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Fotografia di Federica Boffa |
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venerdì 31 maggio 2013
I (LOVE) NY
Ciò che sbalordisce un qualunque Giuseppe da Vernazzano a New York City è, al di sopra di tutto, l’overdose di libertà che gli americani si sono concessi fin dalla Dichiarazione d’Indipendenza del 1776. L’emancipazione personale ha raggiunto in questa città vette vertiginose, tanto che al sabato sera ciascuno è libero di andare a correre da solo a Central Park, senza per questo sentirsi dare dello sfigato. Oppure di entrare in un negozio, comprare una pistola e compiere una strage all’interno di una scuola o di un cinema.
Melting pot
Passeggiando per i marciapiedi, incontro ovunque il medesimo odore di fritto, effuso dalla miriade di bancarelle ambulanti che vendono hot dog e ciambelle. Per le strade incrocio le stesse facce, le stesse capigliature, gli stessi vestiti, le stesse rughe, gli stessi cenni d’intesa che si ritrovano nella maggioranza dei giovani di Bra, di Torino, delle città italiane, di ogni villaggio del mondo globalizzato dai consumi. Tutt’intorno, l’aria è particolarmente elettrizzante, frizzante, eccitante, vuoi per le temperature rigide della stagione invernale, vuoi per la corrente che il vento oceanico deposita su ogni maniglia, vuoi per l’energia elettrica onnipresente, vuoi per la tensione che i nuovaiorchesi, dinamo del capitalismo, generano ininterrottamente. Attraversando una via, mi imbatto in una insegna luminosa alquanto colorata, che dice: “Museum of sex”; gonfalone paradigmatico della contemporanea mercificazione dell’erotismo. Poco più in là, vedo una maestosa cattedrale in stile gotico, dirimpetto a un mcdonald. Qui, è chiaro più che in altri posti, come l’architettura moderna abbia trascurato quasi in toto i concetti di a-misura-d’uomo, di nicchia ecologica, di funzionalismo nella disposizione degli edifici pubblici e privati nel centro cittadino. D’altro canto, il costruttivismo maniacale, di cui gli Stati Uniti si sono fatti capiscuola a partire dalla loro fondazione e successivamente intensificatosi, a ritmi allarmanti, dal secondo dopo guerra, non avrebbe potuto condurre a un esito differente. Qui, non si incontrano le armoniose planimetrie tracciate dagli umanisti europei, o l’assetto ordinato e strutturale di una piazza, inteso come centro dedito alle attività quotidiane della popolazione, disegnato dagli urbanisti rinascimentali nelle città italiane e poi diffuso in ogni angolo d’Europa. Qui, il melting pot si è verificato non solo nella promiscuità delle razze umane, ma anche nella commistione di stili e funzioni architettonici.
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Foto di Federica Boffa |
"Shame on you!"
In una piazzola davanti a Central Park un piccolo
gruppo di manifestanti (per lo più anziane signore) nitrisce a gran voce ogni
volta che passa una carrozza trainata da un cavallo, ingaggiato per portare i
turisti a spasso per il parco. Le contestatrici tengono in mano gigantografie
illustranti le condizioni brutali ‒ ferite da taglio, infortuni alle
articolazioni, infezioni ecc. ‒ a cui le bestie sarebbero sottoposte dai loro
padroni, assolutamente incuranti della loro salute. Inoltre, agitano cartelloni
scritti a mano, per denunciare lo sfruttamento che gli animali sono costretti a
subire, alla stregua di un’attrazione circense. Nonostante le grida e gli
insulti, i cocchieri continuano a sfilare impassibili e, quando transitano
dinnanzi agli attivisti, sorridono bellamente al fine di rassicurare qualche
turista leggermente preoccupato. A questo punto i dimostranti digrignano i
denti e, con la bava alla bocca, scandiscono il seguente coro di protesta: «Shame
on you! Shame on you!». A ben vedere, questo slogan, lanciato contro un
bersaglio particolare in un’occasione specifica, in realtà potrebbe
rappresentare il marchio di infamia da estendere su molti aspetti riprovevoli
(alcuni dei quali trattai anche in questa sede) che gli U.S.A., consapevoli o
meno, incrementano emblematicamente. In altri termini, per un viaggiatore
particolarmente sensibile ai temi morali e ambientali del proprio tempo,
connessi, ad esempio, al maltrattamento animale, alle emissioni di CO2
responsabili del riscaldamento climatico mondiale, allo sfruttamento di risorse
e forza lavoro del Terzo Mondo, alle disumane operazioni belliche nei paesi
poveri per l’accaparramento di carbon-fossile, il sentimento della vergogna è
forse la prima cosa che prova nei confronti degli americani, la prima questione
che rinfaccia loro. Ma “vergogna” di cosa? Se si va oltre le prime impressioni
naturali, come l’indignazione immediata che scaturisce dal cuore, per
analizzare i problemi col cervello, ci si accorge che il dibattito verte su
altre faccende. Perché, se si riflette con cognizione di causa, ci si rende
conto che non si tratta di sentimenti ma di ragioni: certi meccanismi
statunitensi (e del mondo contemporaneo) sono irrazionali, non vergognosi. Torna utile la geometria delle emozioni di Spinoza tramandataci dalla sua Etica: "Non deridere, né compiangere, né detestare le azioni umane, bensì comprenderle". A costo di prendermi dell’egoista antropocentrico, penso che maltrattare
i cavalli per usarli come un mero strumento utile soltanto per fare profitto,
non è ignobile, bensì irragionevole, poiché dimostra l’inettitudine dell’uomo
attuale nel saper costruire un rapporto sensato con gli altri esseri non
viventi, che non includa ulteriori sofferenze fisiche per le bestie, né
conseguenti sit-in di protesta, sorti in seguito alla sofferenza psichica che
subiscono gli animalisti. Continuare a produrre secondo i dogmi di un sistema
economico che disperde ogni anno tonnellate di anidride carbonica nell’aria non
è affatto infame, ma illogico, giacché tale modello di consumo condurrà
inevitabilmente all’estinzione in massa della specie umana, nonché dell’intero
pianeta terra. E, anche senza fare riferimento a scenari futuri alquanto
apocalittici, esso sta compromettendo lo stesso benessere psicofisico degli
uomini nell’immediato presente, come attesta, per esempio, l’aggravarsi delle
condizioni patologiche dell’essere umano, causate proprio dall’inquinamento, da
uno stile vita totalmente scollato dalla dimensione naturale, da una dieta
incurante della salubrità o del sapore degli alimenti, dalla riduzione della
sfera sociale o dal deterioramento della qualità dei rapporti tra le persone.
Parimenti, sfruttare sconsideratamente le risorse naturali e la forza lavoro
degli abitanti dei Paesi sottosviluppati, non è solo turpe, ma soprattutto assurdo,
dal momento che ciò significa incrementare la dose di violenza nel mondo per
rinfocolare un circolo vizioso di infelicità e dolore che si riversa
ineluttabilmente su noi stessi, privando in tal modo il genere umano della
possibilità reale, derivante dalla cultura umana, di costruire un mondo bello e
felice. Lo stesso discorso vale per la guerra e per tutte quelle creazioni
umane troppo umane che impediscono la realizzazione un reale ben-essere in
questa vita. New York non è vergognosa, al massimo irrazionale.
Star System
Solitamente ho
l’impressione che i lungometraggi statunitensi siano maggiormente autentici
delle pellicole nostrane. I film americani ci sembrano, in qualche modo, più
veraci rispetto a quelli europei, perché la differenza tra un comune cittadino
americano e una star di Hollywood è assai labile. Nella propria vita
quotidiana, ogni nuovaiorchese è un potenziale attore mentre, quando guardiamo
un film europeo, ci accorgiamo della fiction, che dietro alla cinepresa è
presente un set dove degli attori stanno recitando una parte, viste le movenze
e i dialoghi così innaturali. Tuttavia resta aperto un interrogativo: sono i
film hollywoodiani che descrivono la vita comune oppure quest’ultima che segue
la forma e i ritmi dei primi?
Foto di Federica Boffa |
"Fascismo dei consumi"
Ci si chiede
come mai gli Stati Uniti non abbiano conosciuto direttamente un dittatore, un regime
politico autoritario, un totalitarismo e che non ne abbiano, perciò, subito le conseguenze
sulla propria pelle. Al contrario, essi sono stati l’antidoto che,
congiuntamente ad alcuni fondamentali anticorpi locali, ha contribuito a
debellare la piaga del fascismo e del nazismo, rispettivamente in Italia e in
Germania. Subito dopo, il liberalismo americano ha avversato il contagio
infettivo del virus comunista, estirpando sul nascere il rischio epidemia
sovietico. Nel momento in cui in Europa si marciava su Roma e si stilava il Mein
Kampf, proprio quando in Oriente nascevano o degeneravano i partiti
comunisti, in America in faccia al proibizionismo ruggivano il jazz, Topolino e
le suffragette, almeno fino alla Grande Depressione del ’29. In compenso, là è
germogliata e si è instaurata una tirannia di altro tipo, ma anch’essa subdola,
dispotica e liberticida, ovvero quella che Pier Paolo Pasolini negli Scritti
Corsari chiama «fascismo dei consumi».
