giovedì 13 giugno 2013

Come il mondo vero finì col diventare finzione

E’ Maya, il velo ingannatore, che avvolge gli occhi dei mortali e fa loro vedere un mondo del quale non può dirsi né che esista né che non esista. (A. Schopenhauer, “Il mondo come volontà e rappresentazione”)

               
Chiarite tali premesse, vediamo in quale misura l’homo sapiens, caratterizzato da una peculiare forma di inettitudine biologica, non è più in grado di abitare il pianeta Terra. Se ci caliamo nella parte di investigatori del reale, che indagano il loro mondo avvalendosi dello strumento ermeneutico della circospezione, l’impressione è esattamente che l’abitante della odierna società dei consumi, schiavo di un uso scriteriato della tecnica e preda del profitto a tutti i costi, non sia davvero più capace di stare al mondo. Infatti, se assumiamo come campione d’analisi del genere umano il membro della cosiddetta Società del “Benessere”, ossia la parte del mondo contrassegnata da agiatezza economica e ingente sviluppo tecnologico, dal suo comportamento quotidiano nell’ambiente in cui risiede, notiamo che egli, rappresentante di spicco dell’umanità, non sa più come intervenire in maniera equilibrata sull’universo naturale di cui fa parte, per modificarne le leggi in vista dei propri desideri eudemonistici. Nel dettaglio, da parecchio tempo gli esseri umani non sanno più come nutrirsi in maniera razionale, come vestirsi convenientemente per proteggere il loro corpo dal clima, come modificare in modo sensato il proprio ecosistema per costruirvi una dimora sicura. Allo stesso modo, essi hanno perso la corretta attitudine nell’approcciarsi alle cose che popolano il loro mondo. In aggiunta, i Primati della superfamiglia ominoidea, come vedremo, non sono più capaci di vivere con i propri simili e questo fatto, per un animale sociale, rappresenta un deficit strutturale di grande portata. Ma esaminiamo una dopo l’altra tali deficienze sistemiche che contraddistinguerebbero il genere umano di cui anche noi facciamo parte. In primo luogo, l’homo consumens non sa più nutrirsi in maniera ragionevole, cioè tenendo in considerazione la stagionalità, la provenienza, la qualità e il sapore degli alimenti raccolti e mangiati, come dimostrano le paradossali problematiche legate alla malnutrizione, allo spreco del cibo, alla nocività di alcuni ingredienti e all’inquinamento folle delle falde acquifere. Se, come suggeriva Feuerbach, l’uomo è ciò che mangia, allora siamo prossimi alla catastrofe alimentare e, perciò, antropologica, dal momento che il cibo di cui ci nutriamo, da elemento basilare della comunità, sta diventando per lo più un optional di sostentamento privo di qualsiasi collegamento con il resto della realtà. In secondo luogo, l’uomo “benestante”, fashion victim e schiavo di un confort sconfortante, non sembra più in grado di vestirsi adeguatamente per proteggere il proprio corpo dagli agenti atmosferici. Infatti, invece di abbigliarci a seconda delle condizioni meteorologiche esterne, preferiamo inventare climatizzatori da interno, potenti condizionatori e sofisticati impianti di riscaldamento che, a loro volta, condizionano il clima, innescando un corto circuito pazzesco e incomprensibile. In poche parole, modifichiamo il clima che abbiamo noi stessi alterato! Com’è logico, tutto ciò comporta un dispendio illogico di energia che va a cozzare coi limiti imposti dalle risorse naturali, oltre che con il portafogli nelle nostre tasche. In terzo luogo, l’essere umano contemporaneo non sembra più capace di congegnare efficacemente gli utensili necessari alle sue attività quotidiane per compensare alle proprie mancanze organiche e, inoltre, di edificare in modo misurato una dimora priva di pericoli dove trascorrere la sua esistenza, poiché egli si è ridotto a un mero ingranaggio, inserito nella catena di montaggio di un modo di produzione