lunedì 3 giugno 2013

La teoria del “Metabolic Rift” in Marx (2)


            Ma, il concetto che più di ogni altro sbaraglia ogni dubbio sulla lontananza marxiana dai problemi ecologici è, secondo Foster, la teoria del “Metabolic Rift”, ossia della spaccatura creatasi, con il dispiegamento insensato del capitalismo, nella relazione interdipendente tra l’uomo e la natura. Tuttavia, per spiegare la dottrina della “crepa metabolica”, Foster introduce preventivamente un altro concetto fondamentale di Marx, ossia quello di Stoffwechsel. Con tale termine, Marx intende propriamente il metabolismo socio-ecologico: secondo un’accezione generalmente ecologica, Stoffwechsel indica la reale interazione metabolica tra la natura e la società attraverso il lavoro umano mentre, secondo un significato tipicamente sociologico, esso nomina più precisamente il complesso, dinamico, interdipendente insieme di bisogni e relazioni generato e costantemente riprodotto in una forma alienata sotto il capitalismo, e la questione della libertà umana che questo comporta. Detto ciò, Foster osserva come per Marx, con l’avvento dell’industria e dell’agricoltura su larga scala, si sia creata una fenditura irreparabile nell’interazione metabolica tra l’uomo e la terra, generata a sua volta dal «cieco desiderio di profitto» della produzione capitalistica. Secondo Marx, infatti, il fallimento nel riciclo dei nutrimenti al terreno, l’inquinamento delle città e la conseguente irrazionalità dei moderni sistemi di scarico, ma anche lo sfruttamento incontrollato delle risorse di carbone, così come la deforestazione e il furto di terra e risorse delle colonie sono tutti sintomi che stanno a significare che lo spirito della produzione capitalistica è in piena contraddizione con il settore primario. Il capitalismo, in altri termini, altro non è che una rapina delle originali fonti di ricchezza: la terra e i lavoratori. Quindi, in virtù di quanto asserito, Foster non esita nel dichiarare falsa anche la presunta incapacità di Marx nel riconoscere l’esistenza di limiti naturali ben definiti.
            Ma il contributo marxiano nella comprensione delle questioni ecologiche si spinge anche oltre, fino alla constatazione dell’allarmante necessità di salvaguardare la terra per le generazioni successive; questo tema costringe Foster a inserire a buon diritto Marx nell’alveo dei precursori del concetto di sostenibilità. In particolare, secondo il pensatore tedesco, la chiave per porre un freno agli scottanti dilemmi ecologici e sociali del suo tempo è un mutamento radicale nella relazione umana con la terra mediante il cambiamento dei rapporti di produzione e, in aggiunta, una virtuosa sintesi tra agricoltura e industria. Infatti, solo passando a un diverso sistema di produzione alternativo al capitalismo, ovvero a un’economia basata sul controllo collettivo dei mezzi di produzione da parte dei produttori associati, è possibile, per Marx, risolvere, in primo luogo, il problema della libertà umana (assente nella società alienata capitalistica) e, in secondo luogo, la questione dei limiti delle risorse naturali, mediante un modo di produzione più attento ai rischi ecologici. Molti critici, però, nota Foster, hanno visto nell’idea della transizione diretta al comunismo un’utopia che pretende di eliminare una volta per tutte i problemi della disuguaglianza sociale con l’immissione dell’ “abbondanza” di merci che, perciò, trascurerebbe i vincoli imposti dalla natura. Tuttavia, osserva Foster, per abbondanza Marx intendeva semplicemente la soddisfazione dei bisogni fisiologici umani per tutti gli uomini e non pensava, quindi, che l’“abbondanza” materiale e quantitativa fosse la panacea di tutti i malanni dell’umanità! Dunque, il capo di imputazione secondo cui Marx non sarebbe stato in grado di rifiutare la mera abbondanza economica nel risolvere i problemi ambientali cade come i precedenti.