La storia a stelle e strisce
Leggendo le targhe sui cenni storici dei monumenti,
mi rendo conto che senza dubbio conosco più la Storia americana che non quella
italica. E la ragione probabilmente è che gli americani hanno fatto della
propria Storia un’epica universale, un romanzo storico appassionante, che emoziona colui che ne viene a conoscenza e,
perciò, si ricorda più facilmente rispetto alla nostrana cronaca antiquata. La
storiografia italiana è boriosa perché, paradossalmente, troppo storica,
realistica, fattuale; al contrario, il passato americano si presenta nella
veste di un grande racconto memorabile, una narrazione mitica continuamente
alimentata e tenuta viva nel quotidiano tramite colossal cinematografici autocelebrativi
e prose encomiastiche, non solamente documentata su vecchi libri impolverati
delle biblioteche. Forse il riferimento è azzardato, ma il confronto tra le due
storie mi fa venire in mente le concezioni di storia che Nietzsche esibisce
nella sua “Seconda Inattuale”, non a caso intitolata Sull’utilità e il danno
della storia per la vita. E poco male se la fedeltà storica, l’aderenza
ai fatti e il ricorso metodologico a fonti attendibili sono messe parzialmente
da parte, rimpiazzate da spettacolarità delle gesta raccontate, brillantezza
del linguaggio utilizzato e marketing subliminale nell’esposizione mondiale
delle proprie origini.
Foto di Federica Boffa |
"Enjoy New York!"
Vagando sui
marciapiedi delle avenue rimango sbalordito dal patriottismo che trasuda dalla
crosta della città, attraverso la stoffa della stars and stripes che
campeggia su ogni palazzo e, soprattutto, attraverso il comportamento dei
newyorkesi. Un patriottismo, in un certo senso, imbarazzante per chi viene da
fuori, che si sente enormemente riconoscente nei confronti di nonni generosi e
disponibili i quali, se ti incontrano dubbioso con una cartina in mano,
immediatamente si fermano per chiederti se hai bisogno di indicazioni,
augurandoti in aggiunta di trascorrere una splendida giornata: «Enjoy New York,
guy!». Specie le persone anziane esigono che tu, forestiero, non abbia assolutamente
alcun tipo di intoppo lungo il tuo viaggio al centro del mondo; che ti senta
nel posto più felice della terra, ove democrazia e giustizia non sono più un
ideali bensì realtà concrete; che quando tornerai a casa tu possa confermare al
resto del pianeta che il sogno americano continua, nonostante gli incubi e i
bruschi risvegli.
Wine tasting
Durante il
soggiorno nella Big Apple ho anche modo di prendere parte a un wine tasting:
un’importante degustazione vinicola su scala internazionale, programmata da
un noto importatore newyorkese. La fiera si svolge nella sala congressi
di un grande hotel nella East Side, allestita a puntino per l’occasione, con
numerosi stand riservati ai produttori provenienti da molti Paesi diversi. Agli
angoli della stanza sono stati apparecchiati dei tavoli colmi di piatti e
vassoi che trasbordano di grissini, focacce, cracker e formaggi di ogni tipo. A
ciascuno dei partecipanti (per la maggior parte proprietari di ristoranti, ma
non mancano i “collezionisti” e i semplici appassionati) viene fornito un
protocollo riportante tutti i dati dei prodotti esposti, sui cui i primi
diligentemente appuntano le proprie impressioni circa le caratteristiche dei
vari vini. Ma ciò che mi stupisce maggiormente è senz’altro assistere alla gara
di sputi collettiva, ingaggiata dopo ogni assaggio enologico. Tutti, in seguito
a ondulazioni decantanti, occhiatacce rivolte ai calici, sniffate e smorfie
deformanti, sputano (proprietari di locali, “collezionisti” o meri amatori), al
punto che non si capisce se il vino con cui hanno appena effettuato dei
risciacqui orali gli piaccia davvero oppure no! Sembra di essere dal dentista,
con la differenza che il liquido scatarrato è succo d’uva alquanto costoso,
ottenuto col sudore e la sapienza di periti viticoltori, e non colluttorio verdognolo
che sa di medicina. Premesso che non sono affatto un esperto del settore e che,
di conseguenza, non mi soffermo sulla necessità sensoriale-valutativa, oltreché
fisiologica di tale prassi (credo che sia assai complicato rimanere sobri dopo
aver assaggiato una ventina di vini diversi), mi limito a esporre una considerazione generica su un evento come il wine tasting a cui ho
assistito. Trovo che in situazioni come quella sopra descritta
il vero protagonista in questione, cioè il vino, finisca, in realtà, per
restare completamente fuori dalla scena. Ciò che conta è, piuttosto,
l’atmosfera che si viene a creare intorno ad esso, l’aurea di rimandi e significati
che ne aleggia sopra come, peraltro, accade con qualsiasi merce al tempo del
consumismo. Pare, infatti, che, come intuisce Jean Baudrillard, il valore d’uso
dei beni (stabilito in base alla funzione che un certa cosa possiede) e quello
di scambio (fissato dalle leggi di equivalenza del mercato), siano stati oramai
superati dal valore-segno, l’unico ancora in grado di dare un senso
all’articolo. Il valore-segno non ha più nulla a che vedere con lo scopo di un
prodotto, né tantomeno con la sua capacità venale: esso dipende soltanto dalle
“virtù” che le mode passeggere ed effimere gli imprimono. In altre parole, il
succo d’uva, non solo frutto della terra e del lavoro umano, ma anche simbolo
di storia e cultura di un luogo, finisce per essere svuotato di ogni sua
intrinseca qualità, per divenire quasi un’opera d’arte contemporanea, esposta
in una simil-galleria, dopo la cui fruizione parziale, lo spettatore se ne
libera con un getto netto all’interno di una sputacchiera. Da nettare degli dei
a status symbol di importatori semidivini. Difficile stabilire una volta
per tutte a cosa serva una bevanda alcolica ottenuta dal mosto d’uva lascito a
fermentare: per dissetarsi, per abbinare ai cibi, per darsi un tono e una
tonalità, per fare buon sangue, per combattere il colesterolo alto, per
ubriacarsi, per fare cassa, per valorizzare un territorio, ecc. Come quasi ogni
cosa autentica non si lascia imbrigliare in una definizione univoca, ma resta
pur sempre indiscusso il fatto che il vino generalmente e primariamente si
beve.
Skyline
Foto di Federica Boffa |
Ground Zero
Più procede il tragitto e più mi convinco che questo resterà probabilmente il viaggio di istruzione più interessante della mia vita, poiché non ho mai imparato tanto sul mondo. Anche se non entro in rinomati musei, non visito storiche cattedrali e nemmeno palazzi ricchi di cultura, mi imbatto in situazioni stimolanti, per certi versi, inaspettate, per altri, studiate attraverso le pagine di importanti studiosi e, ora, vissute in presa diretta sulla mia pelle. Una di queste, inaspettata, è assistere alla pausa pranzo degli operai edili a Ground Zero, dove fino all’11 settembre 2001 presidiavano le celebri Twin Towers. Adesso è in fase di realizzazione un imponente progetto di ricostruzione dell’area, sfigurata in seguito a uno degli attentati terroristici con l’impatto ‒ reale e mediatico ‒ più feroce della storia umana, le cui cicatrici resteranno aperte per lunghissimo tempo. Per tale ragione, un esercito di muratori, operai e tecnici di ogni genere sono stati arruolati per risistemare la zona, in cui, peraltro, è sorto un museo in onore delle vittime dell’accaduto e un memorial per non dimenticare il fatto. E provo irritazione quando, immobile a contemplare la reazione megalitica che stanno attualizzando gli U.S.A. nell’edificare il grattacielo più alto dell’emisfero occidentale del pianeta, proprio dove sono stati feriti al cuore, uno sciame di venditori ambulanti mi si avvicina tenendo in mano dei faldoni pieni di immagini riferite alla dolorosa vicenda, che dovrebbero rappresentare delle fedeli testimonianze della tragedia, per vendermeli. Come se fossero dei souvenir, alla pari delle tazze “I (love) NY” o dei cappellini degli Yankees. E non posso non domandarmi in che modo un modello economico, che è anche un sistema di produzione che influenza i consumi e lo stile di vita delle persone, riesca a intrufolarsi in maniera così subdola in ogni interstizio dell’esistenza, fino a speculare sulle vittime di un strage, sfruttando il loro “sacrificio” per intascare degli spiccioli. Perché qui non si tratta di tenere vivo il ricordo di uomini e donne scomparse in disastro politico, bensì di dare un prezzo a qualsiasi cosa che possa essere oggetto, in qualche modo, di compravendita, anche le vite dei defunti. E, infine, non riesco a capacitarmi di come quei venditori ambulanti di esistenze spezzate non si rendano conto del genere di merce che stanno esponendo, così immersi nel magma liquefatto del consumismo. Fanno da contraltare a queste scene raccapriccianti le pettorine catarifrangenti che indossano gli operai a riposo, le loro virili risate, le lattine di birra che stringono in mano, i caschi antinfortunistici personalizzati ad hoc con tanto di adesivi colorati e stampini vari. In mezzo a questo genuino spaccato di working class heroes resto impressionato nel vedere la quantità di giovani che svolgono questo tipo di lavoro rispetto all’Italia.
