Un film che, in
primo luogo, fa ridere, come dimostrano, ad esempio, le scene all’interno del
negozio del barbiere Martin, dove avvengono le relazioni “tra uomini”. In
secondo luogo, commuove, giacché si segue l’evolversi della malattia di Walt,
protagonista della storia, si assiste alla sua triste “vendetta” finale. In
terzo luogo, esso fa riflettere, in modo particolare, sulla condizione degli
anziani nella nostra epoca, reclusi in casa di cura; sul fenomeno dell’immigrazione,
attualissimo nel mondo globalizzato; sull’universo giovanile in genere e sulle
sue mode o tendenze omologanti; sul problema del bullismo; sul tema religioso;
sulla globalizzazione. Interessante la dialettica
vita/morte che inaugura il film in una delle prime scena, in cui a casa di Walt
si celebra il funerale della moglie, mentre i suoi vicini di casa “orientali”
festeggiano un battesimo. Per una vita che entra nel mondo, un’altra se ne va,
secondo il naturale ciclo biologico; argomento che ritorno anche nelle
confessioni tra il vecchio Walt e il giovane pastore irlandese. La
Gran Torino serve per paragonare
metaforicamente l’anziano messo in disparte, abbandonato e rimpiazzato da nuovi
modelli ‒ un gioiellino d’altri tempi. Come al solito, Eastwood non si lascia
trarre in inganno dall’ipocrisia moralista o dal politically correct
posticcio. Questo suo atteggiamento crudo e diretto è tradotto nel film,
un’opera grezza e sincera, autentica.
Nessun commento:
Posta un commento