E’ Maya, il velo ingannatore, che avvolge gli occhi dei mortali e fa loro
vedere un mondo del quale non può dirsi
né che esista né che non esista. (A. Schopenhauer, “Il mondo come volontà e rappresentazione”)
Chiarite tali
premesse, vediamo in quale misura l’homo sapiens, caratterizzato da una
peculiare forma di inettitudine biologica, non è più in grado di abitare
il pianeta Terra. Se ci caliamo nella parte di investigatori del reale, che
indagano il loro mondo avvalendosi dello strumento ermeneutico della
circospezione, l’impressione è esattamente che l’abitante della odierna società
dei consumi, schiavo di un uso scriteriato della tecnica e preda del profitto a
tutti i costi, non sia davvero più capace di stare al mondo. Infatti, se assumiamo
come campione d’analisi del genere umano il membro della cosiddetta Società del
“Benessere”, ossia la parte del mondo contrassegnata da agiatezza economica e ingente
sviluppo tecnologico, dal suo comportamento quotidiano nell’ambiente in cui
risiede, notiamo che egli, rappresentante di spicco dell’umanità, non sa più
come intervenire in maniera equilibrata sull’universo naturale di cui fa parte,
per modificarne le leggi in vista dei propri desideri eudemonistici. Nel
dettaglio, da parecchio tempo gli esseri umani non sanno più come nutrirsi in
maniera razionale, come vestirsi convenientemente per proteggere il loro corpo
dal clima, come modificare in modo sensato il proprio ecosistema per costruirvi
una dimora sicura. Allo stesso modo, essi hanno perso la corretta attitudine
nell’approcciarsi alle cose che popolano il loro mondo. In aggiunta, i Primati
della superfamiglia ominoidea, come vedremo, non sono più capaci di vivere con
i propri simili e questo fatto, per un animale sociale, rappresenta un deficit
strutturale di grande portata. Ma esaminiamo una dopo l’altra tali deficienze
sistemiche che contraddistinguerebbero il genere umano di cui anche noi
facciamo parte. In primo luogo, l’homo consumens non sa più nutrirsi in
maniera ragionevole, cioè tenendo in considerazione la stagionalità, la
provenienza, la qualità e il sapore degli alimenti raccolti e mangiati, come
dimostrano le paradossali problematiche legate alla malnutrizione, allo spreco
del cibo, alla nocività di alcuni ingredienti e all’inquinamento folle delle
falde acquifere. Se, come suggeriva Feuerbach, l’uomo è ciò che mangia, allora
siamo prossimi alla catastrofe alimentare e, perciò, antropologica, dal momento
che il cibo di cui ci nutriamo, da elemento basilare della comunità, sta
diventando per lo più un optional
di sostentamento privo di qualsiasi collegamento con il resto della realtà. In
secondo luogo, l’uomo “benestante”, fashion victim e schiavo di un
confort sconfortante, non sembra più in grado di vestirsi adeguatamente per
proteggere il proprio corpo dagli agenti atmosferici. Infatti, invece di
abbigliarci a seconda delle condizioni meteorologiche esterne, preferiamo
inventare climatizzatori da interno, potenti condizionatori e sofisticati
impianti di riscaldamento che, a loro volta, condizionano il clima, innescando
un corto circuito pazzesco e incomprensibile. In poche parole, modifichiamo il
clima che abbiamo noi stessi alterato! Com’è logico, tutto ciò comporta un
dispendio illogico di energia che va a cozzare coi limiti imposti dalle risorse
naturali, oltre che con il portafogli nelle nostre tasche. In terzo luogo,
l’essere umano contemporaneo non sembra più capace di congegnare efficacemente
gli utensili necessari alle sue attività quotidiane per compensare alle proprie
mancanze organiche e, inoltre, di edificare in modo misurato una dimora priva
di pericoli dove trascorrere la sua esistenza, poiché egli si è ridotto a un mero
ingranaggio, inserito nella catena di montaggio di un modo di produzione folle
e assurdo. In altre parole, abbiamo perso la giusta misura, il limite, l’arte
che ci consentiva di fabbricare solamente quegli oggetti utili, che servono
realmente per facilitare le mansioni dell’esistenza. Parimenti, costruiamo
tanto per costruire (o, piuttosto, per avere degli introiti), senza criteri di
adeguamento in base all’ambiente circostante o regolamentazioni dettate dalla
morfologia di un terreno come, per esempio, la vicinanza di una fiume a rischio
inondazione piuttosto che di un vulcano in stato di semiattività.