folle e assurdo. In altre parole, abbiamo perso la giusta misura, il limite, l’arte che ci consentiva di fabbricare solamente quegli oggetti utili, che servono realmente per facilitare le mansioni dell’esistenza. Parimenti, costruiamo tanto per costruire (o, piuttosto, per avere degli introiti), senza criteri di adeguamento in base all’ambiente circostante o regolamentazioni dettate dalla morfologia di un terreno come, per esempio, la vicinanza di una fiume a rischio inondazione piuttosto che di un vulcano in stato di semiattività. Giuridicamente questa mania compulsiva di edificare ovunque senza i giusti permessi si chiama reato di abusivismo e dovrebbe essere punita dalla legge mentre, assai di frequente, si assiste al parto di ecomostri venuti al mondo assieme a colate di cemento. «I mortali devono anzitutto imparare ad abitare», tuonava la voce di Martin Heidegger, perché «solo se abbiamo la capacità di abitare possiamo costruire[1]». Un tempo bastava il buon senso, e la consapevolezza che una casa era La Casa, eretta per accogliere i vari momenti dell’esistenza di una persona; il posto dove vivere e sopravvivere, far crescere i propri figli, ospitare la famiglia e gli amici. Oggi, oltre alla seconda casa (per chi può permettersela), cerchiamo per lo più un giaciglio dove poter dormire ed espletare le nostre esigenze sessuali e organiche, un tetto per non essere colpiti dai fulmini e dalle piogge acide. Infine, l’uomo odierno pare aver dimenticato le regole per convivere pacificamente con i suoi simili, al fine di affrontare in gruppo le difficoltà della vita e realizzare una condizione di benessere collettivo. Difatti, un dato facilmente verificabile è la riduzione della sfera sociale, sopratutto ad opera dei media: vengono meno le occasioni reali di scambio e condivisione, così come le relazioni fisiche tra individui. Per esempio, momenti squisitamente sociali, al di là dei gusti personali di ciascuno, come il cinema, le partite allo stadio, i concerti e il teatro sono spesso sostituite dalla tv o da altri mezzi informatici. Stiamo perciò diventando Avatar di noi stessi, delle monadi solitarie e autarchiche in un universo parallelo enormemente distante dalla realtà; come dice Baudrillard, «ciascuno corre sulla propria orbita, chiuso nella propria bolla, satellizzato[2]». A quanto pare, in mezzo alla folla di un mondo sovrappopolato, spesso l’individuo è più solo che mai: «massa, buco nero dove il sociale si inabissa[3]», per citare ancora il sociologo e filosofo francese.
            A nostro avviso, tale incompetenza pratica nello svolgere in maniera fisiologica le attività basilari che si richiedono a un qualsiasi essere vivente su questo pianeta, ossia evolversi e riprodursi per conservare le caratteristiche precipue della specie cui si appartiene e, di conseguenza, sopravvivere all’interno del proprio ecosistema, è l’esito di un certo paradigma mentale formatosi a partire dall’età moderna e intensificatosi fino ai giorni nostri, che va sotto il nome di metafisica. Il questo studio, il termine, secondo l’originale etimologia greca, indica quella modalità di pensiero che ha progressivamente allontanato l’essere umano dalla realtà naturale, sia nell’accezione di natura in senso stretto, sia nel più ampio significato di realtà globale di derivazione presocratica, vale a dire la Physis come sostrato fondamentale del reale. Metafisica, difatti, è una parola greca composta dalla preposizione μετά (metá) che significa “dopo a”, “oltre”, “al di la”, “al di sopra” e, in aggiunta, dal sostantivo φύσις (physis), declinato al plurale neutro τα Φυσικά (ta Physiká), traducibile con “i fenomeni naturali”, “le cose fisiche”. Pertanto, il vocabolo, nella presente tesi, indica precisamente quel sapere che, mediante un’operazione di astrazione dalla realtà naturale ha condotto l’essere umano al di sopra della fisica, oltre