giovedì 13 giugno 2013

Una perifisica


                Sarà necessario ricordare che anche homo proviene da humus e che, di conseguenza, essere umano è saper          essere umile? (F. Duque, “Abitare la terra: Ambiente, Umanismo, Città”)

Dopo aver elaborato la parte negativa della nostra ricerca attraverso una disamina critica del mondo dei consumi di stampo occidentale, passiamo ora alla parte costruttiva della trattazione, in cui cercheremo di riscattare una filosofia alternativa alla visione tecnocratico-capitalistica o metafisico-borghese, che guidi delle pratiche quotidiane atte alla cura di una vita autenticamente umana all’interno del pianeta Terra. Da quanto analizzato in precedenza, per guarire dal jet-leg esistenziale e recuperare un autentico ben-essere, risulta necessario atterrare dal volo pindarico prometeico, capovolgere la metafisica ed elaborare una modalità di pensiero nuovamente a contatto con la natura e con l’intera realtà circostante, vale a dire una PERI-FISICA. Il lemma è composto da due termini di derivazione greca: περὶ (perì), preposizione che significa “presso”, “attorno”, e Φύσις (physis), sostantivo declinato al plurale neutro e traducibile con “natura”, nei due significati che, come abbiamo visto, il termine può assumere. Pertanto, perifisica significa letteralmente “presso la natura” o “attorno alle cose reali”, e ci serve per nominare quella modalità di pensiero antitetica alla metafisica. In altri termini, al fine di porre argine al progressivo scollamento umano dalla terra e alla sua condizione di sradicatezza, fenomeni che lo rendono sostanzialmente un senza tetto mal-vivente, c’è bisogno di una vera eco-sofia, cioè di un sapere dell’abitare imperniato sulla nozione di oikos, che in greco antico significa “casa”, affinché riporti l’uomo schiavo della tecnica e del capitale con i piedi per terra e accanto ai propri simili, per imparare nuovamente a stare al mondo. Innanzitutto, ecosofia non significa fisiocrazia, ossia lasciarsi tiranneggiare passivamente dal potere della natura, rifiutando in modo antiumano il fondamentale contributo della più avveniristica tecnologia. In secondo luogo, essa non implica nemmeno una sorta di economia naturale o di sussistenza, basata sul baratto o su un “comunismo” primitivo. Infatti, lungi dai nostri intenti è l’apparire come moderne Cassandre tecnofobiche, neoluddisti, passatisti, retrivi, reazionari, oscurantisti o nostalgici romantici; in aggiunta, è un atteggiamento infantile e sterile quello di bollare il denaro come sterco del demonio o condannare a priori la proprietà privata. Al contrario, l’ecosofia accoglie, anzitutto, la tecnologia nell’originale accezione greca di techne come “arte di operare”, “saper fare con perizia” e, inoltre, l’eco-nomia vera e propria, concepita alla stregua di “amministrazione dei beni della casa”, cioè gestione e tutela delle risorse naturali del pianeta terra per conto della famiglia umana. Se ci affidiamo, ancora una volta, all’etimologia originaria del termine, ascoltando ciò che hanno da dirci le due parole greche di cui è composta, ovvero οἶκος (“casa”) e νόμος (“legge”), notiamo che eco-nomia vuol dire “regole della casa”, “amministrazione del patrimonio”, “management dei beni di famiglia”. In questo senso, l’eco-nomia è per definizione economia domestica e, come tale, progresso.
            Ora, un modo per rovesciare la metafisica e riabilitare una ecosofia potrebbe essere quello di sostituire l’alfabetizzazione borghese incentrata sull’astrazione con un’opera di alfabetizzazione civica, il cui fulcro è rappresentato e dall’agri-cultura, ossia la "saggezza del campo", e dall’agri-coltura, vale a dire la "lavorazione del campo", rispettivamente il contributo teorico e quello pratico della filosofia contadina, settore primario per definizione legato alla terra. In questo senso, dobbiamo ritornare ignoranti, cioè abbandonare la dotta ignoranza del borghese moderno, ossia il nozionismo metafisico basato sull’astrazione, su cui si regge l’attuale società dei consumi, per apprendere nuovamente la saggezza del uomo umile, il cittadino in qualità di residente della terra. In altri termini, è necessario affidarsi al granaio di saperi elementari che la civiltà contadina ha da sempre posseduto e tramandato ma che ora, sotto il telaio meccanizzato e industriale dell’agribusiness, rischia di scomparire per sempre. A tal proposito, l’endorsement alla tradizionale cultura rurale come nuovo caposcuola per lo sviluppo economico umano giunge dalla studiosa e attivista indiana Vandana Shiva: «Dobbiamo considerare i nostri agricoltori come il nostro capitale sociale, perché le piccole aziende agricole sono quelle che producono di più. [...] Dobbiamo portare rispetto nei confronti della terra, dei nostri agricoltori così come della più antica conoscenza in ambito agricolo[1]». In questo senso, il nostro è un lavoro inutile, giacché non inventiamo nulla; si tratta semplicemente di ri-scoprire quell’ermeneutica della sopravvivenza che naturalmente sgorgava, fino a non molto tempo fa, dal DNA dell’essere umano e, perciò, di ri-proporla al pubblico come indispensabile bagaglio culturale per l’oggi e per il domani.
