venerdì 31 maggio 2013

Ground Zero


Più procede il tragitto e più mi convinco che questo resterà probabilmente il viaggio di istruzione più interessante della mia vita, poiché non ho mai imparato tanto sul mondo. Anche se non entro in rinomati musei, non visito storiche cattedrali e nemmeno palazzi ricchi di cultura, mi imbatto in situazioni stimolanti, per certi versi, inaspettate, per altri, studiate attraverso le pagine di importanti studiosi e, ora, vissute in presa diretta sulla mia pelle. Una di queste, inaspettata, è assistere alla pausa pranzo degli operai edili a Ground Zero, dove fino all’11 settembre 2001 presidiavano le celebri Twin Towers. Adesso è in fase di realizzazione un imponente progetto di ricostruzione dell’area, sfigurata in seguito a uno degli attentati terroristici con l’impatto ‒ reale e mediatico ‒ più feroce della storia umana, le cui cicatrici resteranno aperte per lunghissimo tempo. Per tale ragione, un esercito di muratori, operai e tecnici di ogni genere sono stati arruolati per risistemare la zona, in cui, peraltro, è sorto un museo in onore delle vittime dell’accaduto e un memorial per non dimenticare il fatto. E provo irritazione quando, immobile a contemplare la reazione megalitica che stanno attualizzando gli U.S.A. nell’edificare il grattacielo più alto dell’emisfero occidentale del pianeta, proprio dove sono stati feriti al cuore, uno sciame di venditori ambulanti mi si avvicina tenendo in mano dei faldoni pieni di immagini riferite alla dolorosa vicenda, che dovrebbero rappresentare delle fedeli testimonianze della tragedia, per vendermeli. Come se fossero dei souvenir, alla pari delle tazze “I (love) NY” o dei cappellini degli Yankees. E non posso non domandarmi in che modo un modello economico, che è anche un sistema di produzione che influenza i consumi e lo stile di vita delle persone, riesca a intrufolarsi in maniera così subdola in ogni interstizio dell’esistenza, fino a speculare sulle vittime di un strage, sfruttando il loro “sacrificio” per intascare degli spiccioli. Perché qui non si tratta di tenere vivo il ricordo di uomini e donne scomparse in disastro politico, bensì di dare un prezzo a qualsiasi cosa che possa essere oggetto, in qualche modo, di compravendita, anche le vite dei defunti. E, infine, non riesco a capacitarmi di come quei venditori ambulanti di esistenze spezzate non si rendano conto del genere di merce che stanno esponendo, così immersi nel magma liquefatto del consumismo. Fanno da contraltare a queste scene raccapriccianti le pettorine catarifrangenti che indossano gli operai a riposo, le loro virili risate, le lattine di birra che stringono in mano, i caschi antinfortunistici personalizzati ad hoc con tanto di adesivi colorati e stampini vari. In mezzo a questo genuino spaccato di working class heroes resto impressionato nel vedere la quantità di giovani che svolgono questo tipo di lavoro rispetto all’Italia.

Foto di Federica Boffa

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