Lungometraggio
che parla di uno dei più violenti e sanguinosi massacri di gruppo della Seconda
Guerra Mondiale, senza mostrare un goccio di sangue. Eppure ci riesce in
maniera straordinaria. Quasi tutti i dialoghi del film sono in dialetto
romagnolo (?) e l’intera vicenda ruota attorno alle tradizioni folkloristiche
della provincia povera italiana, il popolo della campagna o della montagna,
vittima prescelta di ogni conflitto bellico stabilito dall’alto dai potenti
statisti. Mi concentro sul titolo. L’uomo che verrà è, innanzitutto, il
fratellino nascituro di Martina, la protagonista della storia. La sorella si
prende cura di lui e lo alleva come un vero e proprio figlio, essendo l’unica
superstite della famiglia. A questo proposito, l’ultima scena è davvero
memorabile: Martina, che aveva perso l’uso della parola in seguito al decesso
del precedente fratello, è costretta a parlare nuovamente per cantare la
ninnananna al neonato che deve dormire. Ma, in secondo luogo, l’uomo che verrà
siamo tutti noi, le generazioni venute al mondo dopo le atrocità della II
Guerra Mondiale, che devono la loro vita ai sacrifici e alle battaglie
sostenute dai propri progenitori, il liberatori della Patria contro le
ingiustizie degli oppressori della storia.
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