Per la stessa
ragione del viaggio, viaggiare.
(Fabrizio De Andrè,
“Anime salve”)
Odio i viaggi e i
viaggiatori.
(Claude Lévi-Strauss,
“Tristi Tropici”)
Struttura del
viaggio. Fase uno: pianificazione meta, itinerario e programma in loco. Fase
due: partenza, tragitto di andata, arrivo a destinazione, soggiorno;
ripartenza, tragitto di ritorno, rientro a casa. Ma che cos’è un viaggio? In
linea di principio sono solito distinguere due forme di viaggio, quello soggettivo
e quello oggettivo. Il viaggio del primo tipo è una sorta di percorso di
formazione, un’escursione interiore alla scoperta di se stessi, un cammino
esistenziale durante il quale il viandante esplora i luoghi più nascosti del
proprio io, percorrendo i sentieri dello spirito che andranno a costituire la
mappa della sua biografia. Il viaggio soggettivo, pertanto, è fatto
principalmente di incontri, di dialoghi, di avventure; di esperienze sensoriali
interpersonali volte ad arricchire il proprio bagaglio di vita. In questo caso,
la destinazione del tragitto è, il più delle volte, assolutamente ininfluente,
giacché si possono visitare i monumenti del proprio ego anche a pochi passi dal
rispettivo luogo di nascita. Viceversa, rivestono un ruolo di primaria
importanza i compagni di viaggio che, insieme a noi, intraprendono l’avanscoperta
esistenziale e, in aggiunta, le persone che incrociamo nelle varie tappe. Per
il semplice motivo che non esiste alcun io senza il contributo vitale del tu;
privata della differenza dell’altro, nessuna personalità può plasmarsi; nessuna
identità riesce a maturare se non intrecciandosi con diversi innesti
caratteriali, perché soltanto le forme ibride sono in grado di sopravvivere. Ne
consegue che, da un viaggio di questo genere, ciò che riportiamo a casa sono
solitamente i ricordi, spesso stampati su fotografie raffiguranti occhi rossi
in primo piano, o ripresi attraverso filmati di improvvisati cineoperatori,
alle prese con videocamere pseudo-professionali. E gli aneddoti, le storie
surreali pompate all’inverosimile o, comunque, edulcorate con qualche
particolare iperbolico, le quali ci fanno fare bella figura durante le cene con
gli amici, lasciando loro a metà strada tra lo stupore, l’invidia e una ragionevole
dose di scetticismo. In breve, il viaggio soggettivo tocca i sentimenti, le
emozioni, l’inconscio; assume tonalità calde, ci aiuta a comprendere meglio il
cosmo caotico che abbiamo dentro e scava sotto la nostra pelle ‒ è roba di
cuore.
Il viaggio oggettivo, invece, è una
gita alla scoperta del mondo esteriore, una passeggiata circospetta tra gli enti
che abitano la realtà, tra le gli esseri viventi e quelli inanimati, tra gli
individui e le cose che popolano un determinato sito geografico. E’ perciò
composto di passi, di osservazioni, di ascolti che corrispondono alla base
sensuale ove fermenterà il concime su cui il cervello, successivamente,
lavorerà per dare luogo a concatenazioni argomentative e riflessioni mentali.
In altri termini, l’elemento empirico recepito durante il percorso fungerà,
assimilato e rielaborato, da materiale teorico per l’attività celebrale vera e
propria. A differenza del primo, in cui il soggetto interviene attivamente
nelle vicende empiriche scrivendo la propria storia, il viaggio oggettivo
prende spesso il sopravvento sul singolo, che rimane passivo nei confronti del
reale, a subire l’impatto che gli edifici, i paesaggi e gli abitanti della zona
esercitano su di lui. Di conseguenza, mentre il viaggio soggettivo è per lo più
legato alle relazioni che l’esploratore instaura con gli altri (oltre che con
se stesso), il secondo tipo di viaggio dipende maggiormente dalle suggestioni, dalle
impressioni, dalle sensazioni che il nuovo territorio suscita in lui, come
input di ragionamento concettuale. In questo senso, la località scelta come
meta è molto rilevante, dal momento che a parlarci sono le entità precipue di
quel determinato luogo fisico, dalle costruzioni umane alla morfologia
naturale, dalle condizioni climatiche alle espressioni culturali del popolo. Di
scarso rilievo, invece, appare la comitiva con cui condividiamo l’esperienza.