            Mediante la cura ecosofica del sapere contadino e, in particolare, della sapienza della donna in quanto figura maggiormente emarginata dal mainstream capitalistico e tecnocratico occidentale, sarà forse possibile rinsavire dal morbo metafisico-borghese e passare così, dal finto “benessere” della “civiltà” dei consumi al vero ben-essere della mente e del corpo. Cose, piante, animali e uomini riacquisteranno la loro essenza originaria all’interno del mondo e, pertanto, l’homo sapiens sarà nuovamente in grado di abitare felicemente la terra. Infatti, oltre alle abilità tecniche che un coltivatore deve possedere in modo da ottenere raccolti di qualità, esiste un vero e proprio sapere legato, ad esempio, al rispetto del naturale ciclo delle stagioni, all’influenza degli astri sui lavori da svolgere, alla capacità meteorologica di capire il clima, ecc. Pertanto, sotto il salutare influsso del saper-fare contadino come cura perifisica, la natura tornerà a essere reputata come vita e spontaneità, così come la realtà sarà di nuovo il mondo fisico e materiale, cui l’uomo aggiunge un senso tramite una simbologia culturale. In primo luogo, gli oggetti tornano a essere degli utensili utili da impiegare nel lavoro artigianale quotidiano dotati, in aggiunta, di una significatività che deriva dalla cultura propriamente umana. In secondo luogo, le piante e gli animali ridiventano esseri viventi da preservare e modelli da imitare per apprendere le strategie di adattamento nel proprio ecosistema. In terzo luogo, le persone ritornano membri appartenenti alla medesima specie con cui collaborare per il miglioramento delle condizioni di vita ‒ l’uomo torna umile, da mal-vivente al confino del mondo, ossia in «esilio da quanto sa e odora si terra[2]», rimpatria come bene-stante. La filosofia contadina, in aggiunta, ridà valore alla convivialità, alla ricchezza collettiva e all’importanza delle relazioni carnali tra individui all’interno di una comunità, bilanciando il rapporto tra sociale e social, accrescendo le possibilità di giustizia sociale, solidarietà e libertà. Pur essendo proiettata verso il futuro, essa non dimentica la tradizione, grazie al legame con la memoria. In questo modo, rimette al centro il carattere kairologico dell’esistenza, ossia il Tempo, rispettando il naturale ciclo delle stagioni e l’alternarsi del giorno e della notte, oltre che ricollocare nella giusta prospettiva il tempo libero, quell’otium così importante per la sopravvivenza dell’individuo, una volta svolte le mansioni lavorative atte al vivere. Inoltre, il lavoro, diversamente dai gesti ripetitivi che le tute blu del Consumismo sono obbligati a eseguire nello stabilimento dei Tempi Moderni, riacquista la sua posizione di rilievo come categoria fondamentale dell’umano, anche in virtù di una rivalutazione del lavoro manuale basato sulla qualità e sull’artigianalità delle professioni. In sostanza, la filosofia contadina può insegnarci di nuovo come nutrirsi, come costruire, come convivere, come sopravvivere; come abitare la terra per non soccombere alla catastrofe ambientale. Tuttavia, è bene precisare fin da subito che qui si rigetta il nostalgico quanto falso mito del buon selvaggio spensieratamente immerso in un idilliaco stato di natura bucolico; non s’invoca per nulla un ingenuo revival della georgica età dell’oro rimpiangendo il tempo in cui “si stava meglio, quando si stava peggio”; si esclude con forza il banale “viva la campagna” starnazzato da certo agriturismo. L’esigenza, in questo particolare momento di crisi dell’abitare, è di affidarci nuovamente all’antica sapienza della cultura contadina, senza dimenticare gli errori e gli orrori perpetuati nelle campagne anche dai braccianti agricoli, per passare così dalla borghese sofologia (“scienza del sapere”) alla più umile filosofia (studium, “passione per il sapere”), in modo da conoscere bene il territorio di propria competenza e, di conseguenza, saperlo abitare ragionevolmente.




[1] V. SHIVA, “Mai più cibo spazzatura”, in La Stampa del 22/04/2012
[2] F. DUQUE, Abitare la terra, cit., p. 78

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