Giuridicamente questa mania compulsiva di edificare ovunque senza i giusti
permessi si chiama reato di abusivismo e dovrebbe essere punita dalla legge
mentre, assai di frequente, si assiste al parto di ecomostri venuti al mondo
assieme a colate di cemento. «I mortali devono anzitutto imparare ad abitare»,
tuonava la voce di Martin Heidegger, perché «solo se abbiamo la capacità di
abitare possiamo costruire[1]». Un tempo bastava il buon
senso, e la consapevolezza che una casa era La Casa , eretta per accogliere i vari momenti
dell’esistenza di una persona; il posto dove vivere e sopravvivere, far crescere
i propri figli, ospitare la famiglia e gli amici. Oggi, oltre alla seconda casa
(per chi può permettersela), cerchiamo per lo più un giaciglio dove poter
dormire ed espletare le nostre esigenze sessuali e organiche, un tetto per non
essere colpiti dai fulmini e dalle piogge acide. Infine, l’uomo odierno pare
aver dimenticato le regole per convivere pacificamente con i suoi simili, al
fine di affrontare in gruppo le difficoltà della vita e realizzare una
condizione di benessere collettivo. Difatti, un dato facilmente verificabile è
la riduzione della sfera sociale, sopratutto ad opera dei media: vengono meno
le occasioni reali di scambio e condivisione, così come le relazioni fisiche
tra individui. Per esempio, momenti squisitamente sociali, al di là dei gusti
personali di ciascuno, come il cinema, le partite allo stadio, i concerti e il
teatro sono spesso sostituite dalla tv o da altri mezzi informatici. Stiamo perciò
diventando Avatar di noi stessi, delle monadi solitarie e autarchiche in un
universo parallelo enormemente distante dalla realtà; come dice Baudrillard, «ciascuno corre sulla propria orbita, chiuso nella propria
bolla, satellizzato[2]». A quanto pare, in mezzo
alla folla di un mondo sovrappopolato, spesso l’individuo è più solo che mai: «massa, buco nero dove il sociale si inabissa[3]», per
citare ancora il sociologo e filosofo francese.
A nostro avviso, tale incompetenza
pratica nello svolgere in maniera fisiologica le attività basilari che si
richiedono a un qualsiasi essere vivente su questo pianeta, ossia evolversi e
riprodursi per conservare le caratteristiche precipue della specie cui si appartiene
e, di conseguenza, sopravvivere all’interno del proprio ecosistema, è l’esito
di un certo paradigma mentale formatosi a partire dall’età moderna e
intensificatosi fino ai giorni nostri, che va sotto il nome di metafisica.
Il questo studio, il termine, secondo l’originale etimologia greca, indica
quella modalità di pensiero che ha progressivamente allontanato l’essere umano
dalla realtà naturale, sia nell’accezione di natura in senso stretto, sia nel
più ampio significato di realtà globale di derivazione presocratica, vale a
dire la Physis
come sostrato fondamentale del reale. Metafisica, difatti, è una parola greca composta
dalla preposizione μετά (metá) che significa “dopo a”, “oltre”, “al di
la”, “al di sopra” e, in aggiunta, dal sostantivo φύσις (physis),
declinato al plurale neutro τα Φυσικά (ta Physiká), traducibile con “i
fenomeni naturali”, “le cose fisiche”. Pertanto, il vocabolo, nella presente
tesi, indica precisamente quel sapere che, mediante un’operazione di astrazione
dalla realtà naturale ha condotto l’essere umano al di sopra della fisica,
oltre la natura. Il processo di astrazione consiste, invero, in un totale
fraintendimento ontologico dell’essenza costitutiva degli enti intra-mondani,
ossia oggetti inanimati, vegetali, animali e, infine, l’uomo. In breve, il
pensiero metafisico ha provocato i fenomeni di in-oggettivazione,
disumanizzazione e disanimalizzazione. In primo luogo, ogni volta che
