Egregio Dott. Luca Mercalli,
Le scrivo questa lettera per
esprimere alcune suggestioni che la
Sua relazione, dal titolo “La crisi ecologica vista dalla
scienza”, tenuta presso il Palazzo Nuovo di Torino, ha provocato sulla mia
coscienza di apprendista filosofo. E inizio con una metafora, tratta da uno
degli autori classici del pensiero antico, Platone, il quale, nel Menone,
paragonava il suo maestro Socrate a una torpedine marina, per la costitutiva
capacità di dare la scossa al proprio interlocutore durante una dialogo,
mettendo in crisi le sue fragili certezze. Ebbene, l’impatto che le Sue parole
hanno avuto nei miei confronti, in occasione del suddetto incontro, è stato
molto simile a quello che suscitano i tentacoli di una medusa e che, a quanto
pare, fosse in grado di generare anche Socrate. Da questo punto di vista, che
Le piaccia o no, per me Lei è un filosofo. D’altronde, da quanto ho potuto
maturare nel mio percorso di studi, sono sicuro che uno dei compiti principali della
filosofia è esattamente quello di scuotere gli animi, di mettere in discussione
lo status quo, di elaborare delle categorie critiche fondate sulla ragione che,
come insiste il Professor Gianluca Cuozzo, siano in grado di smitizzare il
presente e le mode di cui è vittima ‒ fashion victim. In altri termini,
mi pare che l’ufficio precipuo della materia che va sotto il nome di filosofia
sia proprio quello di mettere dei punti interrogativi in mezzo ai tanti
imperativi che la società ci impone in maniera subdola e sirenica.
Detto ciò, cogliendo la Sua acuta provocazione circa
la distanza dei filosofi dai temi ambientali, mi appresto a riportare una serie
di riflessioni scaturite in seguito alla Sua lectio. In particolare, mi
ha colpito la Sua
esasperazione, manifestata attraverso l’espressione «Non so più come dirvelo!»,
riguardo alla cecità del cittadino di
stampo occidentale, incapace di pre-vedere la catastrofe che ha egli stesso
innescato. A questo proposito, Lei ha anche fatto riferimento a un fenomeno
prettamente psicologico, vale a dire la rimozione, come possibile spiegazione
dell’ottusità dell’uomo contemporaneo portando, a titolo di esempio, i lugubri
avvertimenti stampati sui pacchetti di sigarette, eppure evidentemente ignorati
dai fumatori. Il problema dai Lei sollevato, cioè l’irrazionalità del nostro
modello sociale che si riflette sull’inettitudine biologica e sulla particolare
miopia dell’uomo contemporaneo, secondo me, ne chiama in causa un altro, ovvero
la questione della comunicazione. Penso, infatti, che per veicolare un
determinato messaggio a un tale destinatario sia essenziale adottare un
linguaggio appropriato a quest’ultimo. La mia impressione, infatti, è che
mostrare dei grafici, per quanto chiari e espliciti per un addetto ai lavori, a
un pubblico ampio e variegato non sia particolarmente efficace, poiché il
registro linguistico adoperato per comunicare il messaggio non viene recepito integralmente
dagli interlocutori. A tale riguardo, ritengo che la Sua scelta di utilizzare il
medium televisivo come strumento di comunicazione essoterico sia senz’altro
un’opzione azzeccata. Allo stesso modo, i libri, i giornali e le conferenze, di
cui Lei si fa promotore, possono rappresentare dei momenti felici per
trasmettere gli argomenti della crisi ecologica. Inoltre, ho saputo, per
esempio, del Suo contributo alla realizzazione del film nonché spettacolo
teatrale dal titolo “Meno cento chili - Ricette per la dieta della nostra
pattumiera”, di cui possiedo il libro, ideato da Roberto Cavallo che, peraltro,
ho avuto modo di conoscere personalmente durante un recente seminario del corso
di Sociologia dei consumi e Sostenibilità del Prof. Dario Padovan, docente dell’Università
degli Studi di Torino. Insomma, sembra proprio il caso di dirlo, a volte
un’immagine vale più di mille parole e di cento grafici. A questo punto, però,
sorge un altro quesito, assai più preoccupante: perché anche questi linguaggi
pop, ossia gli articoli giornalistici, i libri, gli spettacoli teatrali, i
film, le conferenze, le iniziative green non sono in grado di comunicare
adeguatamente l’emergenza ambientale? Detto altrimenti, in che modo, noi filosofi,
