«Chiamo il nostro mondo Flatlandia,
non perché sia così che lo chiamiamo noi, ma per renderne più chiara la natura
a voi, o Lettori beati, che avete la fortuna di abitare nello Spazio. Immaginate
un vasto foglio di carta su cui delle Linee Rette, dei Triangoli, dei Quadrati,
dei Pentagoni, degli Esagoni e altre Figure geometriche, invece di restar ferme
al loro posto, si muovano qua e là, liberamente
[corsivo mio], sulla superficie o dentro di essa, ma senza potersene sollevare
e senza potervisi immergere, come delle ombre, insomma – consistenti, però, e
dai contorni luminosi. Così facendo avrete un'idea abbastanza corretta del mio
paese e dei miei compatrioti[1]». Con queste parole prende forma l’incipit di Flatlandia[2], romanzo fantastico pubblicato nel 1884,
del pedagogo e teologo britannico Edwin A. Abbott. In quest’opera, chi parla è
un quadrato (Square), il quale, rivolgendosi ai più fortunati membri della
tridimensionale Spacelandia, racconta in prima persona le vicissitudini della
sua vita e quelle degli altri conterranei di Flatlandia - un universo a due
sole dimensioni abitato, per l’appunto, da figure geometriche piane. Quella in
cui vive Square è una società rigidamente gerarchica, in cui un maggior numero
di lati corrisponde a una più elevata posizione sociale. Infatti, la classe
inferiore di Flatlandia è composta dalla «plebaglia acutangola», ossia soldati
e operai (triangoli isosceli) e donne, semplici linee rette quasi invisibili -
tant’è che, per rendersi riconoscibili agli altri, sono costrette a dimenare la
“coda”. Al livello successivo stanno poi i borghesi, in quanto triangoli
equilateri e, ancora più in su, i
professionisti, vale a dire quadrati e pentagoni. Infine, salendo verso la
vetta della piramide, troviamo l’aristocrazia poligonale a sei e seguenti lati,
finché questi ultimi non diventano talmente fitti e indistinguibili da
costituire l’ordine circolare dei sacerdoti. A discapito della apparente
fissità sociale, il protagonista riferisce che nel suo mondo vige una legge
naturale che vuole che il discendente maschio
abbia un lato in più del padre, in modo da garantire l’ascesa di status
all’interno della comunità. Peccato che, però, la norma non valga per operai e
soldati (oltreché, ovviamente, per le donne), dal momento che «il figlio di un
isoscele rimane sempre un isoscele». A tal proposito, il narratore informa che
dagli annali di Flatlandia si contano non meno di 120 rivoluzioni tentate dagli
stremati operai, che adesso vanno scandendo il proprio slogan: «Isosceli, tutti
uniti vinceremo!». (Salta immediatamente all’orecchio il riferimento al motto
con cui si chiude il Manifesto del
Partito Comunista di Marx: «Proletari di tutto il mondo, unitevi!»). Tuttavia,
ad ogni accenno di protesta, i membri delle caste superiori non esitano a
rendere, tramite «una perfetta operazione, regolari e innocui» i vari capi
delle rivolte, i quali vengono messi a far parte dei ceti privilegiati. Altrettanto
curioso è il caso degli Irregolari, ovvero di quelle figure geometriche coi
lati disuguali: nessuno vuole avere a che fare con loro, cosicché non trovano
lavoro e sono persino abbandonati dai genitori. Di conseguenza, la frustrazione
di questi esclusi e diversi sale fino al punto in cui non si trasforma in aperta
violenza, rendendo così necessario l’intervento dei militari che li eliminano
immediatamente.
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Immagine tratta da Flatlandia, un cortometraggio d’animazione di Michele Emmer
del 1982: la versione cinematografica
dell’omonimo romanzo fantastico di Edwin Abbott del 1884.
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Ora, gli spunti di riflessione critica
circa il nostro schiacciato presente che questo capolavoro distopico del XIX
secolo offre ai suoi lettori sono davvero molti. Da questo punto di vista, la
modernità dell’autore su temi quali, ad esempio, la sottomissione femminile,
nonché la sua capacità analitica per quanto riguarda l’evolversi, o meglio
l’involversi (per certi punti di vista), della società occidentale, paiono
davvero straordinarie. A maggior ragione, se si pensa che tali questioni sono
ancora oggi a tal punto rilevanti, si constata una volta di più la
“preveggenza” di questo reverendo inglese vissuto a cavallo tra ‘800 e ‘900.
