Durante il volo
transcontinentale, mi torna in mente la frase con cui inizia Tristi Tropici
di Lévi-Staruss: «Odio i viaggi e tutti i viaggiatori». Odio i viaggi e tutti i
viaggiatori, detto da un habitué delle esplorazioni. Sono sicuramente parole
forti, che fanno riflettere circa la concezione moderna del “viaggio”, ossia la
vacanza borghese del turista che visita i monumenti e i posti caratteristici di
una determinata località. Ma le cartoline smerciate nei punti vendita di
souvenir non raffigurano le contraddizioni delle città; i ciceroni non ci
dicono nulla sulle reali condizioni di vita di tutti gli abitanti del luogo; le
guide stampate riportano precise informazioni storiche, senza fare riferimento
alla cronaca sulle cui vicissitudini ha preso forma la comunità. Parimenti, nei
ristoranti tipici quasi mai si mangiano le pietanze davvero cucinate presso la
gente locale; all’interno dei musei non c’è posto per l’arte autentica, per la
cultura invisibile; i punti panoramici segnalati sulle cartine, così come le
riserve naturali che ospitano le bellezze faunistiche e floreali indigene, sono
stati accuratamente ripuliti dalle scorie residuali che, altrimenti, li
incrosterebbero. All’occhio del turista, d’altronde, tutto deve apparire bello,
pulito, caratteristico, degno di una fotografia: una scenografia tanto verosimile,
asettica, spettacolare quanto artificiosa, surreale, parziale.
Così mi domando, ad esempio, che
impatto avranno sul cambiamento climatico mondiale le emissioni generate dal
motore dell’aeroplano su cui sto volando. Mi chiedo quale sarà la quantità di
rifiuti inorganici che i passeggeri di un volo come questo producono e,
inoltre, dove finirà tutta la spazzatura prodotta. Mentre le hostess passano
tra il ristretto corridoio tra le file a raccattare l’immondizia, noto che la
raccolta differenziata non è praticata e, forse, nemmeno possibile in tale contesto.
Faccio una media dei voli nazionali giornalieri, sommandoli a quelli
internazionali; moltiplico per il numero dei passeggeri di ciascun volo e ho un
vuoto d’aria. E non per colpa del pilota. In aggiunta, osservo con pungente
amarezza che le pattumiere sono colme di cibo avanzato, constatandone l’ingente
spreco. Provo poi a contare quante posate usa e getta sono state buttate via,
quanti bicchierini in plastica; quanti involucri, confezioni, vaschette,
mini-imballaggi che, se non riciclati, intaseranno le discariche suburbane o
formeranno nuove sudice isolette, magari proprio in mezzo all’oceano che ora
sto sorvolando.
Le periferie sono uguali in tutto il
mondo. Anzi, si può dire che vi é un’unica periferia mondiale, l’hinterland del
PIL, al confine della società dei consumi[1],
fatta degli scarti di quest’ultima. Allora i viaggi potrebbero servirmi proprio
per scovare in presa diretta quegli elementi negativi dei luoghi visitati. Il
viaggio critico...un’incoerenza?
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Curioso segnale di divieto nella sala fumatori dell'aeroporto |
[1] In
realtà, come ragiona Zygmunt Bauman in Consumo, dunque sono, sarebbe più
corretto parlare di società dei consumatori o dei consumismi, giacché ogni
società umana e, più in generale, ogni comunità vivente, genera inevitabilmente
dei consumi. Così Bauman: «In effetti il consumo, se ridotto alla sua forma
essenziale del ciclo metabolico di ingestione, digestione ed escrezione, è una
condizione e un aspetto permanente e ineliminabile della vita svincolato dal
tempo e dalla storia, un elemento inseparabile dalla sopravvivenza biologica
che gli esseri umani condividono con tutti gli altri organismi viventi»
(Bauman, 2007, trad. it. di M. Cupellaro).
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