possiamo accogliere il drammatico appello lanciato da quegli scienziati «in
trincea», che non sanno più come dircelo? Dalla mia umile posizione, provo
a dare una spiegazione e una proposta, in base a quello che mi capita di
osservare e ascoltare dalle persone che mi circondano. Dunque, all’inizio della
lezione seminariale, Lei ha impostato il problema della crisi ecologica su due
principi etici: le conseguenze trans-generazionali e gli effetti globali che un
rapporto sbagliato con la natura può causare. Ora, in primo luogo, è possibile
che l’approccio apocalittico alla questione, ossia ribadire continuamente, come
delle moderne Cassandre, l’imminente catastrofe della specie umana, non porti ‒
a dire il vero, assai inspiegabilmente ma come, purtroppo, dimostrano i fatti ‒
a una reale comprensione della gravità della situazione. In un certo senso, è
la storiella “Al lupo!Al lupo!”: a forza di ripetere insistentemente il
verificarsi imminente di una disgrazia che, tuttavia, nell’immediato non si
manifesta (totalmente), la gente finisce per non crederci più, sino a quando
essa non capita per davvero. Allora, sarebbe forse necessario impostare il
problema non sugli esiti che un comportamento anti-ecologico comporta sulle
generazioni future e sull’intero pianeta, bensì sugli effetti tangibili che
tale condotta provoca nella vita presente del singolo individuo. Infatti, da un
punto di vista antropologico mi ritengo un hobbesiano-nietzschiano, poiché credo
che per natura l’essere umano sia sostanzialmente un egoista, vale a dire un
animale che, spinto da un forte impulso vitalistico, si preoccupi soprattutto
di realizzare, nella natura di cui fa parte e mediante le tecniche che gli
fornisce la sua cultura, una condizione di benessere per se stesso. D’altro
canto, sono convinto che ciò sia generalmente anche un fatto positivo, giacché,
per quanto mi riguarda, fare del bene agli altri, compreso l’ambiente, ha
necessariamente delle ricadute fisiologiche sulla persona che lo compie e che,
di conseguenza, tutelare gli ecosistemi e la biodiversità significa,
innanzitutto, preservare le condizioni ottimali in cui poter svolgere nel
migliore dei modi le attività atte alla realizzazione personale. In questo
senso, per me l’ecologia è un umanismo e l’altruismo è puro egoismo, perché
entrambi generano delle conseguenze benefiche sul singolo che li pratica. Pertanto,
penso che l’unico modo per spronare le persone affinché maturino
un’imprescindibile consapevolezza ecologica sia quello di puntare sul ben-essere
che ogni individuo può raggiungere, ossia, da una parte, mostrare i danni che
il modo di produzione capitalistico provoca sulla propria salute psicofisica e
sulla propria brama di felicità e, dall’altra, rivelare i benefici delle abitudini
ecologicamente sostenibili sull’odierna condizione di ognuno. Secondo il mio
punto di vista, il discorso ecologico è eccessivamente improntato sui costi,
sulle rinunce, sui sacrifici che dobbiamo fare per scongiurare l’estinzione
della specie umana sulla Terra o, in ogni caso, un drastico peggioramento delle
sue condizioni vitali. Viceversa, sarebbe forse più efficace insistere
maggiormente sulla salute, sulla felicità, sul ben-essere che un habitus
ecologico comporta nella vita di ciascuno. A questo proposito, Lei ha
paragonato l’attuale condizione della fetta di mondo altamente sviluppato a un
tale che, aperto il frigorifero, si trovi davanti ai propri occhi un’abbondante
riserva di lattine di birra e, preso dall’entusiasmo, inizi a tracannarle una
dopo l’altra finché si ubriaca, felice e contento. Personalmente, ritengo che
l’urgenza del presente sia di far capire alla gente che quello non è proprio il
modo per essere felici e che, di conseguenza, peccare di hybris sia
sostanzialmente un atteggiamento dannoso per i nostri desideri eudemonistici,
che conduce a uno stato di pseudo-felicità, ovvero quello che la società
odierna, mediante un sofisticato apparato mediatico fondato sulla pubblicità, ci
inculca ogni santo giorno. In qualche modo, è il concetto elaborato già parecchi
anni fa da Blaise Pascal con la nozione di divertissment, vale a dire lo
stordimento programmato, il di-vertimento che disorienta gli uomini e che li
