cittadino del 1865, il medesimo agronomo e botanico si soffermava invece sul grave e inaudito inquinamento delle città a causa dei rifiuti organici di uomini e animali, proponendo delle soluzioni pratiche per arginare il problema. Da parte sua, Carey, in Principi di scienze sociali, scritto nel 1858-59, incriminava il commercio sulla lunga distanza che, alterando il rapporto tra città e campagna e quello tra produttori e consumatori, sarebbe stato colpevole di aver contribuito alla progressiva perdita di fertilità del suolo (depletion of the soil). Il problema dei “terreni esausti” ebbe come conseguenza una ingente domanda di nuovi fertilizzanti, come il guano peruviano e i nitrati cileni, che furono importati in massa nelle campagne europee e nord americane. Ma, quando anche questi concimi naturali vennero meno, i proprietari terrieri furono costretti ad affidarsi all’industria chimica, la sola in grado di creare dei fertilizzanti artificiali, come i “superfosfati”, per mantenere le rendite fondiarie agli stessi elevati livelli. Fu proprio l’intenso sviluppo dell’industria dei fertilizzanti chimici a rappresentare la scintilla che innescò la Seconda rivoluzione agricola.
            Il fatto che tutti questi temi, come dimostra Foster mediante alcuni precisi e pertinenti riferimenti bibliografici, confluirono nella maggiore opera di Marx, Il Capitale (1867), significa che nel pensatore tedesco era presente una radicata consapevolezza “verde” circa le problematiche ambientali del tempo. Marx, in particolare, incentra le sue analisi sul carattere contraddittorio e assolutamente insostenibile dell’agricoltura capitalista, definendola una vero e proprio “sistema di saccheggio”. Questa presa di posizione da parte del filosofo di Treviri smonta l’idea balzana secondo cui le sue riflessioni sarebbero caratterizzate da lacune circa, ad esempio, lo sfruttamento scriteriato della natura.

Nessun commento:

Posta un commento