Foto di Federica Boffa |
Parentesi sulla fotografia
Foto di Federica Boffa |
Forse è vero che un’immagine vale più di cento parole. Per questo motivo, credo che la fotografia sia uno strumento assai valido per catturare le impressioni che un viaggio oggettivo ci concede. In molti casi, infatti, ciò che ci cerca di descrivere, con risultati più o meno soddisfacenti, mediante subordinate intricate è colto immediatamente dall’obiettivo di una macchina fotografica. Tuttavia, in questo come negli altri viaggi, quello che cerco di ottenere con la fotocamera non sono cartoline, ovvero diapositive suggestive, simili a tele affrescate, che raffigurino paesaggi da sogno, panorami spettacolari o vedute affascinanti. Anche perché non sono un fotografo di professione e, in aggiunta, non posseggo i mezzi adeguati per ottenere tali risultati. Piuttosto, il mio obiettivo è imprigionare atmosfere o stati d’animo autentici che un determinato luogo mi comunicano; oppure fermare un aspetto particolare della scena che mi si presenta davanti agli occhi. Anzi, ciò che mi interessa raggiungere attraverso lo scatto fotografico è, in un certo senso, esattamente il contrario di quanto ottenuto dalle cartoline: individuare gli elementi nascosti, i dettagli inconsueti che spesso passano inosservati che, però, sono molto più paradigmatici che non i luoghi comuni ‒ banali, standardizzati, stereotipati, finti ‒ immortalati da macchine professionali ad altissima risoluzione. Non cerco cartoline, ma immagini che colpiscono.
True Religion
Mi trovo a metà strada tra l’imponente Trinity
Church ‒ centro benessere per le anime ‒ e il New York Stock Exchange a Wall Street, ovvero il tempio pagano in cui si decidono
le vittime sacrificali di tutto il mondo. Volgendo lo sguardo ai due immobili,
viene da domandarsi quale dei due edifici rappresenti realmente il luogo di
culto degli odierni fedeli del credo occidentale: tra Cristianesimo e
Consumismo, quale é la vera religione del nostro tempo? A spazzare via ogni
dubbio è la vetrina di una rinomata catena di negozi che espone costosi blue
jeans alla moda, in cui si riflette la mia immagine, chiamata “True Religion”.
Digressione soggettiva sul successo
Ovvio che il
successo mi interessa! E spero che questo testo abbia successo. Quando un
personaggio pubblico dichiara che il successo è l’ultimo dei suoi obiettivi,
mente spudoratamente. Ma, soprattutto, egli confessa di non credere veramente
nel lavoro che fa, palesando la sua incoerenza. Perché, se una persona tiene davvero
alle proprie iniziative e, inoltre, pensa che le sue opere valgano qualcosa,
allora dovrebbe cercare con tutti i mezzi a disposizione di divulgare le
proprie idee al numero maggiore di pubblico. Se uno è convinto di essere nel
giusto e vuole che anche gli altri si avvicinino un poco alla personale
versione della verità, non può che desiderare il successo. In caso contrario, o
sa di trovarsi nel torto o dimostra di non curarsi della verità. Certo, resta
la questione del deragliamento del successo, ossia di quando non sei tu a
inseguire lui, ma il contrario. In questo caso, il successo non è più un mezzo,
bensì un fine che, in aggiunta, apre la via ad altri benefici i quali, però, nulla
hanno a che vedere con la diffusione delle proprie convinzioni veritative. Resta,
in aggiunta, il problema di non lasciarsi assecondare dai gusti del grande
pubblico, ovvero di non accodarsi pedantemente alle richieste della massa, alle
pretese della maggioranza ma, viceversa, insistere sulle proprie convinzioni
affinché sia possibile, per così dire, convertire il mainstream. In un certo senso, la
popolarità è, per un personaggio pubblico, uno strumento lubrificato che serve
per diramare efficacemente un determinato messaggio. Il problema sorge nel
momento in cui lo scopo della fama è la fama stessa. Tuttavia, oltre al
successo, quali altri metodi conoscete per fare presa sulla gente? Anzi, in
qualche modo reputo la vita e l’uomo di successo, rispettivamente, un
sacrificio per il bene della collettività e un martire per la causa della
verità. Poiché il segreto della felicità personale non sta nella popolarità,
bensì nell’accogliente intimità di un’esistenza appartata, lontana dai
riflettori, dietro alle quinte, distante dalle critiche e dai panegirici
ipocriti. Non a caso Epicuro, come cura per la felicità personale, prescriveva ai suoi discepoli il seguente consiglio medico: "Vivi nascosto!". Per certi versi, è più facile nascondersi dal trambusto della scena
pubblica, nella stanza privata dei cari affetti, come su di un isola beata o
sulla vetta cheta e lieta di un monte solitario. Altra cosa è gettarsi nella
mischia dei megafoni, nella bolgia degli annunci, nella baraonda dei giudizi,
per affrontare in prima persona gli avversari del bene, lottare con impegno contro
al silenzio del male e, infine, vincere l’aurea cintura della verità. Ma il
successo non è certo un ingrediente indicato dalla ricetta della felicità
personale. A questo proposito, si veda anche Naufragio con spettatore: paradigma di una metafora dell'esistenza, trad. it. di Francesca Rigotti, Bologna: il Mulino, 2001
Fast Food
Entro nel megastore di un noto marchio di confetti di cioccolato, dove la vendita dei dolciumi è l’ultima preoccupazione dei commessi. Infatti, si smerciano gadget di ogni tipo, riferiti alla coppia di bonbon che sponsorizza la casa produttrice, umanizzati per la causa con tanto di occhi, ciglia, bocca, voce, braccia, mani, guanti, gambe e persino scarpe da ginnastica. All’interno della bottega, tutto ‒ ma dico tutto ‒ è marchiato con le due iniziali dell’etichetta. Che distribuisce cioccolatini colorati. Salgo al piano superiore e capisco di trovarmi nel paese di cuccagna, quando i miei occhi sono incantati da una parete senza fine, composta da tubi trasparenti stracolmi di confetti, disposti secondo una minuziosa scala cromatica a sfumare. Ogni volta che un cliente spilla la quantità di prodotto che più gli aggrada, dall’alto del tubo magicamente ne scende altro, cosicché regni l’abbondanza e l’opulenza; basta azionare lo spillatore con una leggera pressione del pollice e una cascata di dolcetti pitturati trabocca nel proprio shopper.
I tombini che fumano forse stanno
per scoppiare.
Fotografia di Federica Boffa |
A Times Square
A Times Square assisto ad uno spettacolo siderale che, in un certo senso, non mi è nuovo. L’ombra artificiale che i grattacieli intorno gettano sulla “piazza” è pressoché identica a quella proiettata dalle montagne nelle valli alpine. Pertanto, ho provato la medesima sensazione di freddo e buio innaturali o, in ogni caso, prematuri, che si sperimenta già nel primo pomeriggio delle giornate bianche dedicate allo sci, quando il sole sparisce dietro alle cime innevate, lasciando avanzare un’oscurità gelida e bluastra che inghiottisce anzitempo le piste e i rifugi dell’impianto. E non riesco a capire il motivo per cui una comunità decida di circondarsi volontariamente di creste artificiali che la privano, così precocemente nel corso della giornata, di luce e calore solari. A questo proposito, mi viene in mente una scena del film d’animazione Il Re Leone, in cui Mufasa, alle prime luci dell’alba, esorta il cucciolo Simba a evitare le zone limitrofe coperte dalla penombra, perché rappresentano il regno del male: «Guarda, Simba. Tutto ciò che è illuminato dal sole è il nostro regno[1]». Il monito del padre stimola la curiosità del piccolo felino: «E i posti all’ombra, allora? [...] Credevo che un re potesse fare ciò che vuole!». Mufasa, perentorio, risponde che «quelli sono oltre i nostri confini. Non ci devi mai andare!». Il siparietto, in realtà, è una splendida metafora sulla circolarità della vita come equilibrato alternarsi degli opposti in natura. Che non è poi così distante dalla logica dei contrari eraclitea: «Polemos è padre di tutte le cose, di tutte re; e gli uni disvela come dèi e gli altri come uomini, gli uni fa schiavi gli altri liberi». E’ paradossale che gli uomini occidentali esigano sempre il “bel” tempo, come condizione climatica ideale per svolgere le proprie attività quotidiane e, nello stesso tempo, si privino in modo così insensato del sole. Mi si presenta, perciò, un altro riferimento pop, tratto di nuovo da un cartone animato, ovvero i Simpson. Nell’episodio Chi ha sparato al signor Burns?, l’odioso Monty Burns, proprietario di una centrale nucleare, per cercare di rendere sempre più alta la richiesta di energia elettrica della città di Springfield, progetta una sorta di gigantesco scudo metallico, che ricopre l’intero centro abitato, per oscurare il sole. A ben vedere, se si cambiano Springfield con New York, lo scudo coi grattacieli e il sig. Burns con i capitalisti statunitensi, il risultato non è poi così dissimile. In tal senso, l’edificazione dei grattacieli o la realizzazione di uno clipeo anti-sole, in una tragedia greca sarebbero stati senz’appello condannati come inequivocabili peccati di hybris umana; trasgressioni perverse di superba tracotanza nei confronti dell’ordine naturale e, quindi, puniti dagli dei in persona. Oggi, in questo pomeriggio notturno, scattiamo a loro delle fotografie. Ad ogni modo, mi pare che la punizione inflittaci sia altrettanto severa. Perché il paradosso si manifesta anche dalle prenotazioni al solarium, dalle lampade e dalle docce abbronzanti; dall’esodo verso le località assolate che, sotto alla disperata esposizione di melanina per prendere un po’ di colore, probabilmente nasconde anche la ricerca di un po’ di calore. Umano. Ne deriva che a Times Square, a causa della luce elettrica emanata generosamente dai pixel ultravioletti degli imponenti monitor, alla stregua di un solarium gratis a cielo aperto, fa decisamente più caldo ‒ ed è tutto molto più naturale ‒ di notte che nelle ore diurne.
