Sarà necessario ricordare
che anche homo proviene da humus e che, di conseguenza, essere umano è saper essere umile? (F. Duque, “Abitare la terra: Ambiente,
Umanismo, Città”)
Dopo aver
elaborato la parte negativa della nostra ricerca attraverso una disamina
critica del mondo dei consumi di stampo occidentale, passiamo ora alla parte
costruttiva della trattazione, in cui cercheremo di riscattare una filosofia
alternativa alla visione tecnocratico-capitalistica o metafisico-borghese, che
guidi delle pratiche quotidiane atte alla cura di una vita autenticamente umana
all’interno del pianeta Terra. Da quanto analizzato in precedenza, per guarire
dal jet-leg esistenziale e recuperare un autentico ben-essere, risulta
necessario atterrare dal volo pindarico prometeico, capovolgere la metafisica
ed elaborare una modalità di pensiero nuovamente a contatto con la natura e con
l’intera realtà circostante, vale a dire una PERI-FISICA. Il lemma è composto
da due termini di derivazione greca: περὶ (perì),
preposizione che significa “presso”, “attorno”, e Φύσις (physis), sostantivo declinato al plurale neutro e traducibile con
“natura”, nei due significati che, come abbiamo visto, il termine può assumere.
Pertanto, perifisica significa letteralmente “presso la natura” o “attorno alle
cose reali”, e ci serve per nominare quella modalità di pensiero antitetica
alla metafisica. In altri termini, al fine di porre argine al progressivo scollamento
umano dalla terra e alla sua condizione di sradicatezza, fenomeni che lo
rendono sostanzialmente un senza tetto mal-vivente, c’è bisogno di una vera eco-sofia,
cioè di un sapere dell’abitare imperniato sulla nozione di oikos, che in
greco antico significa “casa”, affinché riporti l’uomo schiavo della
tecnica e del capitale con i piedi per terra e accanto ai propri simili, per
imparare nuovamente a stare al mondo. Innanzitutto, ecosofia non significa
fisiocrazia, ossia lasciarsi tiranneggiare passivamente dal potere della
natura, rifiutando in modo antiumano il fondamentale contributo della più
avveniristica tecnologia. In secondo luogo, essa non implica nemmeno una sorta
di economia naturale o di sussistenza, basata sul baratto o su un “comunismo”
primitivo. Infatti, lungi dai nostri intenti è l’apparire come moderne
Cassandre tecnofobiche, neoluddisti, passatisti, retrivi, reazionari,
oscurantisti o nostalgici romantici; in aggiunta, è un atteggiamento infantile
e sterile quello di bollare il denaro come sterco del demonio o condannare a
priori la proprietà privata. Al contrario, l’ecosofia accoglie, anzitutto, la
tecnologia nell’originale accezione greca di techne come “arte di
operare”, “saper fare con perizia” e, inoltre, l’eco-nomia vera e propria,
concepita alla stregua di “amministrazione dei beni della casa”, cioè gestione
e tutela delle risorse naturali del pianeta terra per conto della famiglia
umana. Se ci affidiamo, ancora una volta, all’etimologia originaria del
termine, ascoltando ciò che hanno da dirci le due parole greche di cui è
composta, ovvero οἶκος (“casa”) e νόμος (“legge”), notiamo che eco-nomia vuol
dire “regole della casa”, “amministrazione del patrimonio”, “management dei
beni di famiglia”. In questo senso, l’eco-nomia è per definizione economia domestica e, come tale,
progresso.
Ora, un modo per rovesciare la
metafisica e riabilitare una ecosofia potrebbe essere quello di sostituire
l’alfabetizzazione borghese incentrata sull’astrazione con un’opera di alfabetizzazione
civica, il cui fulcro è rappresentato e dall’agri-cultura, ossia la "saggezza
del campo", e dall’agri-coltura, vale a dire la "lavorazione del campo",
rispettivamente il contributo teorico e quello pratico della filosofia
contadina, settore primario per definizione legato alla terra. In questo senso,
dobbiamo ritornare
ignoranti, cioè abbandonare la dotta ignoranza del borghese moderno, ossia
il nozionismo metafisico basato sull’astrazione, su cui si regge l’attuale
società dei consumi, per apprendere nuovamente la saggezza del uomo umile, il
cittadino in qualità di residente della terra. In altri termini, è necessario
affidarsi al granaio di saperi elementari che la civiltà contadina ha da sempre
posseduto e tramandato ma che ora, sotto il telaio meccanizzato e industriale
dell’agribusiness, rischia di scomparire per sempre. A tal proposito, l’endorsement
alla tradizionale cultura rurale come nuovo caposcuola per lo sviluppo
economico umano giunge dalla studiosa e attivista indiana Vandana Shiva: «Dobbiamo
considerare i nostri agricoltori come il nostro capitale sociale, perché le
piccole aziende agricole sono quelle che producono di più. [...] Dobbiamo
portare rispetto nei confronti della terra, dei nostri agricoltori così come
della più antica conoscenza in ambito agricolo[1]».