distrae dai rispettivi problemi esistenziali, i quali, invece di essere
affrontati e risolti, vengono semplicemente evitati. In virtù di quanto
esposto, ho trovato molto convincenti le Sue analisi circa il chemical
pollution, di cui sono responsabili, per esempio, le molecole di bisfenolo,
presenti negli scontrini di carta chimica, o le particelle di PCB nelle
vernici, in quanto si focalizzavano precisamente sui rischi che corre la salute
di ogni individuo oggigiorno. Come abbiamo potuto constatare ultimamente, ad
esempio, dal processo contro l’Eternit, le persone, quando è in bando la
propria salute personale, si indignano e, magari, si mobilitano, come se al
loro interno suonasse un campanello d’allarme. Parimenti, se si riesce a
palesare che il confort e il “benessere”, di cui la società industriale
avanzata si vanta di aver creato, si pagano, in realtà, a caro prezzo sulla
nostra pelle (e sulla nostra stabilità mentale), giacché celano un lato oscuro
fatto di alienazione, infelicità, schizofrenia, cioè, mal-essere, è auspicabile
che le persone si sveglino dal sortilegio che il Mago Capitalismo ha
magicamente attuato sulle loro coscienze. In un certo modo, è assolutamente
paradossale che tutte le forze che si stanno muovendo in campo ecologico non
bastino ancora a far entrare nella testa delle persone il danno che, alla
stregua di sadici masochisti, ci stiamo causando. Eppure, a quanto pare, la
vita dei rispettivi nipoti di domani e quella odierna dei propri simili nel
resto del mondo, non interessa più di tanto.
In secondo
luogo, trovo che il difetto dell’attuale ecologia sia quello di porre la
questione ambientale innanzitutto come un problema morale, mentre, secondo me,
si tratta di un faccenda oggettiva, che
concerne la razionalità dell’uomo nel mondo: l’essere, non il dover essere. In
generale, l’attuale modello di produzione e di consumo non è sbagliato,
malvagio, immorale, ma semplicemente folle, insensato, irrazionale. La crisi
ecologica non è (solamente) un problema di etica, bensì (soprattutto) di logica
e di antropologia, perché ha a che fare primariamente con la sopravvivenza
autenticamente umana nel pianeta Terra. In aggiunta, puntare esclusivamente
sulla responsabilità morale delle persone, sul loro buon senso o sulla loro
coscienza, a ben vedere, non funziona. Forse, è più utile concentrasi sui
rischi che lo stile di vita della società consumista ha generato, genera e
genererà sul ben-essere delle persone, cioè sulla loro salute psicofisica e sui
loro intrinseci desideri di felicità. Allora, come suggerisce, di nuovo, il
Professor Cuozzo, è necessario smascherare i miti che la società dei consumi
mette in atto, svelare il trucco dietro cui si nasconde l’inganno del
capitalismo, foriero di finto benessere, anzi, di vero mal-essere, una volta scoperta
la vanità degli status symbol che ci rendono inseriti, quale la verità
dei Suv: mostri con due ani. In conclusione, ritengo che la crisi ecologica sia
l’unico, vero, grande dilemma dell’età contemporanea, che richiede, perciò, la
collaborazione di scienziati, filosofici ed esperti di comunicazione. Dopo la
fase di ricerca sperimentale attuata dalle scienze, ora è forse il momento dei
filosofi che, in quanto segugi della verità, devono riflettere sulle modalità
con cui far comprendere agli altri l’urgenza dei pericoli connessi
all’usurpazione delle risorse naturali. Il passo successivo, probabilmente, è
la performance esplicativa e convincente degli esperti di comunicazione, grazie
anche all’ausilio delle odierne innovazioni mediatiche, quali articoli di
giornale, libri, film, spettacoli teatrali e iniziative verdi che possano fare
presa sul grande pubblico, affinché quest’ultimo, modificando le proprie
pratiche quotidiane, compia finalmente quella conversione ecologica invocata da
pensatori a Lei affini, quali Guido Viale, Serge Latouche, Vandana Shiva e
molti altri. Infine, nel porgerLe i miei saluti, La ringrazio di cuore per la
disponibilità dimostrata in occasione del seminario in Università e durante la
lettura di queste righe.
I’m glad to be in the fight with you.
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