Allo stesso modo, sembrano
decisamente naturali anche i pupazzi dei cartoni animati che vagano per i
marciapiedi di Broadway ad abbracciare turisti grandi e piccini, alla ricerca
di fotografie e caloroso feedback da parte del pubblico, in cambio di pacche
amichevoli, pose divertenti ed eterni sorrisi di peluche. Questi fantocci
colorati non hanno affatto bisogno di parlare giacché, al posto della loro
voce, alla gente comunica l’aurea che si crea intorno ad essi, l’insieme di
rimandi e riferimenti che è più comprensibile di qualsiasi delle frasi
registrate sulle schede di memoria dei loro modellini in scala. Quello che si
consuma sulla grande avenue è un esempio eclatante di narcisismo auto-pubblicitario,
un fenomeno sociale che, tra l’altro, impazza in questi anni zero governati dai
paparazzi, dove tutto ciò che conta è diventare famosi, celebri, popolari e
acquisire fama e visibilità mediatica. Non importa come e perché, ossia con
quali mezzi e per quale motivo particolare. In questo vortice propagandistico a
gossipparo sono stati risucchiati, senza eccezione alcuna, anche i personaggi
dei cartoon, rendendo perciò assai labile il confine tra attore in carne e ossa
e protagonista dei fumetti. L’unica differenza sta forse nel fatto che mentre
le star del cinema solitamente cercano di evitare i fotoreporter e insabbiare
scomodi scoop che potrebbero compromettere la loro reputazione nonché la
propria attività professionale (in realtà, come sapete, parecchie anteprime
sensazionali che finiscono sulle prime pagine dei rotocalchi scandalistici sono
vere e proprie messinscene, studiate ad hoc per accrescere, ad esempio, la
notorietà di una celebrità), i divi dei film d’animazione si offrono
spontaneamente ai flash accecanti dei fan più affezionati, affinché la loro
immagine di vip aumenti di valore. Non le case e i centri abitati, non gli
spazi e le porzioni di cibo, bensì le mascotte dei disegni animati sono a misura
d’uomo, al punto che è facile dimenticarsi che all’interno del costume è rinchiuso
pur sempre un essere umano. Nella jungla floreale di lampadine, faretti,
lampioni e riflettori, anche Topolino e i suoi simili antropomorfi fanno parte
della fauna urbana di New York. Cosicché, nel momento in cui si sente un suono
imprevisto proveniente dall’interno del pupazzo ‒ magari una lamentela per il
caldo insopportabile, lasciata scappare involontariamente dall’anima del
bambolotto; oppure una bestemmia automatica, azionata da un bimbo che ha
schiacciato altrettanto involontariamente l’alluce del suddetto macchinista ‒
ecco che la magia si frantuma in mille pezzi, tra lo stupore dei grandi e la
delusione dei piccini. Ma lo spettacolo più raccapricciante avviene quando le
comparse si levano il proprio travestimento, abbattendo del tutto la quarta
parete e mostrando agli spettatori nient’altro che la nudità del volto umano.
E’ percepito come un’esibizione erotica vera e propria, uno striptease osceno e
scostumato, uno spogliarello a luci rosse, da cui i genitori sono costretti ad
allontanare i figlioletti. Le maschere in pausa, a viso scoperto: ciò che resta
dopo lo show, indiscutibilmente più indecente. E mi chiedo in che modo una
società all’apice del processo democratico riesca, con successo, nel tentativo
di convincere i propri membri a truccarsi da Uomo-Pipistrello per esibirsi su
una strada pubblica, sopportando stoicamente ‒ come dei supereroi ‒ gli
scherni dei passanti, i lampi abbaglianti degli obbiettivi e le urla dei fan
d’immagini, consumatori di atmosfere.

Fotografie di Federica Boffa |
[1] Walt Disney
Studios IT, Il Re Leone 3D - “La lezione del mattino con Mufasa”,
online, http://www.youtube.com/watch?v=N7ywhuk0WWU
Gli extra-terrestri
Gli alberi
incatenati con delle lucine colorate, che da noi è diventata, tutt’al più, una stramba
moda natalizia, a NYC è un ergastolo per alcune cortecce che dovrebbero
attirare i clienti dinnanzi ai negozi. Sui rami delle piante più alte, invece,
non è raro vedere fiocchi di nylon o stagnola, incastrati lì per caso dopo che
il vento li ha sollevati da terra per farli svolazzare nell’aria. Tuttavia,
hanno tutta l’aria di essere dei segnali venuti dallo spazio, come drappi
annodati da extraterrestri per comunicare un particolare messaggio agli umani.
In tal caso, forse indicano dei varchi di salvezza, i tronchi dei vegetali,
attraverso cui potersi salvare dall’imminente fine del mondo. Ma questi nastri
sembrano anche il simbolo dello sfilacciamento della società umana, i brandelli
degli imballaggi di un modo di produzione alieno ai bisogni dell’essere umano,
divenuto, pertanto, extra-terrestre.
Il ciclo dell'acqua
Come i cinesi nel Vecchio Continente, anche gli
americani ci hanno copiato. Ma con una sostanziale differenza. Essi non si sono
limitati a imitare, potenziandole, le nostre tecnologie; hanno direttamente
plagiato le nostre idee, realizzandole, però, in qualcosa di assolutamente
concreto. In altri termini, sono riusciti a trasformare in realtà i nostri
pensieri, concetti, visioni; hanno reificato le nostre utopie, ricavando, in
pochi anni, materia empirica dalle nostre millenarie forme archetipe. Il
processo, descritto in maniera molto acuta da Jean Baudrillard nel suo America[1], è simile, in un
certo senso, a un ciclo dell’acqua su scala mondiale. In Europa il reale si è
vaporizzato in ideali per divenire metafisica, una nuvola che il vento della
storia ha in seguito traghettato oltreoceano. Infatti, fin dai tempi di Platone
(come ci insegna, per’altro, Nietzsche nell’opera Il crepuscolo degli idoli)
il mondo fisico, considerato, per una ragione poi rinvigoritasi col
cristianesimo, imperfetto in quanto materiale, particolare, corporeo e, dunque,
falso, è stato proiettato nei paradigmi astratti di perfezione, universalità,
verità. Una radicale allergia alla tangibile vanità della carne ha reso
possibile, in Europa, il radicarsi delle seguenti nozioni: utopia, critica,
dialettica, ideologia, politica, morale, storia, universale, Stato,
rivoluzione, illuminismo, romanticismo, fascismo. Con lo spostamento d’aria del
1492, le idee europee di giustizia sociale, libertà e democrazia hanno iniziato
a cascare giù a catinelle, irrigando le sterminate praterie nordamericane dove,
sino a quel momento, risiedevano i nativi pellerossa. Su questo suolo si è,
perciò, concretizzato il corrispettivo materiale della metafisica europea:
capitalismo, tecnocrazia, utilitarismo, neoliberismo, ironia, pragmatismo,
emancipazione, individuo, particolare ‒ l’utopia hic et nunc.
Successivamente, le attualizzazioni statunitensi, caricate sul cargo Consumismo
e trasportate dalla corrente Globalizzazione, hanno compiuto il viaggio inverso
rispetto alle rispettive potenzialità, ritornando sulla palude europea, questa
volta sotto forma di copie mercificate, modellini seriali, simulacri e feticci ‒
detriti che, con la veste di articoli di compravendita, hanno inondato le coste
del Vecchio Continente e che, una volta considerati rifiuti, invadono
nuovamente gli oceani, dando vita ad atolli di spazzatura.
Lo Zio Sam ha colpito ancora!
Fotografia di Federica Boffa |
Più che altrove, in questo posto è percepibile l’apatia o, piuttosto, l’indifferenza dell’uomo contemporaneo nei confronti delle condizioni climatiche esterne, giacché è possibile vedere un barbone imbacuccato che lotta contro il freddo, seduto a terra accanto a una donna in canottiera e infradito che gusta la sua preziosissima sigaretta. Un altro esempio mi è generosamente offerto dagli automobilisti che marciano coi finestrini abbassati e l’impianto di riscaldamento acceso. In seguito, rimango positivamente stupito del tassista che ascolta la musica lirica dall’autoradio, mentre trasporta i suoi clienti per le strade colme di clacson e bassi a tutto volume provenienti da stazioni radiofoniche hip-hop. Il fascino che New York esercita su di un europeo è travolgente. Che dire? Lo Zio Sam ha colpito ancora!