la natura. Il processo di astrazione consiste, invero, in un totale fraintendimento ontologico dell’essenza costitutiva degli enti intra-mondani, ossia oggetti inanimati, vegetali, animali e, infine, l’uomo. In breve, il pensiero metafisico ha provocato i fenomeni di in-oggettivazione, disumanizzazione e disanimalizzazione. In primo luogo, ogni volta che osserviamo un dato oggetto, esso ci appare, prima facie, come un qualsiasi articolo da comprare o vendere. Gli utensili, ad esempio, da originali prodotti della creatività umana, frutto dell’artigianato e, quindi, dell’abilità tecnica e manuale degli individui, non sono più considerati, prima di tutto, strumenti utili alle attività tipicamente umane, bensì mercanzie “belle” o “brutte”, di tendenza o fuori moda, totalmente spersonalizzate, cui attribuire un prezzo, inserire in un listino e mettere in vetrina. Parimenti, l’«utilizzabilità» e la «fidatezza» che Heidegger riconosceva come le essenze delle cose-mezzo[4], sono state sostituite da pubblicità e commerciabilità. In secondo luogo, da quando indossiamo le lenti caleidoscopiche del consumismo, le persone intorno a noi appaiono, innanzitutto,  come dei professionisti retribuiti (di fatto, oggi capita spesso di essere informati del lavoro che svolge un tale, anche se ignoriamo il suo nome) o come dei compratori cui liquidare un determinato prodotto, piuttosto che come dei negozianti da cui poter acquistare (a volte, per esempio, categorizziamo i nostri conoscenti soprattutto come colleghi di lavoro oppure come clienti). In ogni caso, i sottoinsiemi entro cui siamo soliti catalogare gli oggetti e i nostri simili sono diventati, rispettivamente, quello delle merci e quello dei consumatori. Seguendo le penetranti analisi di Baudrillard sulla società dei consumi, possiamo dire che le cose assumono i tratti di simulacra[5], mentre le persone diventano dei veri e propri fantasmi privi di materialità. Anche membri della natura quali le bestie e le piante sono equivocati per mercanzia trafficabile, roba accarezzata dalla Mano Invisibile, da lanciare nel cerchio infuocato del consumismo. Da ultimo, ci accorgiamo che, in fondo, l’intera realtà circostante finisce per essere scambiata per quella che originariamente non è: l’economia è determinata solamente dai valori azionari stabiliti a tavolino dalle borse; le risorse naturali diventano dei beni privati oggetto di compravendita; le parole “crisi” o “crescita” assumono inevitabilmente una colorazione finanziaria[6]; l’esistenza di una persona è ridotta a carriera così come il suo corso di studi serve primariamente per fare curriculum. Anche l’utilizzo indiscriminato della tecnologia conduce l’homo consumens a tale deriva virtuale, tipica dell’impostazione metafisica. Innanzitutto, la simulazione digitale di un hardware è equivocata per la realtà concreta: byte informatici sostituiscono gli elementi chimici e le persone fatte «di carne e di sangue[7]», come ricordava Feuerbach, diventano avatar analogici. In questo modo, si assiste al fenomeno che denominiamo dal sociale al social, ovvero l’allarmante transazione dalla sfera autenticamente sociale, fatta di scambi e relazioni fisiche, all’universo parallelo ricreato dai vari social network, dove navighiamo senza una meta precisa in qualità di utenti o amministratori del servizio. E’ inevitabile che col tempo finiremo imbrigliati nella rete fintanto che non saremo più in grado di distinguere la vita terrena dalla nostra Second Life. Di conseguenza, le persone appaiono come dei profili incorporei, mentre gli oggetti contano solamente per la simbologia creata ex novum che si portano dietro, così come gli animali e le piante fungono soprattutto da cavie per esperimenti: porcellini d’India, bonsai, OGM. Riassumendo, se ci guardiamo attorno in maniera accorta e circospetta per capire il mondo che ci circonda, ci accorgiamo