Oppure, il fallimento della attuale civiltà, altamente sviluppata ma al
contempo storicamente inetta nella risoluzione dei problemi - fame, fatica,
malattie, disuguaglianze, ecc. - che affliggono l’umanità nella sua costante
lotta per l’esistenza. D’altronde, gli obbiettivi impliciti che hanno guidato
la mano di Abbott sono stati, da una parte, la satira nei confronti della
società vittoriana (il momento storico
in cui la borghesia capitalista ha, per così dire, messo radici) e, dall’altra,
la critica al riduzionismo positivista allora nascente.
Tali questioni, mutatis mutandis, sono state trattate a più riprese anche da Herbert
Marcuse, uno dei più brillanti esponenti della cosiddetta Scuola di
Francoforte, all’interno di opere quali Eros
e civiltà (1955) e L’uomo a una dimensione
(1964), in cui l’ironia pungente di Abbott scagliata contro l’ipocrisia
vittoriana si trasforma in teoria critica della società industriale avanzata, e
dove la battaglia contro il positivismo - nel frattempo rinato sotto il nome di
neopositivismo attraverso la filosofia analitica del linguaggio e il
comportamentismo funzionalista nelle scienza sociali - viene condotta
all’esasperazione. In un certo senso, Abbott anticipa le riflessioni del
pensatore tedesco circa le conseguenze omologanti della moda e della cultura di
massa pubblicitaria, quando, all’interno del romanzo, annuncia che per un certo
periodo i flatlandesi avevano iniziato a «colorarsi i lati» con le tinte più
sgargianti, da esibire in pubblico. Infatti, modificare perennemente il proprio
look esteriore, anche mediante
accessori di tendenza in perenne rinnovamento e beni appariscenti (status symbol) condannati
all’obsolescenza pianificata, sembra, adesso come all’epoca di Abbott, l’unica
maniera per distinguersi dagli altri. «Tutti gli esseri della Flatlandia,
animati o inanimati, qualunque sia la loro forma, presentano “al nostro occhio”
il medesimo, o quasi il medesimo aspetto, quello cioè di una Linea Retta. Se
dunque tutti hanno lo stesso aspetto, come si farà a distinguere l'uno dall'altro?».
A questo punto si inserisce anche la disamina compiuta da Marcuse sulla
responsabilità dei media, rei di
perpetuare la manipolazione delle menti con l’intento di creare falsi bisogni
che devono essere “necessariamente” (spregiudicatamente) soddisfatti. Al di là
dei presunti messaggi subliminali contenuti all’interno degli spot commerciali
(Marcuse, non a caso, parla di un «potere ipnotico» delle reclame), pensiamo a
quanto influiscono oggi sulle nostre quotidiane scelte di consumo le
innovazioni tecnologiche che offrono tutta una gamma di intrattenimenti
spettacolari per il nostro “tempo libero”. Pare, infatti, che l’unica modalità
con cui è ancora possibile scorgere, seppur in maniera fittizia, una certa
stratificazione ontologica, sia rimasta la virtualità degli show in 3D. Soltanto
indossando delle speciali lenti prospettiche riusciamo ad accorgerci
dell’esistenza di altre dimensioni che ci proiettano quasi magicamente in una
realtà profondamente diversa da quella attuale. Date le suddette premesse, l’esigenza
odierna, perciò, è avere la capacità di guardare obliquamente il mondo in cui
siamo immersi per cogliere, senza l’ausilio di occasionali occhialini 3D -
simbolo dell’inarrestabile “progresso” tecnologico dell’industria culturale - la
verità (limiti naturali e sociali delle risorse energetiche, spreco,
sfruttamento umano, patologie psicofisiche) che si nasconde sotto al luccicante
manto dello sviluppo tecnologico-capitalistico e, infine, rintracciare un
modello di crescita alternativo ad
esso.