I mal-viventi
Atterrato
all’aeroscalo JFK, mi si manifesta una triste verità: la segregazione razziale
é ancora vigente, poiché basta guardare il colore della pelle dei lavoratori
nell’aerostazione o degli addetti alla sicurezza nazionale in generale.
Ovviamente, essa é esercitata in maniera assolutamente legale e democratica,
come tutte le nuove forme di schiavitù volontaria al tempo del capitalismo. Solitamente a essere visitati sono le
grandi città, i musei, i luoghi di culto, vale a dire determinati luoghi fisici
per ragioni turistiche, culturali o religiose. Ma si visitano anche gli amici,
i conoscenti, i parenti, i malati, i carcerati. E non dimentichiamo che anche i
medici specialisti visitano i loro pazienti e le persone degenti. Appena metto
piede sul suolo newyorkese, provo a convincermi che quella estesa davanti ai
miei occhi è una delle metropoli più grandi al mondo. Subito dopo penso che,
nei giorni a venire, probabilmente entrerò in qualità di visitatore in qualche
importante museo e, allo stesso modo, varcherò la soglia di edifici religiosi
solenni. Tuttavia, il ragazzo di colore che, fuori dall’aeroporto, mi si
avvicina per propormi cortesemente una corsa in bus fino al centro cittadino,
più che altro mi comunica un senso di fiduciosa amicizia. Anche in questo caso,
come mi capita frequentemente quando viaggio all’estero, ho la strana
impressione, come un déjà-vu
prolungato, di aver già incontrato, da qualche altra parte, questo adolescente
nero. In questa occasione, la spiegazione risiede forse nel fatto che il tale
rientra ad hoc nella sagoma stereotipata del rapper afroamericano, vista e
rivista attraverso miriadi di fiction televisive. Pertanto, afferro che, in
fondo, degli U.S.A. e, in particolare, della loro verità storica, conosco già
abbastanza, forse anche di più dei fenomeni sociali prettamente italici o, più
in generale, europei. La ragione è che il mondo intero parla americano e che
gli americani parlano a tutto il mondo ‒ american way. Ciononostante, durante
il tragitto in bus, guardando gli scenari suburbani che mi concedono i
finestrini del mezzo pubblico, l’idea che più di tutte mi persuade è precisamente
quella di visitare un malato. New York è uno squilibrato che cerca di
nascondere, prima di tutto a se stesso, i sintomi della sua peculiare
patologia. E’ un mal-vivente che si reputa benestante, ignorando
imprudentemente i consigli dei medici che si mettono a disposizione per
guarirlo. Di conseguenza, voglio sentirmi anche io un po’ nei panni di un
tirocinante di medicina che, con tanto di camice bianco e stetoscopio, vaga tra
le corsie dei vari reparti nel grande ospedale per consumo-dipendenti, shopping
addicted. Ancora, in quanto mal-vivente, New York si è costruita da sola
una enorme prigione a cielo aperto, che assume, però, i tratti di una gabbia
d’oro, un’utopia/distopia perfettamente realizzata[1]. Sui
depliant turistici non mancano affatto gli elogi encomiastici rivolti alle
amministrazioni comunali presenti e passate, capaci di aver notevolmente
abbassato, mediante drastiche misure di sicurezza a tolleranza-zero, il tasso
di criminalità, specialmente in termini di omicidi e reati violenti. Nello
stesso tempo, tuttavia, è aumentata una criminalità di altro tipo, vale a dire
la mala-vita esistenziale. Inettitudine biologica; inidoneità a delineare un
programma di progresso ecosostenibile, una crescita a basso impatto ambientale,
che tenga conto dei limiti imposti dalle risorse naturali in esaurimento. Incapacità
di abitare adeguatamente il proprio spicchio di pianeta Terra; dappocaggine
nello stare al mondo in maniera razionale; inabilità a sopravvivere in
equilibrio con la natura. Questa forma particolare di delinquenza, che si sta
diffondendo a ritmi allarmanti nei Paesi altamente sviluppati ‒ la società del
“benessere" ‒, è testimoniata dall’incompetenza nello svolgere i lavori
domestici, le faccende di casa pianificate da tempo dall’eco-logia. In questo
senso, l’eco-nomia deve promuovere dei cittadini casalinghi, che si prendano
cura della propria dimora, in ogni sua accezione. Ricordo che, da bambino, mi
svagavo a intercettare la mia umile posizione nello cosmo, costruendo
mentalmente una serie di cerchi concentrici che fungessero da insiemi entro cui
circoscrivere, di volta in volta, le mie coordinate geografiche. In un certo
senso, applicavo nella pratica la necessità teorica globale della
localizzazione: io, singolo individuo, devo avere cura del mio corpo, in quanto
casa della mia persona; devo avere cura della mia cameretta; dell’abitazione
dove alloggio; della via in cui risiedo; del mio quartiere; della mia città;
della mia provincia; della mia regione; del territorio nazionale; del
continente; del pianeta Terra (spinto da una fanciullesca attrazione
astronomica di proporzioni cosmiche, includevo anche la
Via Lattea , giacché nostra Galassia, e
l’universo intero. Ma, se si pensa ai rifiuti spaziali che occupano la
stratosfera, l’estensione del mio elenco non sembra troppo esagerata!). Il
corpo del delitto di questi crimini sono i sacchi neri della spazzatura: i
cadaveri abbandonati fuori dai locali, vittime dello zio Sam e del suo
killeraggio silenzioso.
L'hinterland del PIL
Durante il volo
transcontinentale, mi torna in mente la frase con cui inizia Tristi Tropici
di Lévi-Staruss: «Odio i viaggi e tutti i viaggiatori». Odio i viaggi e tutti i
viaggiatori, detto da un habitué delle esplorazioni. Sono sicuramente parole
forti, che fanno riflettere circa la concezione moderna del “viaggio”, ossia la
vacanza borghese del turista che visita i monumenti e i posti caratteristici di
una determinata località. Ma le cartoline smerciate nei punti vendita di
souvenir non raffigurano le contraddizioni delle città; i ciceroni non ci
dicono nulla sulle reali condizioni di vita di tutti gli abitanti del luogo; le
guide stampate riportano precise informazioni storiche, senza fare riferimento
alla cronaca sulle cui vicissitudini ha preso forma la comunità. Parimenti, nei
ristoranti tipici quasi mai si mangiano le pietanze davvero cucinate presso la
gente locale; all’interno dei musei non c’è posto per l’arte autentica, per la
cultura invisibile; i punti panoramici segnalati sulle cartine, così come le
riserve naturali che ospitano le bellezze faunistiche e floreali indigene, sono
stati accuratamente ripuliti dalle scorie residuali che, altrimenti, li
incrosterebbero. All’occhio del turista, d’altronde, tutto deve apparire bello,
pulito, caratteristico, degno di una fotografia: una scenografia tanto verosimile,
asettica, spettacolare quanto artificiosa, surreale, parziale.
Così mi domando, ad esempio, che
impatto avranno sul cambiamento climatico mondiale le emissioni generate dal
motore dell’aeroplano su cui sto volando. Mi chiedo quale sarà la quantità di
rifiuti inorganici che i passeggeri di un volo come questo producono e,
inoltre, dove finirà tutta la spazzatura prodotta. Mentre le hostess passano
tra il ristretto corridoio tra le file a raccattare l’immondizia, noto che la
raccolta differenziata non è praticata e, forse, nemmeno possibile in tale contesto.
Faccio una media dei voli nazionali giornalieri, sommandoli a quelli
internazionali; moltiplico per il numero dei passeggeri di ciascun volo e ho un
vuoto d’aria. E non per colpa del pilota. In aggiunta, osservo con pungente
amarezza che le pattumiere sono colme di cibo avanzato, constatandone l’ingente
spreco. Provo poi a contare quante posate usa e getta sono state buttate via,
quanti bicchierini in plastica; quanti involucri, confezioni, vaschette,
mini-imballaggi che, se non riciclati, intaseranno le discariche suburbane o
formeranno nuove sudice isolette, magari proprio in mezzo all’oceano che ora
sto sorvolando.
Le periferie sono uguali in tutto il
mondo. Anzi, si può dire che vi é un’unica periferia mondiale, l’hinterland del
PIL, al confine della società dei consumi[1],
fatta degli scarti di quest’ultima. Allora i viaggi potrebbero servirmi proprio
per scovare in presa diretta quegli elementi negativi dei luoghi visitati. Il
viaggio critico...un’incoerenza?
