Atterrato
all’aeroscalo JFK, mi si manifesta una triste verità: la segregazione razziale
é ancora vigente, poiché basta guardare il colore della pelle dei lavoratori
nell’aerostazione o degli addetti alla sicurezza nazionale in generale.
Ovviamente, essa é esercitata in maniera assolutamente legale e democratica,
come tutte le nuove forme di schiavitù volontaria al tempo del capitalismo. Solitamente a essere visitati sono le
grandi città, i musei, i luoghi di culto, vale a dire determinati luoghi fisici
per ragioni turistiche, culturali o religiose. Ma si visitano anche gli amici,
i conoscenti, i parenti, i malati, i carcerati. E non dimentichiamo che anche i
medici specialisti visitano i loro pazienti e le persone degenti. Appena metto
piede sul suolo newyorkese, provo a convincermi che quella estesa davanti ai
miei occhi è una delle metropoli più grandi al mondo. Subito dopo penso che,
nei giorni a venire, probabilmente entrerò in qualità di visitatore in qualche
importante museo e, allo stesso modo, varcherò la soglia di edifici religiosi
solenni. Tuttavia, il ragazzo di colore che, fuori dall’aeroporto, mi si
avvicina per propormi cortesemente una corsa in bus fino al centro cittadino,
più che altro mi comunica un senso di fiduciosa amicizia. Anche in questo caso,
come mi capita frequentemente quando viaggio all’estero, ho la strana
impressione, come un déjà-vu
prolungato, di aver già incontrato, da qualche altra parte, questo adolescente
nero. In questa occasione, la spiegazione risiede forse nel fatto che il tale
rientra ad hoc nella sagoma stereotipata del rapper afroamericano, vista e
rivista attraverso miriadi di fiction televisive. Pertanto, afferro che, in
fondo, degli U.S.A. e, in particolare, della loro verità storica, conosco già
abbastanza, forse anche di più dei fenomeni sociali prettamente italici o, più
in generale, europei. La ragione è che il mondo intero parla americano e che
gli americani parlano a tutto il mondo ‒ american way. Ciononostante, durante
il tragitto in bus, guardando gli scenari suburbani che mi concedono i
finestrini del mezzo pubblico, l’idea che più di tutte mi persuade è precisamente
quella di visitare un malato. New York è uno squilibrato che cerca di
nascondere, prima di tutto a se stesso, i sintomi della sua peculiare
patologia. E’ un mal-vivente che si reputa benestante, ignorando
imprudentemente i consigli dei medici che si mettono a disposizione per
guarirlo. Di conseguenza, voglio sentirmi anche io un po’ nei panni di un
tirocinante di medicina che, con tanto di camice bianco e stetoscopio, vaga tra
le corsie dei vari reparti nel grande ospedale per consumo-dipendenti, shopping
addicted. Ancora, in quanto mal-vivente, New York si è costruita da sola
una enorme prigione a cielo aperto, che assume, però, i tratti di una gabbia
d’oro, un’utopia/distopia perfettamente realizzata[1]. Sui
depliant turistici non mancano affatto gli elogi encomiastici rivolti alle
amministrazioni comunali presenti e passate, capaci di aver notevolmente
abbassato, mediante drastiche misure di sicurezza a tolleranza-zero, il tasso
di criminalità, specialmente in termini di omicidi e reati violenti. Nello
stesso tempo, tuttavia, è aumentata una criminalità di altro tipo, vale a dire
la mala-vita esistenziale. Inettitudine biologica; inidoneità a delineare un
programma di progresso ecosostenibile, una crescita a basso impatto ambientale,
che tenga conto dei limiti imposti dalle risorse naturali in esaurimento. Incapacità
di abitare adeguatamente il proprio spicchio di pianeta Terra; dappocaggine
nello stare al mondo in maniera razionale; inabilità a sopravvivere in
equilibrio con la natura. Questa forma particolare di delinquenza, che si sta
diffondendo a ritmi allarmanti nei Paesi altamente sviluppati ‒ la società del
“benessere" ‒, è testimoniata dall’incompetenza nello svolgere i lavori
domestici, le faccende di casa pianificate da tempo dall’eco-logia. In questo
senso, l’eco-nomia deve promuovere dei cittadini casalinghi, che si prendano
cura della propria dimora, in ogni sua accezione. Ricordo che, da bambino, mi
svagavo a intercettare la mia umile posizione nello cosmo, costruendo
mentalmente una serie di cerchi concentrici che fungessero da insiemi entro cui
circoscrivere, di volta in volta, le mie coordinate geografiche. In un certo
senso, applicavo nella pratica la necessità teorica globale della
localizzazione: io, singolo individuo, devo avere cura del mio corpo, in quanto
casa della mia persona; devo avere cura della mia cameretta; dell’abitazione
dove alloggio; della via in cui risiedo; del mio quartiere; della mia città;
della mia provincia; della mia regione; del territorio nazionale; del
continente; del pianeta Terra (spinto da una fanciullesca attrazione
astronomica di proporzioni cosmiche, includevo anche la
Via Lattea , giacché nostra Galassia, e
l’universo intero. Ma, se si pensa ai rifiuti spaziali che occupano la
stratosfera, l’estensione del mio elenco non sembra troppo esagerata!). Il
corpo del delitto di questi crimini sono i sacchi neri della spazzatura: i
cadaveri abbandonati fuori dai locali, vittime dello zio Sam e del suo
killeraggio silenzioso.
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