Anzi, il più delle volte, una compagnia troppo rumorosa rischia di coprire le
parole del posto visitato, distraendoci dalla nostra attività ricettiva. Per
questo, è consigliato viaggiare oggettivamente da soli, al fine di afferrare
quanto più possibile dai nuovi spazi occupati. Per questa tipologia di viaggio,
la fotografia può rappresentare un ottimo strumento di ricezione, in parecchie
circostanze anche più efficace del taccuino, su cui l’apprendista esploratore
dovrà annotare idee, spunti, bozze che costituiranno i dati che, una volta
assemblati in una forma logica, diventeranno ‒ tu chiamale se vuoi ‒
meditazioni socio-filosofiche. In sostanza, il viaggio oggettivo dovrebbe
aumentare la nostra comprensione del mondo esterno, che si mostra nella sua
concretezza e ci parla mediante il suo linguaggio specifico, di cui dobbiamo
decifrare grammatica e semantica.
Nella pratica, al di là delle
astrazioni teoretiche, in ciascun viaggio autentico è possibile ritrovare sia
il momento soggettivo che quello oggettivo. Assai di frequente, infatti, accade
che i due aspetti del viaggio sopra esaminati convivano, alternandosi l’uno con
l’altro a seconda delle situazioni che si vengono a creare durante il soggiorno
in una terra straniera. Ad ogni modo, è anche vero che esistono viaggi
maggiormente soggettivi e altri principalmente oggettivi. Tuttavia, questa
distinzione non ha un carattere assiologico: è sbagliato sostenere che l’uno è
migliore dell’altro o viceversa. Essa è, in verità, semplicemente una divisione
teorica, che un aspirante filosofo si sente in dovere di formulare, affinché il
suo scritto appaia più sistematico, accademico, autorevole. Chiarisco fin da
questo momento, però, che le pagine che seguiranno, come il lettore potrà
constatare di persona, hanno davvero poco di sistematico, accademico e
autorevole. Il metodo che si è scelto per la composizione del qui presente
lavoro, anzi, è piuttosto disarticolato, poiché esso procede in maniera assai
irregolare, fatto com’è di proposizioni sconnesse tra loro e di una paratassi
ridondante. In ogni caso, non ho potuto fare a meno, soprattutto a livello
inconscio, di affidarmi alle indicazioni stradali di alcuni autori classici
della sociofilosofia letteraria, quali, tra gli altri, Cesare Pavese, Jean
Baudrillard e Alexis de Tocqueville. A tal proposito, nell’errare tra le strade
di New York, mi sono spesso sentito come trasportato sulle spalle di questi
giganti del pensiero, letteralmente guidato dalle loro acute riflessioni
critiche sulla cultura americana, alla stregua di un visitatore che segue attentamente
le spiegazioni del proprio gruppo di ciceroni. Più dei caratteristici taxi
gialli, sono questi pensatori che mi hanno portato in giro per le strade della
Grande Mela. Ciononostante, non era mia intenzione scrivere un saggio canonico ‒
fatto di note a piè di pagina, citazioni dirette e dettagliata bibliografia ‒
sulla società statunitense, anche perché, sinceramente, non ne avrei le
competenze e i mezzi adeguati. Perciò, ho volutamente evitato questo approccio,
per così dire, ortodosso nella stesura delle pagine che avete davanti agli occhi.
Parimenti, non volevo nemmeno che questa opera fosse esclusivamente un mero
diario di viaggio, ossia un resoconto descrittivo dei luoghi visitati e delle
suggestioni raccolte. Il risultato finale, quindi, è un volume spurio, in cui
impressioni personali si intrecciano a speculazioni astratte, delle quali non
può dirsi esattamente fino a che punto esse nascano dalla mia originale
attività celebrale piuttosto che dal riadattamento di intuizioni già appartenute
a precedenti studiosi. D’altro canto, la concezione del sapere che ho maturato sino
a oggi è proprio quella che esso non sia un possesso quasi massonico di
monopolio dipartimentale, bensì bene collettivo che, di volta in volta, si
trasforma, a seconda del fruitore che momentaneamente ne fa uso. Da questo
punto di vista, a rigore logico un vero e proprio diritto di copyright forse
non esiste, giacché i pensieri non sono proprietà privata di un intellettuale,
quanto, piuttosto, assimilazione, digestione e modificazione di concetti altrui
‒ come un’incessante processione di idee, una continua trasmigrazione di
categorie della ragione, reincarnazione autenticamente spirituale. Ecco perché,
a ben vedere, le nozioni culturali non sono poi così diverse dal cibo di cui ci
nutriamo. E se è vero che con la cultura propriamente non si mangia, è
altrettanto vero che non si vive di solo pane. Detto ciò ‒ vi era già arrivato
Ludwig Feuerbach ‒, provate un po’ voi, se ci riuscite, a ragionare, con lo
stomaco vuoto!
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