![]() |
Curioso segnale di divieto nella sala fumatori dell'aeroporto |
[1] In
realtà, come ragiona Zygmunt Bauman in Consumo, dunque sono, sarebbe più
corretto parlare di società dei consumatori o dei consumismi, giacché ogni
società umana e, più in generale, ogni comunità vivente, genera inevitabilmente
dei consumi. Così Bauman: «In effetti il consumo, se ridotto alla sua forma
essenziale del ciclo metabolico di ingestione, digestione ed escrezione, è una
condizione e un aspetto permanente e ineliminabile della vita svincolato dal
tempo e dalla storia, un elemento inseparabile dalla sopravvivenza biologica
che gli esseri umani condividono con tutti gli altri organismi viventi»
(Bauman, 2007, trad. it. di M. Cupellaro).
Uno gli amici non può mica sceglierseli
Gli amici sono
quelli che ci sono, non quelli che si scelgono. Prima di partire passo a
salutare alcuni amici, nella consueta vineria dove solitamente ci troviamo
nelle nostre serate provinciali. Come d’abitudine, si chiacchiera del più e del
meno, in quella tana i cui odori ci appaiono a volte nauseabondi, tanto li
abbiamo respirati. I cui medesimi clienti ci sembrano talmente assidui da
risultare invadenti, quasi facenti parte dell’arredamento interno, alla stregua
di un prolungamento delle sedie o del bancone. E spesso ci lamentiamo della
monotonia del locale, stufi delle stesse atmosfere che, oltretutto, nulla hanno
a che vedere con le immagini vintage di un bar margherita o di un bar mario
post-sessantottino. A tanti, dopo l’ennesima convocazione «21:30 in vineria», mossi
dall’aspirazione di una radicale svolta esistenziale, sarà venuto il desiderio,
a metà strada tra la rivincita sulla routine e la voglia di dimostrare agli
altri che se ne può tranquillamente fare a meno, di rispondere «Non ci sono.
Per un bel po’...». Salvo poi reciprocamente rivederci, puntuali, sbucare
all’angolo del viottolo e dirigersi, con lo guardo puntato sulla strada, verso
l’uscio del nostro rifugio antiatomico.
Informo loro sui dati del volo e
sulle ultime novità circa il mio viaggio, tra calcoli del fuso orario e
conversioni euro/dollaro. Dopodiché, è giunta l’ora di congedarmi e, molto
stranamente, durante il commiato, i miei amici già mi mancano. Abbastanza
inspiegabilmente ‒ dopotutto, sto per andare al centro del mondo! ‒, provo una
certa invidia per la serata (certamente mediocre) che trascorreranno senza di
me, cosicché una lieve riottosità a partire, causata dalla nostalgia di casa
(seppur ancora in casa...), mi infastidisce.
Sull’aereo realizzo che uno gli
amici non se li può mica scegliere. Perché sono come il proprio nome e il
proprio cognome, come il luogo d’origine e il giorno di nascita, come il codice
fiscale e il colore della pelle. Anzi, gli amici sono una sorta di seconda
pelle, che cresce insieme a noi con le cicatrici, i lividi e le carezze che la
vita ci riserva. Quelli che chiamiamo “migliori amici”, in realtà, non hanno
nulla di particolarmente migliore rispetto agli altri conoscenti.
Semplicemente, sono stati più presenti (fisicamente o in senso lato) durante la
nostra vita ‒ una pelle più aderente. Da ciò ne deriva che gli amici non sono
giusti né sbagliati, né buoni né cattivi; come le nuvole del cielo, sono.
Nonostante questo, sappiamo benissimo che le nuvole vanno e vengono, cambiano
forma e ‒ qualcuna anche prima del previsto ‒ spariscono. Allo stesso modo, la
pelle col passare del tempo si squama, si trasforma e, una volta morta, cade. Ovviamente,
noi possiamo intervenire attivamente in questo naturale processo biologico,
decidendo di avere cura della nostra epidermide rigenerando i tessuti, oppure
accelerando il loro decadimento per disfarcene volontariamente. Ma, prima della
presa di consapevolezza, prima dei giudizi morali, con gli amici dobbiamo necessariamente
conviverci, che ci piaccia o meno.
Prefazione (2)
Oltre ai viaggi
soggettivi e a quelli oggettivi ci sono, inoltre, le vacanze, vale a dire quelle
del turista in villeggiatura, dove quasi sempre il viaggio è totalmente assente,
oggettivo o soggettivo che sia. Nel dettaglio, le vacanze sono le ferie
obbligate, i meritati giorni di riposo (?) che si devono fare per forza,
caratterizzati da un faticosissimo lavorio di pianificazione alle spalle, al
fine di scongiurare qualsiasi intoppo che possa ostacolare la nostra tranquilla
gita fuori porta, votata al relax per curare lo stress accumulato durante
l’anno. Sebbene spesso capita che le tanto sognate ferie si trasformino in gite all'inferno a causa di spiacevoli soprese. In particolare, non capisco la ragione per cui, in questi casi, ci si
affidi a una rinomata agenzia di viaggio, la quale si preoccupi di organizzare
a puntino ogni dettaglio al posto nostro, cosicché, una volta giunti a
destinazione, l’impressione sia quella di trovarsi esattamente a casa propria.
A questo punto, tanto vale restarci, a casa, non vi sembra? I non-viaggi, a
questo punto, sono le vacanze fatte di villaggi turistici, di crociere
criminali, di visite guidate, di cartoline ipocrite, di souvenir che nulla
hanno di tipico o autoctono. Quelle dove, in fondo, si svolgono le stesse
attività che riempiono la nostra quotidianità in patria, come frequentare
locali di tendenza, dedicarsi allo shopping, andare a fare apericena e andare a
divertirsi nei club; con la sola differenza che nelle mete turistiche si
spende, in genere, molto di più, specialmente se si è in alta stagione. Le
vacanze rappresentano, dunque, il non-viaggio per eccellenza, in cui non si
sperimenta mai l’incontro autentico con l’alterità. Si badi bene che non
biasimo affatto il modello appena descritto di ferie e, d’altra parte, non mi
permetterei mai di indicare a una persona dove e come svolgere le proprie
vacanze! D’altronde, de gustibus non disputandum est, giusto? Durante il
grande viaggio terrestre, anche noi siamo stati in vacanza e abbiamo, in certe
occasioni, fatto propriamente le ferie. Infatti, da esse imparammo nulla, né su
noi stessi né sulla realtà che ci circonda. In conclusione, mi limito solamente
a constatare che i viaggi sono tutt’altra cosa e che, in aggiunta, gran parte
di coloro che si autoproclamano accaniti viaggiatori, cittadini del mondo ‒ non
me ne vogliano, ma è la cruda verità ‒ spesso non sono altro che esotici abitudinari,
chiocciole xenofobe che non riescono ad abbandonare la propria dimora
quotidiana. Sono certo che Lévi-Strauss si riferisse a ciò, quando redasse il
lapidario incipit di Tristi Tropici.
La mia è la situazione di un
cittadino europeo atterrato, per ragioni in qualche modo fortuite, nel Nuovo
Mondo: dall’angusta e vetusta Europa, alla gigantesca modernità statunitense.
Durante questa esperienza in terra straniera ci sono stati, come capita quasi
sempre in tali occasioni, momenti di viaggio squisitamente soggettivo e periodi
di viaggio oggettivo in senso stretto, alternati a intervalli di autentica
vacanza. Tuttavia, per quanto riguarda i miei propositi
socio-filosofici, considero maggiormente interessanti i viaggi oggettivi, data la
volontà di capire il mondo in cui siamo immersi al fine di intercettarne i
fenomeni preminenti e le contraddizioni che essi manifestano o, il più delle
volte, nascondono parzialmente. A tal proposito, riporto fedelmente un
promemoria, datato 10 marzo 2013, tratto dal mio sparpagliato e sparuto diario
di viaggio:
N.
B. per l’apprendista filosofo: lasciare da parte i propri crucci esistenziali;
risparmiare ai possibili fruitori le magagne
con se stesso, le incapacità, l’inettitudine.
Il breve
memorandum esprime l’intenzione di sottrarre il lettore dall’obbligo di doversi
sorbire, ancora una volta, i tormenti personali che affliggerebbero un uomo
nella sua battaglia esistenziale contro il resto del pianeta e contro se
stesso. Concediamo, infatti, questo spazio ‒ insieme all’onere di riempirlo con
soluzioni più o meno efficaci ‒ alla letteratura, alla poesia, alla musica,
all’arte in generale. Ai filosofi riserviamo, invece, il compito di studiare i
problemi del proprio tempo e, in aggiunta, seppur con ampi margini di
tolleranza, l’ufficio di proporre delle valevoli strategie per affrontarli.
Ciononostante, rileggendo gli appunti sconnessi che mi sono portato a casa in
seguito al viaggio, ho pensato che, in fondo, non sarebbe stato corretto
epurare, come dopo a un numero di prestigio, alcune considerazioni sul mio
conto, sgorgate dall’aver respirato a pieni polmoni l’atmosfera inedita. In
primo luogo, proprio perché esse sono scaturite da quella esperienza
particolare, appartengono ad essa e, perciò, non è escluso che, fuori dal
determinato contesto, non sarebbero mai germogliate. In secondo luogo, ho
creduto che, forse, le meditazioni in questione potrebbero andare al di là
della mera vicenda personale e, come tali, rivolgersi anche ad altri
destinatari, oltre al sottoscritto. In ogni caso, assicuro fin da subito
l’intollerante agli aforismi simil-sentimentali o l’allergico agli
spiritualismi romantici ‒ come, per certi versi, lo sono anch’io ‒ che, nelle
pagine che seguiranno, i monologhi del microcosmo psichico saranno assai minori
rispetto alle riflessioni oggettive sulla realtà statunitense. Di conseguenza,
il risultato è un testo ibrido, il cui corpo è costituito dalle digressioni
socio-filosofiche che i luoghi di New York mi hanno comunicato, agghindato,
però, di ponderazioni più intime, circa
l’esistenza.