che gli esseri umani, specialmente gli appartenenti alla società industriale avanzata, ovvero gli abitanti dei Paesi altamente sviluppati, si sono dimenticati le istruzioni d’uso per comprendere e abitare il luogo in cui effettivamente vivono e operano, come se avessero smarrito la bussola dell’esistenza e non sapessero più orientarsi nel proprio habitat e tra i propri simili. Per questo, diciamo che l’homo sapiens è, in verità, dotato di una dotta ignoranza, cioè di una logica calcolatrice, di un paradigma gnoseologico incentrato su di un nozionismo metafisico che ha radicalmente alterato la percezione e la conoscenza umana del mondo, oltre che la sua azione trasformatrice sulla natura. In questo senso, l’essere umano non sa più stare coi piedi per terra ma, alla stregua di un apolide del mondo, vaga come senza tetto, totalmente indifferente alla propria abitazione naturale, incurante dell’habitat che lo ospita e assolutamente incapace di amministrare il pianeta su cui vive, non essendo più in grado di adempiere alle proprie mansioni domestiche, alle faccende di casa.  Allo stesso modo, il Primate al vertice della catena dell’essere non sa più in che giorno vive, giacché gli indicatori temporali non sono altro che un susseguirsi di numeri insignificanti, come le perle seriali e qualitativamente indifferenti di un’infinita collana, cifra di un continuum storico che assume i tratti di un tempo mitico eternamente uguale a sé stesso. Parimenti, l’homo consumens ha perso la testa perché vittima di un’opera di smaterializzazione digitale perpetuata dai mass media, e di uno stordimento collettivo di natura capitalistica, che lo rende eternamente frustrato e insoddisfatto, alla disperata ricerca dell’ultimo gadget alla moda, cavia del consumismo, divertito nel Paese dei balocchi e apparentemente appagato, bensì svuotato dei suoi più intrinseci bisogni di felicità. Inoltre, il discendente di Adamo – adamah in antico ebraico significa “fatto di terra”[8] –, è divenuto propriamente un extra-terrestre, un alieno, poiché ha costantemente la testa tra le nuvole di un Iperuranio virtuale e illusorio, in cui le qualità costitutive degli enti che popolano il reale sono integralmente travisate e scambiate per qualcos’altro. Pertanto, chiamiamo virtualità astratta o iperrealtà soprannaturale l’esito cui ci pilota la metafisica, giacché essa ci porta a misconoscere l’essenza del mondo e delle parti di cui esso si compone.
            Detto ciò, è chiaro che gli abitanti della cosiddetta Società del “Benessere” non sono effettivamente più in grado di abitare la terra o di stare al mondo, perché affetti da una endemica sindrome di alienazione interpretativo-comportamentale, che noi chiamiamo jet-lag metafisico, patologia che ha reso l’uomo sostanzialmente un vagabondo senza fissa dimora. Quando e in che modo ci siamo ammalati di jet-lag esistenziale? I sintomi sono iniziati a partire dall’età moderna, epoca in cui, da una parte, l’Illuminismo ha dato l’avvio al razionalismo tecnocratico e, dall’altra, la Rivoluzione Industriale ha innescato il modo di produzione capitalistico. L’epidemia si è poi allargata per colpa di un intensivo processo di alfabetizzazione borghese, incentrata su di un’epistemologia tipicamente meta-fisica, dove l’attributo indica quella particolare tipologia di pensiero scientifico fatto di tecnocrazia e capitalismo all’ennesima potenza, che ha completamente travisato il senso e l’essenza di ogni ente intra-mondano, per fini sperimentali o lucrativi. Infatti, cose, vegetali, fiere e umani sono stati ontologicamente trasformati in oggetti di manipolazione scientifica o in mera mercanzia da compravendita. L’equivoco maggiore dell’erudizione metafisico-borghese è che sappiamo calcolare con assoluta precisione la circonferenza terrestre ma, viceversa, non siamo più in grado di occuparne dignitosamente l’area.
