Durante il
soggiorno nella Big Apple ho anche modo di prendere parte a un wine tasting:
un’importante degustazione vinicola su scala internazionale, programmata da
un noto importatore newyorkese. La fiera si svolge nella sala congressi
di un grande hotel nella East Side, allestita a puntino per l’occasione, con
numerosi stand riservati ai produttori provenienti da molti Paesi diversi. Agli
angoli della stanza sono stati apparecchiati dei tavoli colmi di piatti e
vassoi che trasbordano di grissini, focacce, cracker e formaggi di ogni tipo. A
ciascuno dei partecipanti (per la maggior parte proprietari di ristoranti, ma
non mancano i “collezionisti” e i semplici appassionati) viene fornito un
protocollo riportante tutti i dati dei prodotti esposti, sui cui i primi
diligentemente appuntano le proprie impressioni circa le caratteristiche dei
vari vini. Ma ciò che mi stupisce maggiormente è senz’altro assistere alla gara
di sputi collettiva, ingaggiata dopo ogni assaggio enologico. Tutti, in seguito
a ondulazioni decantanti, occhiatacce rivolte ai calici, sniffate e smorfie
deformanti, sputano (proprietari di locali, “collezionisti” o meri amatori), al
punto che non si capisce se il vino con cui hanno appena effettuato dei
risciacqui orali gli piaccia davvero oppure no! Sembra di essere dal dentista,
con la differenza che il liquido scatarrato è succo d’uva alquanto costoso,
ottenuto col sudore e la sapienza di periti viticoltori, e non colluttorio verdognolo
che sa di medicina. Premesso che non sono affatto un esperto del settore e che,
di conseguenza, non mi soffermo sulla necessità sensoriale-valutativa, oltreché
fisiologica di tale prassi (credo che sia assai complicato rimanere sobri dopo
aver assaggiato una ventina di vini diversi), mi limito a esporre una considerazione generica su un evento come il wine tasting a cui ho
assistito. Trovo che in situazioni come quella sopra descritta
il vero protagonista in questione, cioè il vino, finisca, in realtà, per
restare completamente fuori dalla scena. Ciò che conta è, piuttosto,
l’atmosfera che si viene a creare intorno ad esso, l’aurea di rimandi e significati
che ne aleggia sopra come, peraltro, accade con qualsiasi merce al tempo del
consumismo. Pare, infatti, che, come intuisce Jean Baudrillard, il valore d’uso
dei beni (stabilito in base alla funzione che un certa cosa possiede) e quello
di scambio (fissato dalle leggi di equivalenza del mercato), siano stati oramai
superati dal valore-segno, l’unico ancora in grado di dare un senso
all’articolo. Il valore-segno non ha più nulla a che vedere con lo scopo di un
prodotto, né tantomeno con la sua capacità venale: esso dipende soltanto dalle
“virtù” che le mode passeggere ed effimere gli imprimono. In altre parole, il
succo d’uva, non solo frutto della terra e del lavoro umano, ma anche simbolo
di storia e cultura di un luogo, finisce per essere svuotato di ogni sua
intrinseca qualità, per divenire quasi un’opera d’arte contemporanea, esposta
in una simil-galleria, dopo la cui fruizione parziale, lo spettatore se ne
libera con un getto netto all’interno di una sputacchiera. Da nettare degli dei
a status symbol di importatori semidivini. Difficile stabilire una volta
per tutte a cosa serva una bevanda alcolica ottenuta dal mosto d’uva lascito a
fermentare: per dissetarsi, per abbinare ai cibi, per darsi un tono e una
tonalità, per fare buon sangue, per combattere il colesterolo alto, per
ubriacarsi, per fare cassa, per valorizzare un territorio, ecc. Come quasi ogni
cosa autentica non si lascia imbrigliare in una definizione univoca, ma resta
pur sempre indiscusso il fatto che il vino generalmente e primariamente si
beve.
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