In questo senso, il nostro
è un lavoro inutile, giacché non inventiamo nulla; si tratta
semplicemente di ri-scoprire quell’ermeneutica della sopravvivenza che
naturalmente sgorgava, fino a non molto tempo fa, dal DNA dell’essere umano e,
perciò, di ri-proporla al pubblico come indispensabile bagaglio culturale per
l’oggi e per il domani.
Mediante la cura ecosofica del
sapere contadino e, in particolare, della sapienza della donna in quanto figura
maggiormente emarginata dal mainstream capitalistico e tecnocratico
occidentale, sarà forse possibile rinsavire dal morbo metafisico-borghese e
passare così, dal finto “benessere” della “civiltà” dei consumi al vero ben-essere
della mente e del corpo. Cose, piante, animali e uomini riacquisteranno la loro
essenza originaria all’interno del mondo e, pertanto, l’homo sapiens sarà
nuovamente in grado di abitare felicemente la terra. Infatti, oltre alle
abilità tecniche che un coltivatore deve possedere in modo da ottenere raccolti
di qualità, esiste un vero e proprio sapere legato, ad esempio, al rispetto del
naturale ciclo delle stagioni, all’influenza degli astri sui lavori da
svolgere, alla capacità meteorologica di capire il clima, ecc. Pertanto, sotto
il salutare influsso del saper-fare contadino come cura perifisica, la natura
tornerà a essere reputata come vita e spontaneità, così come la realtà sarà di
nuovo il mondo fisico e materiale, cui l’uomo aggiunge un senso tramite una
simbologia culturale. In primo luogo, gli oggetti tornano a essere degli
utensili utili da impiegare nel lavoro artigianale quotidiano dotati, in
aggiunta, di una significatività che deriva dalla cultura propriamente umana.
In secondo luogo, le piante e gli animali ridiventano esseri viventi da
preservare e modelli da imitare per apprendere le strategie di adattamento nel
proprio ecosistema. In terzo luogo, le persone ritornano membri appartenenti
alla medesima specie con cui collaborare per il miglioramento delle condizioni
di vita ‒ l’uomo torna umile, da mal-vivente al confino del mondo, ossia in «esilio
da quanto sa e odora si terra[2]»,
rimpatria come bene-stante. La filosofia contadina, in aggiunta, ridà valore
alla convivialità, alla ricchezza collettiva e all’importanza delle relazioni
carnali tra individui all’interno di una comunità, bilanciando il rapporto tra
sociale e social, accrescendo le possibilità di giustizia sociale, solidarietà e
libertà. Pur essendo proiettata verso il futuro, essa non dimentica la
tradizione, grazie al legame con la memoria. In questo modo, rimette al centro
il carattere kairologico dell’esistenza, ossia il Tempo, rispettando il
naturale ciclo delle stagioni e l’alternarsi del giorno e della notte, oltre
che ricollocare nella giusta prospettiva il tempo libero, quell’otium così
importante per la sopravvivenza dell’individuo, una volta svolte le mansioni
lavorative atte al vivere. Inoltre, il lavoro, diversamente dai gesti
ripetitivi che le tute blu del Consumismo sono obbligati a eseguire nello
stabilimento dei Tempi Moderni, riacquista la sua posizione di rilievo come
categoria fondamentale dell’umano, anche in virtù di una rivalutazione del
lavoro manuale basato sulla qualità e sull’artigianalità delle professioni. In
sostanza, la filosofia contadina può insegnarci di nuovo come nutrirsi, come
costruire, come convivere, come sopravvivere; come abitare la terra per non
soccombere alla catastrofe ambientale. Tuttavia, è bene precisare fin da subito che qui si rigetta il nostalgico
quanto falso mito del buon selvaggio spensieratamente immerso in un idilliaco
stato di natura bucolico; non s’invoca per nulla un ingenuo revival della
georgica età dell’oro rimpiangendo il tempo in cui “si stava meglio, quando si
stava peggio”; si esclude con forza il banale “viva la campagna” starnazzato da
certo agriturismo. L’esigenza, in questo particolare momento di crisi
dell’abitare, è di affidarci nuovamente all’antica sapienza della cultura
contadina, senza dimenticare gli errori e gli orrori perpetuati nelle campagne
anche dai braccianti agricoli, per passare così dalla borghese sofologia
(“scienza del sapere”) alla più umile filosofia (studium, “passione per
il sapere”), in modo da conoscere bene il territorio di propria competenza e,
di conseguenza, saperlo abitare ragionevolmente.
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