osserviamo un dato oggetto, esso ci appare, prima
facie, come un qualsiasi articolo da comprare o vendere. Gli utensili, ad
esempio, da originali prodotti della creatività umana, frutto dell’artigianato
e, quindi, dell’abilità tecnica e manuale degli individui, non sono più
considerati, prima di tutto, strumenti utili alle attività tipicamente umane,
bensì mercanzie “belle” o “brutte”, di tendenza o fuori moda, totalmente
spersonalizzate, cui attribuire un prezzo, inserire in un listino e mettere in
vetrina. Parimenti, l’«utilizzabilità» e la «fidatezza» che Heidegger
riconosceva come le essenze delle cose-mezzo[4], sono
state sostituite da pubblicità e commerciabilità. In secondo luogo, da quando
indossiamo le lenti caleidoscopiche del consumismo, le persone intorno a noi
appaiono, innanzitutto, come dei
professionisti retribuiti (di fatto, oggi capita spesso di essere informati del
lavoro che svolge un tale, anche se ignoriamo il suo nome) o come dei
compratori cui liquidare un determinato prodotto, piuttosto che come dei
negozianti da cui poter acquistare (a volte, per esempio, categorizziamo i
nostri conoscenti soprattutto come colleghi di lavoro oppure come clienti). In
ogni caso, i sottoinsiemi entro cui siamo soliti catalogare gli oggetti e i
nostri simili sono diventati, rispettivamente, quello delle merci e quello dei
consumatori. Seguendo le penetranti analisi di Baudrillard sulla società dei
consumi, possiamo dire che le cose assumono i tratti di simulacra[5],
mentre le persone diventano dei veri e propri fantasmi privi di materialità. Anche
membri della natura quali le bestie e le piante sono equivocati per mercanzia
trafficabile, roba accarezzata
dalla Mano Invisibile, da lanciare nel cerchio infuocato del consumismo. Da
ultimo, ci accorgiamo che, in fondo, l’intera realtà circostante finisce per
essere scambiata per quella che originariamente non è: l’economia è determinata
solamente dai valori azionari stabiliti a tavolino dalle borse; le risorse
naturali diventano dei beni privati oggetto di compravendita; le parole “crisi”
o “crescita” assumono inevitabilmente una colorazione finanziaria[6];
l’esistenza di una persona è ridotta a carriera così come il suo corso di studi
serve primariamente per fare curriculum. Anche l’utilizzo indiscriminato della
tecnologia conduce l’homo consumens a
tale deriva virtuale, tipica dell’impostazione metafisica. Innanzitutto, la
simulazione digitale di un hardware è equivocata per la realtà concreta: byte
informatici sostituiscono gli elementi chimici e le persone fatte «di carne e
di sangue[7]»,
come ricordava Feuerbach, diventano avatar analogici. In questo modo, si
assiste al fenomeno che denominiamo dal sociale al social, ovvero l’allarmante transazione
dalla sfera autenticamente sociale, fatta di scambi e relazioni fisiche,
all’universo parallelo ricreato dai vari social network, dove navighiamo senza
una meta precisa in qualità di utenti o amministratori del servizio. E’
inevitabile che col tempo finiremo imbrigliati nella rete fintanto che non
saremo più in grado di distinguere la vita terrena dalla nostra Second Life. Di conseguenza, le persone
appaiono come dei profili incorporei, mentre gli oggetti contano solamente per
la simbologia creata ex novum che si
portano dietro, così come gli animali e le piante fungono soprattutto da cavie
per esperimenti: porcellini d’India, bonsai, OGM. Riassumendo, se ci guardiamo
attorno in maniera accorta e circospetta per capire il mondo che ci circonda,
ci accorgiamo che gli esseri umani, specialmente gli appartenenti alla società
industriale avanzata, ovvero gli abitanti dei Paesi altamente sviluppati, si sono
