Cosa direbbe di
noi un antropologo proveniente da Marte? Che cosa annoterebbe nel suo diario di
bordo per descrivere la specie umana durante il suo viaggio spaziale? Dopo aver
studiato i terrestri a lungo, sconcertato da così inspiegabili contraddizioni,
credo concluderebbe il suo rapporto all’incirca in questo modo: “Gli esseri
viventi che si autoproclamano homini sapiens non sanno abitare il loro
pianeta e finiranno per estinguersi”.
Poiché se ci guardiamo attorno in
maniera accorta e circospetta, ci accorgiamo che noi umani non siamo effettivamente
più in grado di abitare la terra. Infatti, l’homo sapiens pare che si sia
dimenticato le istruzioni d’uso per svolgere adeguatamente le attività basilari
che si richiedono a un qualsiasi organismo vivente su questo pianeta, ossia
evolversi e riprodursi in maniera fisiologica. Nel dettaglio, da parecchio
tempo gli esseri umani non sanno più come nutrirsi in maniera razionale, come
vestirsi per proteggere il loro corpo dal clima, come modificare il proprio
ecosistema per costruirvi una dimora sicura. In aggiunta, non sono più capaci
di vivere coi propri simili e questo fatto, per un animale sociale, rappresenta
un deficit strutturale di grande portata. Ma su che basi osiamo insinuare che
ci siamo scordati il modo con cui si ciba, ci si abbiglia, si edifica o si sta
insieme? Le cose, a una prima occhiata, sembrano dimostrare il contrario.
Prendiamo, per esempio, il tema del
cibo: in tv, ogni canale trasmette, con ottime percentuali di share, programmi
culinari dedicati al buon cibo e i Tg, inoltre, non finiscono mai di deliziarci
la vista con curati servizi sull’ultima fiera del caviale russo piuttosto che
sul campionato internazionale del giro-pizza o, ancora, sul recente record
mondiale per quantità di hot-dog inghiottiti nel minor tempo possibile.
In aggiunta, passeggiando tra i reparti gastronomici di un qualunque supermercato,
le nostre pupille risultano quantomeno impressionate e rincuorate da cotanta
abbondanza di alimenti e vivande. E quando entriamo in un bar per una colazione
o per un aperitivo le nostre papille gustative risultano decisamente confortate
dai vassoi stracolmi brioche, croissant, biscotti, salatini, panini, pizzette e
tramezzini. Per non parlare dei vari ristoranti etnici che sorgono come funghi un po' ovunque nelle nostre città: giapponese, cinese, messicano, brasiliano, arabo, siberiano... Ma le prove che paiono smentire la nostra accusa di inettitudine
nutritiva sono anche altre: gli scaffali delle librerie sono affollati di libri
di ricette scritti da cuochi più o meno esperti; su internet spopolano i siti
che forniscono consigli e idee curiose per inventare la propria cena con pochi
ingredienti e spendendo pochissimi centesimi; i giornali sono pieni zeppi di
articoli riguardanti i prodotti gastronomici per stuzzicare il palato dei
lettori e fargli venire l’acquolina in bocca; le stazioni radiofoniche
bombardano gli ascoltatori con interessanti annunci pubblicitari che
sponsorizzano tavole calde, pizzerie o ristoranti, omaggiando anche i migliori clienti
con speciali coupon per ottenere sconti e offerte del tipo “All you can eat!”.
Insomma, sembrerebbe proprio che la nostra bella fetta di mondo (già questa limitazione
basterebbe a dimostrare l’irrazionalità del nostro attuale regime alimentare)
mangia e beve tutti i giorni a volontà e che, perciò, lungi dall’essere degli
ignoranti in cucina o ai fornelli, sappiamo bene cosa significa sfamarsi e,
soprattutto, con gusto.
Passiamo adesso al caso
dell’abbigliamento. Precedentemente abbiamo asserito che la popolazione umana
odierna non è più in grado di vestirsi adeguatamente. E allora dove mettiamo le
continue sfilate di moda; le corse ai saldi davanti agli out-let per
accaparrarsi l’ultimo capo firmato che fa tendenza; i consigli delle fashion
victim sui vari rotocalchi; la
martellante pubblicità degli abiti griffati; la nostra brama di rifarci il
guardaroba a ogni annata? Detto ciò, si potrebbe affermare che soffriamo di miopia
se non addirittura di cecità!
Anche per quanto riguarda l’accusa
di incompetenza edile, le prove volte a confutarla non mancano. Basta pensare
alle numerose convention omaggiate della presenza di archistar; alle
inaugurazioni di infrastrutture pubbliche e private; agli investimenti sul
mattone che (almeno così dicono…) resteranno per sempre una solida certezza;
alle abitazioni che spuntano come funghi dove una volta era tutta campagna;
alle opere di ristrutturazione e ai cantieri aperti, presidiati da gru,
betoniere e impalcature in perenne movimento. Oltre a ciò, dato che costruire
significa anche produrre, come trascurare le infinite catene di montaggio dove,
ad ogni ora, schiere di operai fabbricano senza sosta oggetti e cose che
scorrono poi eternamente sui nastri trasportatori? Oppure pensiamo ai gadget,
ai soprammobili, alle cianfrusaglie, a tutte le mercanzie che ricoprono le
bancarelle dei mercati, le mensole e le soffitte delle nostre case e che, inevitabilmente,
finito il loro corso, saturano le sconfinate discariche. Davvero l’homo sapiens
non sa più costruire?