Viaggio.
Come tutti.
Finché
ci saranno esseri umani, ci saranno luoghi.
Finché
ci saranno luoghi, ci saranno viaggi.
Finché
ci saranno viaggi, io ci sarò.
Prefazione (1)
Per la stessa
ragione del viaggio, viaggiare.
(Fabrizio De Andrè,
“Anime salve”)
Odio i viaggi e i
viaggiatori.
(Claude Lévi-Strauss,
“Tristi Tropici”)
Struttura del
viaggio. Fase uno: pianificazione meta, itinerario e programma in loco. Fase
due: partenza, tragitto di andata, arrivo a destinazione, soggiorno;
ripartenza, tragitto di ritorno, rientro a casa. Ma che cos’è un viaggio? In
linea di principio sono solito distinguere due forme di viaggio, quello soggettivo
e quello oggettivo. Il viaggio del primo tipo è una sorta di percorso di
formazione, un’escursione interiore alla scoperta di se stessi, un cammino
esistenziale durante il quale il viandante esplora i luoghi più nascosti del
proprio io, percorrendo i sentieri dello spirito che andranno a costituire la
mappa della sua biografia. Il viaggio soggettivo, pertanto, è fatto
principalmente di incontri, di dialoghi, di avventure; di esperienze sensoriali
interpersonali volte ad arricchire il proprio bagaglio di vita. In questo caso,
la destinazione del tragitto è, il più delle volte, assolutamente ininfluente,
giacché si possono visitare i monumenti del proprio ego anche a pochi passi dal
rispettivo luogo di nascita. Viceversa, rivestono un ruolo di primaria
importanza i compagni di viaggio che, insieme a noi, intraprendono l’avanscoperta
esistenziale e, in aggiunta, le persone che incrociamo nelle varie tappe. Per
il semplice motivo che non esiste alcun io senza il contributo vitale del tu;
privata della differenza dell’altro, nessuna personalità può plasmarsi; nessuna
identità riesce a maturare se non intrecciandosi con diversi innesti
caratteriali, perché soltanto le forme ibride sono in grado di sopravvivere. Ne
consegue che, da un viaggio di questo genere, ciò che riportiamo a casa sono
solitamente i ricordi, spesso stampati su fotografie raffiguranti occhi rossi
in primo piano, o ripresi attraverso filmati di improvvisati cineoperatori,
alle prese con videocamere pseudo-professionali. E gli aneddoti, le storie
surreali pompate all’inverosimile o, comunque, edulcorate con qualche
particolare iperbolico, le quali ci fanno fare bella figura durante le cene con
gli amici, lasciando loro a metà strada tra lo stupore, l’invidia e una ragionevole
dose di scetticismo. In breve, il viaggio soggettivo tocca i sentimenti, le
emozioni, l’inconscio; assume tonalità calde, ci aiuta a comprendere meglio il
cosmo caotico che abbiamo dentro e scava sotto la nostra pelle ‒ è roba di
cuore.
Il viaggio oggettivo, invece, è una
gita alla scoperta del mondo esteriore, una passeggiata circospetta tra gli enti
che abitano la realtà, tra le gli esseri viventi e quelli inanimati, tra gli
individui e le cose che popolano un determinato sito geografico. E’ perciò
composto di passi, di osservazioni, di ascolti che corrispondono alla base
sensuale ove fermenterà il concime su cui il cervello, successivamente,
lavorerà per dare luogo a concatenazioni argomentative e riflessioni mentali.
In altri termini, l’elemento empirico recepito durante il percorso fungerà,
assimilato e rielaborato, da materiale teorico per l’attività celebrale vera e
propria. A differenza del primo, in cui il soggetto interviene attivamente
nelle vicende empiriche scrivendo la propria storia, il viaggio oggettivo
prende spesso il sopravvento sul singolo, che rimane passivo nei confronti del
reale, a subire l’impatto che gli edifici, i paesaggi e gli abitanti della zona
esercitano su di lui. Di conseguenza, mentre il viaggio soggettivo è per lo più
legato alle relazioni che l’esploratore instaura con gli altri (oltre che con
se stesso), il secondo tipo di viaggio dipende maggiormente dalle suggestioni, dalle
impressioni, dalle sensazioni che il nuovo territorio suscita in lui, come
input di ragionamento concettuale. In questo senso, la località scelta come
meta è molto rilevante, dal momento che a parlarci sono le entità precipue di
quel determinato luogo fisico, dalle costruzioni umane alla morfologia
naturale, dalle condizioni climatiche alle espressioni culturali del popolo. Di
scarso rilievo, invece, appare la comitiva con cui condividiamo l’esperienza.
Anzi, il più delle volte, una compagnia troppo rumorosa rischia di coprire le
parole del posto visitato, distraendoci dalla nostra attività ricettiva. Per
questo, è consigliato viaggiare oggettivamente da soli, al fine di afferrare
quanto più possibile dai nuovi spazi occupati. Per questa tipologia di viaggio,
la fotografia può rappresentare un ottimo strumento di ricezione, in parecchie
circostanze anche più efficace del taccuino, su cui l’apprendista esploratore
dovrà annotare idee, spunti, bozze che costituiranno i dati che, una volta
assemblati in una forma logica, diventeranno ‒ tu chiamale se vuoi ‒
meditazioni socio-filosofiche. In sostanza, il viaggio oggettivo dovrebbe
aumentare la nostra comprensione del mondo esterno, che si mostra nella sua
concretezza e ci parla mediante il suo linguaggio specifico, di cui dobbiamo
decifrare grammatica e semantica.
Nella pratica, al di là delle
astrazioni teoretiche, in ciascun viaggio autentico è possibile ritrovare sia
il momento soggettivo che quello oggettivo. Assai di frequente, infatti, accade
che i due aspetti del viaggio sopra esaminati convivano, alternandosi l’uno con
l’altro a seconda delle situazioni che si vengono a creare durante il soggiorno
in una terra straniera. Ad ogni modo, è anche vero che esistono viaggi
maggiormente soggettivi e altri principalmente oggettivi. Tuttavia, questa
distinzione non ha un carattere assiologico: è sbagliato sostenere che l’uno è
migliore dell’altro o viceversa. Essa è, in verità, semplicemente una divisione
teorica, che un aspirante filosofo si sente in dovere di formulare, affinché il
suo scritto appaia più sistematico, accademico, autorevole. Chiarisco fin da
questo momento, però, che le pagine che seguiranno, come il lettore potrà
constatare di persona, hanno davvero poco di sistematico, accademico e
autorevole. Il metodo che si è scelto per la composizione del qui presente
lavoro, anzi, è piuttosto disarticolato, poiché esso procede in maniera assai
irregolare, fatto com’è di proposizioni sconnesse tra loro e di una paratassi
ridondante. In ogni caso, non ho potuto fare a meno, soprattutto a livello
inconscio, di affidarmi alle indicazioni stradali di alcuni autori classici
della sociofilosofia letteraria, quali, tra gli altri, Cesare Pavese, Jean
Baudrillard e Alexis de Tocqueville. A tal proposito, nell’errare tra le strade
di New York, mi sono spesso sentito come trasportato sulle spalle di questi
giganti del pensiero, letteralmente guidato dalle loro acute riflessioni
critiche sulla cultura americana, alla stregua di un visitatore che segue attentamente
le spiegazioni del proprio gruppo di ciceroni. Più dei caratteristici taxi
gialli, sono questi pensatori che mi hanno portato in giro per le strade della
Grande Mela. Ciononostante, non era mia intenzione scrivere un saggio canonico ‒
fatto di note a piè di pagina, citazioni dirette e dettagliata bibliografia ‒
sulla società statunitense, anche perché, sinceramente, non ne avrei le
competenze e i mezzi adeguati. Perciò, ho volutamente evitato questo approccio,
per così dire, ortodosso nella stesura delle pagine che avete davanti agli occhi.
