Oltre ai viaggi
soggettivi e a quelli oggettivi ci sono, inoltre, le vacanze, vale a dire quelle
del turista in villeggiatura, dove quasi sempre il viaggio è totalmente assente,
oggettivo o soggettivo che sia. Nel dettaglio, le vacanze sono le ferie
obbligate, i meritati giorni di riposo (?) che si devono fare per forza,
caratterizzati da un faticosissimo lavorio di pianificazione alle spalle, al
fine di scongiurare qualsiasi intoppo che possa ostacolare la nostra tranquilla
gita fuori porta, votata al relax per curare lo stress accumulato durante
l’anno. Sebbene spesso capita che le tanto sognate ferie si trasformino in gite all'inferno a causa di spiacevoli soprese. In particolare, non capisco la ragione per cui, in questi casi, ci si
affidi a una rinomata agenzia di viaggio, la quale si preoccupi di organizzare
a puntino ogni dettaglio al posto nostro, cosicché, una volta giunti a
destinazione, l’impressione sia quella di trovarsi esattamente a casa propria.
A questo punto, tanto vale restarci, a casa, non vi sembra? I non-viaggi, a
questo punto, sono le vacanze fatte di villaggi turistici, di crociere
criminali, di visite guidate, di cartoline ipocrite, di souvenir che nulla
hanno di tipico o autoctono. Quelle dove, in fondo, si svolgono le stesse
attività che riempiono la nostra quotidianità in patria, come frequentare
locali di tendenza, dedicarsi allo shopping, andare a fare apericena e andare a
divertirsi nei club; con la sola differenza che nelle mete turistiche si
spende, in genere, molto di più, specialmente se si è in alta stagione. Le
vacanze rappresentano, dunque, il non-viaggio per eccellenza, in cui non si
sperimenta mai l’incontro autentico con l’alterità. Si badi bene che non
biasimo affatto il modello appena descritto di ferie e, d’altra parte, non mi
permetterei mai di indicare a una persona dove e come svolgere le proprie
vacanze! D’altronde, de gustibus non disputandum est, giusto? Durante il
grande viaggio terrestre, anche noi siamo stati in vacanza e abbiamo, in certe
occasioni, fatto propriamente le ferie. Infatti, da esse imparammo nulla, né su
noi stessi né sulla realtà che ci circonda. In conclusione, mi limito solamente
a constatare che i viaggi sono tutt’altra cosa e che, in aggiunta, gran parte
di coloro che si autoproclamano accaniti viaggiatori, cittadini del mondo ‒ non
me ne vogliano, ma è la cruda verità ‒ spesso non sono altro che esotici abitudinari,
chiocciole xenofobe che non riescono ad abbandonare la propria dimora
quotidiana. Sono certo che Lévi-Strauss si riferisse a ciò, quando redasse il
lapidario incipit di Tristi Tropici.
La mia è la situazione di un
cittadino europeo atterrato, per ragioni in qualche modo fortuite, nel Nuovo
Mondo: dall’angusta e vetusta Europa, alla gigantesca modernità statunitense.
Durante questa esperienza in terra straniera ci sono stati, come capita quasi
sempre in tali occasioni, momenti di viaggio squisitamente soggettivo e periodi
di viaggio oggettivo in senso stretto, alternati a intervalli di autentica
vacanza. Tuttavia, per quanto riguarda i miei propositi
socio-filosofici, considero maggiormente interessanti i viaggi oggettivi, data la
volontà di capire il mondo in cui siamo immersi al fine di intercettarne i
fenomeni preminenti e le contraddizioni che essi manifestano o, il più delle
volte, nascondono parzialmente. A tal proposito, riporto fedelmente un
promemoria, datato 10 marzo 2013, tratto dal mio sparpagliato e sparuto diario
di viaggio:
N.
B. per l’apprendista filosofo: lasciare da parte i propri crucci esistenziali;
risparmiare ai possibili fruitori le magagne
con se stesso, le incapacità, l’inettitudine.
Il breve
memorandum esprime l’intenzione di sottrarre il lettore dall’obbligo di doversi
sorbire, ancora una volta, i tormenti personali che affliggerebbero un uomo
nella sua battaglia esistenziale contro il resto del pianeta e contro se
stesso. Concediamo, infatti, questo spazio ‒ insieme all’onere di riempirlo con
soluzioni più o meno efficaci ‒ alla letteratura, alla poesia, alla musica,
all’arte in generale. Ai filosofi riserviamo, invece, il compito di studiare i
problemi del proprio tempo e, in aggiunta, seppur con ampi margini di
tolleranza, l’ufficio di proporre delle valevoli strategie per affrontarli.
Ciononostante, rileggendo gli appunti sconnessi che mi sono portato a casa in
seguito al viaggio, ho pensato che, in fondo, non sarebbe stato corretto
epurare, come dopo a un numero di prestigio, alcune considerazioni sul mio
conto, sgorgate dall’aver respirato a pieni polmoni l’atmosfera inedita. In
primo luogo, proprio perché esse sono scaturite da quella esperienza
particolare, appartengono ad essa e, perciò, non è escluso che, fuori dal
determinato contesto, non sarebbero mai germogliate. In secondo luogo, ho
creduto che, forse, le meditazioni in questione potrebbero andare al di là
della mera vicenda personale e, come tali, rivolgersi anche ad altri
destinatari, oltre al sottoscritto. In ogni caso, assicuro fin da subito
l’intollerante agli aforismi simil-sentimentali o l’allergico agli
spiritualismi romantici ‒ come, per certi versi, lo sono anch’io ‒ che, nelle
pagine che seguiranno, i monologhi del microcosmo psichico saranno assai minori
rispetto alle riflessioni oggettive sulla realtà statunitense. Di conseguenza,
il risultato è un testo ibrido, il cui corpo è costituito dalle digressioni
socio-filosofiche che i luoghi di New York mi hanno comunicato, agghindato,
però, di ponderazioni più intime, circa
l’esistenza.
Viaggio.
Come tutti.
Finché
ci saranno esseri umani, ci saranno luoghi.
Finché
ci saranno luoghi, ci saranno viaggi.
Finché
ci saranno viaggi, io ci sarò.
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