L’ultima calunnia che abbiamo mosso
contro l’umanità contemporanea riguarda, infine, l’imperizia nello stare
assieme ai propri simili. Eppure, prima facie, le occasioni sociali di
scambio, condivisione, confronto e convivialità non sembrano affatto essere
venute meno; anche perché suonerebbe un po’ assurdo sostenere che le persone
sono sole in mezzo a sette miliardi di altri individui! D’altronde, in famiglia
cresciamo coi parenti, a scuola abbiamo dei compagni, a lavoro collaboriamo coi
colleghi e trascorriamo il tempo libero con amici o partner. In altri termini,
affacciandoci sulla finestra del mondo, che ci regala immagini di masse per le
strade, folle oceaniche negli stadi, resse in qualsiasi ambiente pubblico,
sembra davvero paradossale dire che l’uomo non vive più con gli altri membri
della specie.
In virtù di quanto detto, siamo
forse pazzi, allora? Non direi. Piuttosto siamo attenti osservatori,
circospetti investigatori. Perché la verità è che viviamo nel Paese di Hansel e
Gretel: una squisita metropoli le cui case sono fatte di zucchero, i fiumi di
miele e gli alberi di cioccolato che, però, nasconde un terribile segreto. Viviamo
nella Stanza degli Specchi del Luna Park, dove la nostra immagine viene
continuamente distorta e deformata dai vetri luccicanti delle vetrine, che non
ci permettono di riconoscere il nostro autentico aspetto. Viviamo nella Città
di Leonia descritta da Italo Calvino o nel Paese dei Balocchi di Collodi: località
magnifiche e divertenti, dove tutto è nuovo e pulito, a patto di non visitare
le mura fatte di spazzatura che delimitano il villaggio, ormai globale, o di
imbattersi nel terribile Mangiafuoco. Viviamo infine, in Matrix o sull’isola
del Truman Show, appagati, soddisfatti, magicamente accontentati, eppure soli e
infelici. Insomma, abitiamo in una Gabbia Dorata: una distopia pienamente
realizzata. Proviamo allora ad argomentare in difesa della lapidaria sentenza,
priva di contradditorio, stabilita del nostro severo giudice extraterrestre.
Per quanto concerne il cibo, siamo
l’unica specie animale che nonostante le ingenti quantità di mezzi di
sussistenza a disposizione, per svolgere le proprie funzioni vitali in modo
fisiologico, soffre di malnutrizione: quotidianamente sentiamo parlare di obesità,
anoressia, bulimia, denutrizione. Paradossalmente, si spende più denaro per
dimagrire che per sostentarsi. Ogni anno sprechiamo la metà del cibo raccolto. Quella
della tv è pornografia del cibo. Per garantirci tutto l’anno e in tutto il
mondo gli stessi prodotti, generiamo un inquinamento folle, a prezzi folli, che
sta compromettendo, prima di tutto, la nostra salute attuale, oltre che la
stessa sopravvivenza del pianeta negli anni a venire. Tranne rare eccezioni
(per fortuna, in graduale aumento) abbiamo completamento dimenticato elementari
nozioni circa la stagionalità e la localizzazione dei frutti della terra:
quando e dove maturano le diverse verdure? Questo significa che non possediamo
più una appropriata cultura del cibo, un’educazione alimentare. Il cibo è
spazzatura ancora prima di finire dell’immondizia: come superstiti di una
recente apocalisse, vaghiamo alla disperata ricerca di sostanze da inghiottire per
non morire di fame.
Quanti di voi fanno ancora il cambio
di stagione nell’armadio? Invece di vestirci a seconda delle condizioni
meteorologiche esterne, preferiamo inventare climatizzatori, potenti
condizionatori e sofisticati impianti di riscaldamento che, a loro volta,
condizionano il clima, innescando un corto circuito pazzesco e incomprensibile.
In poche parole, modifichiamo il clima che abbiamo modificato! Tutto ciò
comporta un dispendio illogico di energia che va a cozzare coi limiti imposti dalle
risorse naturali, oltre che con il portafogli nelle nostre tasche. Vedere
donnine mezze nude presenziare gli studi televisivi in pieno inverno fa
letteralmente accapponare la pelle. Così come essere costretti a indossare un
maglione in aereo o nello scompartimento di un treno nel cuore dell’estate
perché il sistema di rinfrescamento è insostenibile. E come non citare le porte
spalancate delle profumerie o dei negozi di abbigliamento durante la stagione
fredda, da cui fuoriesce un ondata di musica ad altissimo volume insieme a
fiumane di calore e intense essenze per attirare, come calamite magnetiche, i
clienti consumatori! Nello stesso periodo dell’anno in cui, invece, molto
spesso gli studenti delle scuole sono obbligati ad aprire le finestre delle
loro aule perché i termosifoni sono eccessivamente caldi e, pertanto, un
tantino insopportabili.