dimenticati le istruzioni d’uso per comprendere e abitare il luogo in cui
effettivamente vivono e operano, come se avessero smarrito la bussola
dell’esistenza e non sapessero più orientarsi nel proprio habitat e tra i
propri simili. Per questo, diciamo che l’homo sapiens è, in verità, dotato di
una dotta ignoranza, cioè di una logica calcolatrice, di un paradigma
gnoseologico incentrato su di un nozionismo metafisico che ha radicalmente
alterato la percezione e la conoscenza umana del mondo, oltre che la sua azione
trasformatrice sulla natura. In questo senso, l’essere umano non sa più stare
coi piedi per terra ma, alla stregua di un apolide del mondo, vaga come senza
tetto, totalmente indifferente alla propria abitazione naturale, incurante
dell’habitat che lo ospita e assolutamente incapace di amministrare il pianeta
su cui vive, non essendo più in grado di adempiere alle proprie mansioni
domestiche, alle faccende di casa. Allo
stesso modo, il Primate al vertice della catena dell’essere non sa più in che
giorno vive, giacché gli indicatori temporali non sono altro che un susseguirsi
di numeri insignificanti, come le perle seriali e qualitativamente indifferenti
di un’infinita collana, cifra di un continuum storico che assume i tratti di un
tempo mitico eternamente uguale a sé stesso. Parimenti, l’homo consumens ha
perso la testa perché vittima di un’opera di smaterializzazione digitale
perpetuata dai mass media, e di uno stordimento collettivo di natura
capitalistica, che lo rende eternamente frustrato e insoddisfatto, alla
disperata ricerca dell’ultimo gadget alla moda, cavia del consumismo, divertito
nel Paese dei balocchi e apparentemente appagato, bensì svuotato dei suoi più
intrinseci bisogni di felicità. Inoltre, il discendente di Adamo – adamah
in antico ebraico significa “fatto di terra”[8] –, è
divenuto propriamente un extra-terrestre, un alieno, poiché ha costantemente la
testa tra le nuvole di un Iperuranio virtuale e illusorio, in cui le
qualità costitutive degli enti che popolano il reale sono integralmente
travisate e scambiate per qualcos’altro. Pertanto, chiamiamo virtualità astratta
o iperrealtà soprannaturale l’esito cui ci pilota la metafisica, giacché essa
ci porta a misconoscere l’essenza del mondo e delle parti di cui esso si
compone.
Detto ciò, è chiaro che gli abitanti
della cosiddetta Società del “Benessere” non sono effettivamente più in grado
di abitare la terra o di stare al mondo, perché affetti da una endemica
sindrome di alienazione interpretativo-comportamentale, che noi chiamiamo jet-lag
metafisico, patologia che ha reso l’uomo sostanzialmente un vagabondo senza
fissa dimora. Quando e in che modo ci siamo ammalati di jet-lag esistenziale? I
sintomi sono iniziati a partire dall’età moderna, epoca in cui, da una parte,
l’Illuminismo ha dato l’avvio al razionalismo tecnocratico e, dall’altra, la Rivoluzione
Industriale ha innescato il modo di produzione capitalistico.
L’epidemia si è poi allargata per colpa di un intensivo processo di alfabetizzazione
borghese, incentrata su di un’epistemologia tipicamente meta-fisica, dove
l’attributo indica quella particolare tipologia di pensiero scientifico fatto
di tecnocrazia e capitalismo all’ennesima potenza, che ha completamente
travisato il senso e l’essenza di ogni ente intra-mondano, per fini
sperimentali o lucrativi. Infatti, cose, vegetali, fiere e umani sono stati
ontologicamente trasformati in oggetti di manipolazione scientifica o in mera
mercanzia da compravendita. L’equivoco
maggiore dell’erudizione metafisico-borghese è che sappiamo calcolare con
assoluta precisione la circonferenza terrestre ma, viceversa, non siamo più in
grado di occuparne dignitosamente l’area.