            Ricapitolando, possiamo affermare che la luce della ragione ha finito per abbagliarci e la logica del profitto ne ha approfittato, tant’è che oggi, accecati dal pensiero metafisico, abbiamo la vista offuscata e, di conseguenza, non siamo più capaci di guardare (θεωρέιν) le cose del mondo che ci circondano. Il velo di Maya che non ci permette di vedere direttamente la realtà naturale è l’effetto-nebbia della logica metafisica, alla stregua di una cataratta che ostacola la nostra corretta visione del mondo. Esso corrisponde, grossomodo, alle lenti edulcorate di speciali occhialini 3D, che ci fanno vedere un mondo del quale non si può dire né che sia reale né che non lo sia. Ne consegue che l’eccesso di tecnologia ed economia, nonostante gli evidenti benefici in termini di miglioramento della vita materiale, ha condotto l’umanità in una condizione di malessere psicofisico, celato però sotto forma di “benessere” edonistico e immediato, idolatrato all’insegna di una visione cornucopiana del Paese di Cuccagna, in cui ogni ben di dio è disponibile immediatamente ‒ basta allungare il braccio; dove regna l’abbondanza, ma dove l’obesità e l’opulenza non sono altro che una faccia della medaglia. Il rovescio è, per esempio, la spazzatura che intasa i confini delle metropoli, che inquina i pozzi acquiferi e i cui rilasci tossici avvelenano l’atmosfera. The dark side of the earth, così si può dire, sono le discariche a cielo aperto, le montagne artificiali composte dagli scarti della produzione industriale, i rifiuti di una società incapace di gestire le proprie scorie. La concezione della crescita esponenziale come sviluppo ipertrofico è, sia per il singolo organismo, come ben sappiamo, sia per l’intero corpo sociale, come ancora fingiamo di ignorare, un tumore inarrestabile che ha come unico esito finale l’estinzione. In questo senso, il progresso moderno è di fatto una civilizzazione del suicidio di massa; la nostra è una cultura dell’harakiri, del masochismo più sadico, dell’autolesionismo, dell’auto(d)istruzione. Insomma, il “benessere” del mondo dei consumi altro non è che malessere travestito, assolutamente incurante della persona umana e della sua salute olistica. A tal proposito, un numero sempre più crescente di inchieste e studi scientifici dimostra che «l’industria ha significato sviluppo, ma ha anche prodotto una serie di sostanze chimiche e non (oltre all’uso di metalli e minerali) che, dispersi nell’ambiente ed entrati nella catena alimentare, hanno avuto un forte impatto sulla salute[9]». Ilkka Hansky, professore di ecologia e biologia evoluzionista all’Università di Helsinki, ha coniato un’espressione, ‘malattia da civilizzazione’, per rendere comprensibile che «devastando la natura, alteriamo anche gli equilibri del nostro sistema immunitario. [...] Siamo più ricchi che mai ‒ continua il professore ‒, eppure danneggiamo l’ambiente pur di crescere a tutti i costi. Ma questo progressivo allontanamento dalla natura si ritorce contro di noi, fisicamente e psicologicamente: molte malattie infiammatorie come allergie e asma, sempre più frequenti nelle metropoli, nascono proprio dalla perdita di contatto con la “dimensione verde”[10]».




[1] M. HEIDEGGER, “Costruire Abitare Pensare”, in Saggi e Discorsi, trad. it. di G. Vattimo, Mursia, 1991, p.107
[2] J. BAUDRILLARD, Il delitto perfetto. La televisione ha ucciso la realtà?, Cortina Raffaello, 1996, p. 148
[3] J. BAUDRILLARD, All'ombra delle maggioranze silenziose. Ovvero la morte del sociale, tr. it. di M. G. Camici, Cappelli, Bologna 1978, p. 9
[4] Cfr. M. HEIDEGGER, “L’origine dell’opera d’arte” in Sentieri Interrotti, trad. it. di P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze, 1968
[5] Cfr. J. BAUDRILLARD, La società dei consumi, Bologna, Il Mulino, 2008; J. BAUDRILLARD, Simulacra and Simulation, trad. ing. di S. Faria Glaser, University of Michigan Press, 1994
[6] Di notevole interesse è il fenomeno, soltanto apparentemente linguistico, della modificazione semantica delle parole sotto l’influenza metafisica, ad opera della pedagogia borghese. E’ paradigmatico, ad esempio, notare come il saper-fare tipico della saggezza pratica popolare sia diventato il cortese savoir-faire, così come il più garbato savoir-vivre ha tradotto il saper-stare-al mondo, alquanto più grezzo e, se vogliamo, cinico. Spesso i cosiddetti “francesismi” rappresentano casi rilevanti di alfabetizzazione borghese.
[7] L. FEUERBACH, Principi della filosofia dell’avvenire, a cura di N. Bobbio, Einaudi, Torino, 1979, p. 32
[8] F. PASQUERO, a cura di, La Sacra Bibbia, Edizioni Paoline, 1968, GENESI 5. - 2, p. 34
[9] G. MILANO, “L’inquinamento che ci fa stupidi”, in TUTTOSCIENZE, La Stampa del 21/11/2012, p. IV
[10] F. RIGATELLI, “Perché la civilizzazione ci sta facendo ammalare”, intervista a I. Hanski, in TUTTOSCIENZE, La Stampa del 15/02/2012, p. 29

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