Costruiamo tanto per costruire (o,
piuttosto, per avere degli introiti), senza criteri di adeguamento in base
all’ambiente circostante o regolamentazioni dettate dalla morfologia di un
terreno o dalla vicinanza di una fiume o di un vulcano. Giuridicamente si
chiama reato di abusivismo e dovrebbe essere punito dalla legge, mentre, assai
di frequente, si assiste al parto di ecomostri venuti al mondo assieme a colate
di cemento. «I mortali devono anzitutto imparare ad abitare», tuonava la voce
di Martin Heidegger, perché «solo se abbiamo la capacità di abitare possiamo
costruire[1]». Un
tempo bastava il buon senso, e la consapevolezza che una casa era La Casa , dove vivere e far
nascere i propri figli e ospitare la famiglia e gli amici; edificata per
accogliere i vari momenti dell’esistenza di una persona. Oggi, oltre alla
seconda casa, cerchiamo per lo più un giaciglio dove poter dormire, un tetto
per non essere colpiti dai fulmini. Costruiamo, fabbrichiamo, cementifichiamo,
produciamo cose, per la maggior parte inutili, ovvero utili alle ragioni di
mercato, che adorneranno le nostre discariche a cielo aperto. Apriti Cielo…
Giorno dopo giorno assistiamo alla
riduzione della sfera sociale o restringimento della dimensione interessante (inter-esse). Sono paradigmatiche le
parole del poeta Paul Valéry che Benjamin riporta nel suo Angelus Novus, quando diagnostica la «sindrome “civiltà tecnica”»:
«L’uomo civilizzato delle grandi metropoli ricade allo stato selvaggio, e cioè
in uno stato di isolamento[2]». Un
dato facilmente verificabile è il ratto di interstizi interpersonali ad opera
dei media: vengono meno le occasioni reali di scambio e condivisione così come
le relazioni carnali tra individui. Per esempio, momenti squisitamente sociali,
al di là dei gusti personali di ciascuno, come il cinema, le partite allo
stadio, i concerti e il teatro sono spesso sostituite dalla tv o da altri mezzi
informatici. Stiamo diventando delle monadi solitarie e autarchiche in un
universo parallelo enormemente distante dalla realtà. A quanto pare, ci siamo
dimenticati che la distanza tra me e te è una terra dell’oro ricchissima o uno
scrigno prezioso da cui attingere. La diversità che ci caratterizza è una
frontiera mai totalmente assoggettabile ma comunque riducibile: essa è uno
spazio che può essere avvicinato con uno sguardo, colmato con delle parole,
diminuito con una stretta di mano, una pacca sulle spalle o una carezza,
quand’anche squarciato con uno schiaffo o penetrato con un pugno; esso, infine,
si può eliminare per un momento con un abbraccio oltre che con un bacio.
Siamo primitivi, niente da fare. Già
Baudrillard intuiva la paura che il fuoco si spenga tipica della tribù
americana, simbolo lampante della “civiltà” dei consumi di stampo occidentale:
«Gli americani sono ossessionati dalla paura che i fuochi si spengano. Nelle
case, le luci stanno accese tutta la notte, nei grattacieli, gli uffici vuoti
restano illuminati. Sulle freeways,
in pieno giorno, le macchine procedono con i fari accesi[3]». Dopo
anni di evoluzione naturale e culturale, stiamo inesorabilmente regredendo
verso una condizione da primordi dell’umanità. Non sono mere sfumature, perché
c’è una grossa differenza tra nutrirsi e saziarsi, tra vestirsi e indossare,
tra costruire e fabbricare, tra socializzare ed essere inseriti. Invece di
conservare sprechiamo, invece di ripararci trasfiguriamo l’ambiente, invece di
riparare abbattiamo e produciamo ex novo, invece di ballare sballiamo. Per
dimostrare quando abbiamo detto ci sono miriadi di dati scientifici, ottenuti
dai numerosi studi di sociologi ed economisti ambientali. Ma a cosa servono
tabelle, grafici le statistiche quando la catastrofe sociale e naturale è
testimoniata ogni giorno dai fatti della realtà?
Avendo perso la testa, non sappiamo
più in che giorno viviamo e gli indicatori temporali non sono altro che un
susseguirsi di numeri. Non siamo più in grado stare al mondo e di abitare la
terra. Gli extra-terrestri siamo noi. Come faremo a sopravvivere? Per fortuna,
non tutto è perduto e, di conseguenza, abbiamo ancora la possibilità di
modificare il pietoso verdetto del marziano, dimostrandogli che abbiamo i mezzi
e le possibilità per riscattarci dalla sventura imminente. Esseri umani di
tutto il mondo, unitevi!
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