Parimenti, non volevo nemmeno che questa opera fosse esclusivamente un mero
diario di viaggio, ossia un resoconto descrittivo dei luoghi visitati e delle
suggestioni raccolte. Il risultato finale, quindi, è un volume spurio, in cui
impressioni personali si intrecciano a speculazioni astratte, delle quali non
può dirsi esattamente fino a che punto esse nascano dalla mia originale
attività celebrale piuttosto che dal riadattamento di intuizioni già appartenute
a precedenti studiosi. D’altro canto, la concezione del sapere che ho maturato sino
a oggi è proprio quella che esso non sia un possesso quasi massonico di
monopolio dipartimentale, bensì bene collettivo che, di volta in volta, si
trasforma, a seconda del fruitore che momentaneamente ne fa uso. Da questo
punto di vista, a rigore logico un vero e proprio diritto di copyright forse
non esiste, giacché i pensieri non sono proprietà privata di un intellettuale,
quanto, piuttosto, assimilazione, digestione e modificazione di concetti altrui
‒ come un’incessante processione di idee, una continua trasmigrazione di
categorie della ragione, reincarnazione autenticamente spirituale. Ecco perché,
a ben vedere, le nozioni culturali non sono poi così diverse dal cibo di cui ci
nutriamo. E se è vero che con la cultura propriamente non si mangia, è
altrettanto vero che non si vive di solo pane. Detto ciò ‒ vi era già arrivato
Ludwig Feuerbach ‒, provate un po’ voi, se ci riuscite, a ragionare, con lo
stomaco vuoto!
giovedì 30 maggio 2013
“Cloud Atlas”: Tempo, Verità, Libertà
Ha
suscitato scalpore e curiosità – non solo nel mondo della settima arte – la recente
notizia della “metamorfosi” delle sorelle
Wachowski. Infatti, ora anche Andy (nato Andrew) ha rivelato la sua
“evoluzione” come Lilly. In passato era stato il fratello maggiore, ossia Larry
(nato Laurence) a trasformarsi in Lana. I due geniali cineasti di Chicago,
divenuti famosi dopo aver diretto la spettacolare trilogia di The Matrix, sono perciò usciti allo
scoperto facendo pubblicamente outing e palesandosi come donne transgender.
Cambiare corpo per trovare la propria identità: la saga degli ex fratelli
Wachowski sembra già di per sé una intrigante sceneggiatura per un eccentrico
movie hollywoodiano.
D’altra parte, temi quali i concetti di reincarnazione e
transfer spirituale, rappresentazione e transizione, universi paralleli e
destino sono tutti ben presenti nelle loro pellicole. La poetica dei loro film,
effettivamente, è incentrata sulla costante contaminazione di generi, sul duello
tra reale e virtuale, com’è tipico dell’estetica del postmoderno o delle filosofie
orientali. D’altronde, nell’epoca della bioingegneria e della robotica, le
questioni dell’ibridazione tra uomini e animali, OGM, chirurgia plastica,
cyborg e intelligenze artificiali non sono più oggetto di fantascienza. Inoltre,
l’ideale buddista del bodhisattva
(“essere un’illuminazione” in sanscrito) – che prescrive la regola aurea
secondo cui tutte le cose esistenti nell’universo sono unite da un rapporto
d’interrelazione e d’interdipendenza, similmente alla metafora della rete di
Indra, o al Tao come unione di yin e yang – non sembra molto lontano dalla
lezione dell’ecologia, per cui ogni organismo è intrecciato nel tessuto
ecosistemico del rispettivo ecotopo. E che cos’è poi il karma, se non l’accento sulle conseguenze morali delle scelte
passate che di fatto ereditiamo e che condizionano le (ri)nascite future?
Ecco il nucleo concettuale e narrativo su cui è costruito Cloud Atlas, film del 2012 scritto e
diretto dai/dalle fratelli/sorelle Wachowski, insieme a Tom Tykwer. Il
lungometraggio, tratto dal romanzo L'atlante
delle nuvole di David Mitchell,
intreccia infatti sei storie ambientate in luoghi e tempi diversi, legando
personaggi e situazioni tramite riferimenti e citazioni interne (ad esempio, la
voglia a forma di stella cometa che contrassegna il corpo del protagonista
messianico intenzionato a cambiare il mondo in cui vive). Nel dettaglio, gli
episodi narrati sono: “Il Viaggio nel Pacifico di Adam Ewing” (metà ‘800); “Lettere
da Zedelghem” (anni ’30 del XX secolo); “Mezze vite – Il primo caso di Luisa
Rey” (anni ‘70); “La tremenda ordalia di Timothy Cavendish” (epoca
contemporanea); “Il verbo di Sonmi~451” (futuro distopico); “Sloosha Crossing e
tutto il resto” (futuro post apocalittico). Cloud
Atlas è, da questo punto di vista, un’opera ricchissima di contenuto,
confezionata in una forma maniacale e visionaria. Pellicola fantasmagorica,
colma di citazioni colte (due su tutte Solzenicyn e Soylent Green), che si colloca all’interno del genere distopico,
andando a trattare in maniera iperbolica la critica all’«ordine naturale
prestabilito» dello status quo e, di rimando, la possibilità di emancipazione
da esso. Film lungo e largo nello spazio e nel tempo, che incastona sei storie
particolari in un’unica grande Storia.
A ben vedere, tutti i diversi argomenti che si dipanano
nelle varie vicende (rispettivamente schiavismo, omofobia, femminismo, senilità,
consumismo, sopravvivenza) rientrano nella macro-tematica della Libertà, presupposto fondamentale per
il raggiungimento della Verità, occultata e maneggiata dal potere di turno. Una
storia diacronica dell’umanità, perciò, che affronta il Tempo con un’apertura
di prospettive mostruosa: dal tempo lineare e vettoriale al ciclico eterno
ritorno dell’eguale. Sei racconti accomunati da un medesimo schema narrativo,
incastrati – come preziose pepite – l’una con l’altra grazie, in primo luogo,
ad elementi che fungono da “staffetta” tra le sequenze (ad esempio, la
corrispondenza epistolare dei due innamorati, la statua della divinità nel
tempio/cimitero, il diario di bordo messo sotto la gamba di un tavolo!) e, in
secondo luogo, alla presenza dello stesso cast, truccato e trasformato di volta
in volta con risultati stranianti. La Libertà vista in sei differenti contesti
storici, dunque, e attraverso altrettanti registri narrativi: dalla
vicissitudine comica, quasi picaresca del vecchio editore che organizza la fuga
da una casa di cura per anziani, fino alla tragica epopea della donna «artificio»
nella Nuova Seul.
Ogni vicenda presenta una situazione di segregazione, da
quella letterale dello schiavo ai tempi della lotta a favore
dell’abolizionismo, a quella assai meno appariscente della prigionia dei
consumi al tempo del capitalismo sfrenato. All’interno di queste galere
dell’anima umana si nascondono degli eroi, coloro che in qualche modo sanno
oltrepassare la situazione alienante del presente. Sono i redentori del genere
umano, quello strato di reietti e perseguitati di ogni razza e colore, direbbe Herbert Marcuse, ancora in grado di
superare le barriere mentali della propria epoca, fatte di pregiudizi e conformismo
conservatrice, che celano «il vero vero». Costoro rappresentano i reali
soggetti rivoluzionari capaci di spezzare il circolo vizioso che imprigiona il
presente, caratterizzato dalle contraddizioni che il Potere ogni volta produce
e mantiene nell’ombra.
Il Male si incarna qui nelle forme politiche autoritarie della
storia: i proprietari terrieri e schiavisti del ‘600, il nazismo e le superstizioni
razziali tra le due Guerre Mondiali, i detentori delle risorse energetiche come
petrolio ed energia atomica negli anni ’70, i fedeli del dio denaro del XXI
secolo, le holding multinazionali di un futuro prossimo alle porte e, infine, i
cannibali di un’era preistorica che rappresenta la fine o l’innesco di una fase
storica. Proprio questa età del mondo è il perno su cui ruota il lungometraggio
(una sorta di collage tra 6 cortometraggi), dal momento che esso parte e
termina con il faccione tatuato di Tom
Hanks che si staglia davanti al cielo stellato di una galassia lontana,
ascoltando «gli antenati cianciare». Passato, presente e futuro si amalgamano
in una specie di élan vital in cui
«ogni cattiveria e ogni gentilezza si ripercuotono sul nostro futuro» (ad
sensum).
Siamo nel “106 dopo la Caduta” (catastrofe ecologica, bellica
o nucleare) e gli uomini sono divisi in tre classi: i “Prescenti” (custodi
della scienza e della tecnologia), dei selvaggi allevatori di pecore e i
cannibali. Questi ultimi sono, in qualche modo, la metafora vivente del Male di
ogni periodo storico, in quanto si cibano dei propri simili: del loro corpo o anche
della loro essenza antropologica. I pecorari, invece, parlano una lingua assai
povera e sconnessa: altro cliché del genere distopico. L’esistenza è percorsa quindi
da una crudele lotta per la sopravvivenza fisica e solo un alieno venuto
da lontano, in grado di pensare «altro», può essere quello spiraglio di
salvezza che, squarciando il Velo di Maya e uscendo dalla Caverna platonica,
scopre la Verità e conduce pertanto alla Libertà.
Ultima annotazione: Cloud
Atlas è, nel film, il titolo dell’opera musicale composta dal giovane e abilissimo
pianista gay, morto suicida nel film. Essa simboleggia in un certo senso la
sinfonia della Bellezza che risuona in eterno, abbracciando e confortando le
anime emarginate dalla società, i diversi: ancore di salvezza che sono ancora
in grado di abbandonare il peso delle convenzioni e delle regole ingiuste, per
far volare in cielo le proprio idee fino a contemplare, libere e leggere, la
Luce della Verità. Atlante delle nubi, geografia della galassia umana.
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