            Un altro passo di Marx frainteso è quello in cui egli definisce la natura come “un dono gratuito”  al capitale. I critici hanno visto in questa affermazione un alibi allo sfruttamento incontrollato delle risorse naturali, nonché l’incapacità del filosofo nel considerare il ruolo della natura nella creazione della ricchezza. Tuttavia, come spiega Foster, quello che Marx intendeva con la suddetta espressione era che la natura, che contribuisce alla creazione di valore d’uso, è una fonte di ricchezza tanto quanto il lavoro: «Il lavoro è il padre della ricchezza materiale, la terra è la madre» (W. Petty,1976). Ma, mentre il lavoro è salariato, la natura no - e questo è un dato di fatto nel materialismo storico marxista.
            Anche il modo con cui Marx valuta la teoria darwiniana della selezione naturale, esposta nella celebre L’origine delle specie del 1859, è stata, secondo l’autore dell’articolo, occasione di qui pro quo grossolani. Infatti, Marx, lungi dal predicare tanto un cieco riduzionismo biologico quanto un puro determinismo socio-culturale, era propenso piuttosto a un “cauto costruzionismo”, dal momento che ammetteva una certa co-evoluzione bio-culturale nella storia umana. Secondo Marx, l’evoluzione umana è parzialmente separata da quella naturale poiché, mentre la prima genera tecnologia, la seconda sviluppa organi (dal greco organon, cioè strumento). Ciò non esclude affatto che la tecnologia sia condizionata e dalle relazioni sociali e dalle condizioni naturali: la natura, per Marx, dispone di certi limiti e, di conseguenza, egli riconosce il ruolo della tecnologia nel processo di degrado ambientale, come anche  il carattere mutevole della natura.
            Dopo aver fatto crollare, uno dopo l’altro, i paraocchi che caratterizzerebbero la sociologia marxiana, Foster si domanda: come è possibile che il pensiero di Marx sia stato equivocato in tal modo? In altri termini, perché il ‘verde’ delle sue analisi è stato spesso sfumato se non oscurato del tutto? A questo interrogativo l’autore offre due risposte, connesse rispettivamente al problema di appropriazione e a quello di definizione che hanno intaccato il marxismo nel tempo. Il problema di appropriazione, in particolare, riguarda il modo con cui la sua sociologia è stata recepita e tramandata nel corso dei secoli. Infatti, negli anni immediatamente successivi alla sua morte, ossia durante la prima era sovietica degli anni ’20, il marxismo elaborato da autori quali Lenin, Bukharin e Kautsky era ancora molto vicino alla sua forma originale. I tre socialisti russi, ad esempio, nelle loro opere, parlano di «tutela dei monumenti della natura» (Lenin, La questione agraria e la “critica a Marx”), di «equilibrio instabile» tra uomo natura (Bukharin, Materialismo storico), e insistono sui costi che comporta l’industria dei fertilizzanti (Kautsky, La questione agraria). Col passare del tempo e con l’ascesa definitiva del Partito Comunista Sovietico guidato dall’ideologia di Stalin, la ricezione del marxismo ortodosso cambia, tanto che, per gli anni’30, a causa dello smodato accrescimento della produzione industriale, si può parlare a buon diritto, di “ecocidio”. La fortuna di Marx, d’ora in avanti, è altalenante ma, ancora negli anni ’40, intellettuali di spicco quali gli esponenti della Scuola di Francoforte tacceranno il marxismo di essere «una filosofia prometeica della schietta dominazione della natura».
            Per quanto riguarda il problema di definizione, invece, Foster analizza come, negli ultimi anni, sia nata una bipartizione tra il cosiddetto “human exemptionalist paradigm”, improntato all’antropocentrismo e il “new environmental paradigm”, detentore di un punto di vista ecocentrico. Secondo questa dicotomia, tutta la sociologia classica o moderna rientrerebbe a priori nella prima etichetta mentre la nascente filosofia green nella seconda. Ma, precisa Foster, questa scissione incorre nell’errore logico del terzo escluso (fallacy of the excluded middle) e, di conseguenza, si tratta in realtà di una dicotomia totalmente arbitraria che non rispecchia il vero stato dell’arte.
            In conclusione, «Marx - ma anche Weber e Durkheim - hanno argomentato tenendo conto della natura» (Foster, 1999).


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