Ma ci sono anche altri elementi che
legittimano un parallelismo tra il romanzo di Abbott e lo studio di Marcuse.
Per esempio, la repressione psicofisica a cui sono sottoposti le Figure
Irregolari, oltre che le sommosse degli Isosceli sedate con la violenza dai
soldati, si avvicinano terribilmente al meccanismo di metabolizzazione igienica
- assimilazione o integrazione degli opposti - messa in atto dalla società in
cui vive e opera Marcuse, dove di assiste alla rimozione totalitaria del
pensiero negativo da parte del potere, attraverso strumenti sempre più
sofisticati (efficaci perché nascosti) di controllo e dominio sull’autonomia
dell’individuo; cioè, in altri termini, alla paralisi di quella logica della
protesta che mette in discussione l’ordine stabilito. Con le parole di Marcuse:
«L’indipendenza del pensiero, l’autonomia e il diritto all’opposizione politica
sono privati della loro fondamentale funzione critica in una società che pare
sempre meglio capace di soddisfare i bisogni degli individui grazie al modo in
cui è organizzata (p. 15)[3]». Di
conseguenza, a causa della chiusura dell’universo politico e dell’universo di
discorso, «emergono forme di pensiero e di comportamento ad una dimensione, in
cui idee, aspirazioni e obbiettivi che trascendono come contenuto l’universo
costituito del discorso e dell’azione vengono o respinti, o ridotti ai termini
di detto universo (p.26)». In particolare, Marcuse insiste sull’irrazionalità complessiva
della configurazione istituzionale della società occidentale, che, però, resta
celata sotto uno strato di ragionevole benessere per le classi agiate: «La
follia del tutto giustifica le follie particolari e trasforma i delitti contro
l’umanità in un’impresa razionale (p.65)». Insomma, la condizione degli
abitanti di Flatlandia non sembra così distante da quella «confortevole,
levigata, ragionevole, democratica non-libertà» che «prevale nella società
industriale avanzata, segno di progresso tecnico (p.15)». Ecco perciò
individuato un ponte teorico che permette il passaggio di continuità da Edwin
Abbott (1838-1926) a Herbert Marcuse (1898-1979).
Dunque,
non sembra un azzardo così avventato affermare che la realtà ha decisamente
superato l’immaginazione, come dimostra il fatto che una finzione letteraria
come Flatlandia, ipotesi tanto improbabile quanto assurda nel momento in cui
venne formulata, si è praticamente realizzata grazie al controllo del potere
dominante. Flatlandia e il povero Square sono, de facto, la società e l’uomo a una dimensione teorizzati da
Marcuse.
Il Moebius di
Escher: una catena a forma di infinito chiusa in sé stessa, in cui delle formiche (simbolo di produttività e stacanovismo) sono costrette all’eterno ritorno dell’uguale.
In buona sostanza, se non vogliamo finire
definitivamente nel baratro monodimensionale di una società piatta, in cui ogni
irregolarità viene smussata quand’anche cancellata, è necessario prestare
ascolto alla flebile voce dell’autenticamente Altro. Se non vogliamo cadere nella voragine di una irrimediabile
crisi ambientale che porterebbe il genere umano all’estinzione, dobbiamo
impegnarci tutti insieme nella riduzione del sovrasviluppo mediante una
ridefinizione dei bisogni. In conclusione, proprio come il quadrato di
Flatlandia, che scopre la terza dimensione innalzandosi al di sopra del suo universo miseramente liscio grazie a
una Sfera venuta da Spacelandia, dovremo anche noi affidarci agli
extra-terrestri situati ai margini del mainstream
corrente, in modo da trascendere la nostra società del “benessere” per renderci
finalmente conto che esistono altri mondi possibili, in cui costruire un
autentico ben-essere.
[1] Edwin A. Abbott, Flatlandia: un romanzo a più dimensioni,
Adelphi, 1998.
[2] Il libro, nel 1982, è
anche diventato un cortometraggio d’animazione, diretto da Michele Emmer e
disponibile on-line al seguente indirizzo: http://www.youtube.com/watch?v=A7DIhigATpI
[3] H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, Einaudi, 1999.
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