Ricapitolando, possiamo affermare
che la luce della ragione
ha finito per abbagliarci e la logica del profitto ne ha approfittato, tant’è
che oggi, accecati dal pensiero metafisico, abbiamo la vista offuscata e, di
conseguenza, non siamo più capaci di guardare (θεωρέιν) le cose del mondo che
ci circondano. Il velo di Maya che non ci permette di vedere
direttamente la realtà naturale è l’effetto-nebbia della logica metafisica,
alla stregua di una cataratta che ostacola la nostra corretta visione del
mondo. Esso corrisponde, grossomodo, alle lenti edulcorate di speciali
occhialini 3D, che ci fanno vedere un mondo del quale non si può dire né che sia
reale né che non lo sia. Ne consegue che l’eccesso di tecnologia ed economia,
nonostante gli evidenti benefici in termini di miglioramento della vita
materiale, ha condotto l’umanità in una condizione di malessere psicofisico,
celato però sotto forma di “benessere” edonistico e immediato,
idolatrato all’insegna di una visione cornucopiana del Paese di Cuccagna, in
cui ogni ben di dio è disponibile immediatamente ‒ basta allungare il braccio; dove
regna l’abbondanza, ma dove l’obesità e l’opulenza non sono altro che una
faccia della medaglia. Il rovescio è, per esempio, la spazzatura che intasa i
confini delle metropoli, che inquina i pozzi acquiferi e i cui rilasci tossici
avvelenano l’atmosfera. The dark side of the earth, così si può dire,
sono le discariche a cielo aperto, le montagne artificiali composte dagli
scarti della produzione industriale, i rifiuti di una società incapace di
gestire le proprie scorie. La concezione della crescita esponenziale come
sviluppo ipertrofico è, sia per il singolo organismo, come ben sappiamo, sia
per l’intero corpo sociale, come ancora fingiamo di ignorare, un tumore
inarrestabile che ha come unico esito finale l’estinzione. In questo senso, il
progresso moderno è di fatto una civilizzazione del suicidio di massa; la nostra è una
cultura dell’harakiri, del masochismo più sadico, dell’autolesionismo,
dell’auto(d)istruzione. Insomma, il “benessere” del mondo dei consumi altro non
è che malessere travestito, assolutamente incurante della persona umana e della
sua salute olistica. A tal proposito, un numero sempre più crescente di
inchieste e studi scientifici dimostra che «l’industria ha significato
sviluppo, ma ha anche prodotto una serie di sostanze chimiche e non (oltre
all’uso di metalli e minerali) che, dispersi nell’ambiente ed entrati nella
catena alimentare, hanno avuto un forte impatto sulla salute[9]».
Ilkka Hansky, professore di ecologia e biologia evoluzionista all’Università di
Helsinki, ha coniato un’espressione, ‘malattia da civilizzazione’, per rendere
comprensibile che «devastando la natura, alteriamo anche gli equilibri del
nostro sistema immunitario. [...] Siamo più ricchi che mai ‒ continua il
professore ‒, eppure danneggiamo l’ambiente pur di crescere a tutti i costi. Ma
questo progressivo allontanamento dalla natura si ritorce contro di noi,
fisicamente e psicologicamente: molte malattie infiammatorie come allergie e
asma, sempre più frequenti nelle metropoli, nascono proprio dalla perdita di
contatto con la “dimensione verde”[10]».
[1] M.
HEIDEGGER, “Costruire Abitare Pensare”, in Saggi
e Discorsi, trad. it. di G. Vattimo, Mursia, 1991, p.107
[3] J.
BAUDRILLARD, All'ombra delle maggioranze silenziose. Ovvero la morte del
sociale, tr. it. di M. G. Camici, Cappelli, Bologna 1978, p. 9
[4] Cfr.
M. HEIDEGGER, “L’origine dell’opera d’arte” in Sentieri Interrotti, trad. it. di P. Chiodi, La Nuova Italia , Firenze, 1968
[5] Cfr. J.
BAUDRILLARD, La società dei consumi, Bologna, Il Mulino, 2008; J.
BAUDRILLARD, Simulacra and Simulation, trad. ing. di S. Faria Glaser, University
of Michigan Press, 1994
[6] Di
notevole interesse è il fenomeno, soltanto apparentemente linguistico, della
modificazione semantica delle parole sotto l’influenza metafisica, ad opera
della pedagogia borghese. E’ paradigmatico, ad esempio, notare come il
saper-fare tipico della saggezza pratica popolare sia diventato il cortese savoir-faire, così come il più garbato savoir-vivre ha tradotto il saper-stare-al
mondo, alquanto più grezzo e, se vogliamo, cinico. Spesso i cosiddetti
“francesismi” rappresentano casi rilevanti di alfabetizzazione borghese.
[7] L.
FEUERBACH, Principi della filosofia
dell’avvenire, a cura di N. Bobbio, Einaudi, Torino, 1979, p. 32
[8] F. PASQUERO, a cura di, La Sacra Bibbia ,
Edizioni Paoline, 1968, GENESI 5. - 2, p. 34
[9] G.
MILANO, “L’inquinamento che ci fa stupidi”, in TUTTOSCIENZE, La Stampa del
21/11/2012, p. IV
[10] F.
RIGATELLI, “Perché la civilizzazione ci sta facendo ammalare”, intervista a I.
Hanski, in TUTTOSCIENZE, La
Stampa del 15/02/2012, p. 29
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