Sono appena deceduto. Ricordo
pochissimo di quel che è successo. Sono stati attimi confusi, lenti e fugaci:un
assordante silenzio, un grido a squarcia gola completamente muto, un disperato
e interminabile sbadiglio, un pianto, forse, ma contenuto. Poi, non so come,
sono arrivato qui.
E’ un enorme stanza, piena di VHS
sistemate ordinatamente sui ripiani di alcuni scaffali di ferro grigio. C’è ne
saranno una decina, tutti classificati con un etichetta bianca su cui leggo una
coppia di numeri in ordine progressivo. Al centro della stanza vi è una sedia
di legno impagliata; davanti a essa, poggiante su un mobiletto scuro, una
vecchia TV impolverata.
Passeggio sul pavimento in
ceramica ocra, di fianco agli scaffali, scrutando le cifre sulle etichette. Sono
scritte a mano, probabilmente con un indelebile nero. Mi arresto di fronte
all’ultima, che dice: “16 – 17” .
Afferro la prima VHS che mi capita e, dopo aver soffiato via la polvere che la
infarinava, la infilo nel registratore incastonato nella TV. Mi guardo intorno
ma non vedo il telecomando. All’improvviso, senza che io toccassi nulla, lo
schermo si illumina. Compare una scritta: “Dio & Co. Corporation”. Per
inerzia mi ritrovo sulla sedia. Inizia una sorta di film girato, probabilmente,
con una cinepresa amatoriale.
Nessuna presentazione, niente
titoli di testa, niente colonna sonora. Scorgo una figura umana, probabilmente
un adolescente, seduto a una scrivania. La cameretta in cui si trova è
illuminata da un lampadario. Lo zoom si avvicina verso il giovane: sta
scrivendo su una specie di squadernino, probabilmente un diario. La pagina su
cui scorre violenta la penna reca il numero 25, in arancione.
Un déjà-vu, un flash, un ricordo. Ho già visto
questa scena. Poi di colpo il filmato si interrompe. Righe imperfette nere e
grigie. “Dio & Co. Corporation”.
La bocca del registratore sputa
fuori la cassetta. La riprendo in mano e mi rendo conto che il nastro è giunto
alla fine.
Possibile che della mia vita
rimanga soltanto uno squallido lungometraggio? Le emozioni, la noia, la gioia,
la rabbia…dove sono finite? E poi le persone incontrate laggiù, insomma, avrò
modo di contattarle in qualche modo? Volgo lo sguardo lungo la parete pallida e
a tratti scrostata, istintivamente in cerca di risposte immediate. Intanto mi
accorgo che non vi sono finestre o luci artificiali, eppure nella stanza tutto
è visibile chiaramente. Certo che per essere il paradiso è una merda.
Mi sollevo dalla sedia, pesante e
macchinoso. Compiuti i primi passi appoggio la schiena contro il muro di una
parete. La lascio scivolare finché il mio culo non incontra il pavimento. Ormai
sono seduto, con le gambe rannicchiate e le mani tra i capelli, sporchi di
qualche giorno. Facendo scorrere le dita sul cranio sento dei piccoli grumi.
Sembra forfora. Ma io non ho mai avuto la forfora! Guardo le mani e risalgo con
l’occhio tutto il braccio, fino alla spalla. Poi ispeziono le gambe. Sono
interamente coperto di questa sabbiolina grigia. Probabilmente è polvere.
E’ possibile morire di noia? Ad
un tratto mi balza un pensiero: probabilmente la mia vita non era vita.
Improvvisamente mi sembra tutto chiaro, ormai, e le risposte che stavo cercando
sono proprio qui davanti ai miei occhi, concrete e taglienti.
Una stanza impolverata, una sedia
lignea, una vecchia TV. Sarà questo il posto dove trascorrerò l’eternità a
guardare e riguardare ogni attimo di quel che fu la mia esistenza.
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