venerdì 31 maggio 2013

Prefazione (1)


Per la stessa ragione del viaggio, viaggiare.

(Fabrizio De Andrè, “Anime salve”)

 

Odio i viaggi e i viaggiatori.

(Claude Lévi-Strauss, “Tristi Tropici”)

 


Struttura del viaggio. Fase uno: pianificazione meta, itinerario e programma in loco. Fase due: partenza, tragitto di andata, arrivo a destinazione, soggiorno; ripartenza, tragitto di ritorno, rientro a casa. Ma che cos’è un viaggio? In linea di principio sono solito distinguere due forme di viaggio, quello soggettivo e quello oggettivo. Il viaggio del primo tipo è una sorta di percorso di formazione, un’escursione interiore alla scoperta di se stessi, un cammino esistenziale durante il quale il viandante esplora i luoghi più nascosti del proprio io, percorrendo i sentieri dello spirito che andranno a costituire la mappa della sua biografia. Il viaggio soggettivo, pertanto, è fatto principalmente di incontri, di dialoghi, di avventure; di esperienze sensoriali interpersonali volte ad arricchire il proprio bagaglio di vita. In questo caso, la destinazione del tragitto è, il più delle volte, assolutamente ininfluente, giacché si possono visitare i monumenti del proprio ego anche a pochi passi dal rispettivo luogo di nascita. Viceversa, rivestono un ruolo di primaria importanza i compagni di viaggio che, insieme a noi, intraprendono l’avanscoperta esistenziale e, in aggiunta, le persone che incrociamo nelle varie tappe. Per il semplice motivo che non esiste alcun io senza il contributo vitale del tu; privata della differenza dell’altro, nessuna personalità può plasmarsi; nessuna identità riesce a maturare se non intrecciandosi con diversi innesti caratteriali, perché soltanto le forme ibride sono in grado di sopravvivere. Ne consegue che, da un viaggio di questo genere, ciò che riportiamo a casa sono solitamente i ricordi, spesso stampati su fotografie raffiguranti occhi rossi in primo piano, o ripresi attraverso filmati di improvvisati cineoperatori, alle prese con videocamere pseudo-professionali. E gli aneddoti, le storie surreali pompate all’inverosimile o, comunque, edulcorate con qualche particolare iperbolico, le quali ci fanno fare bella figura durante le cene con gli amici, lasciando loro a metà strada tra lo stupore, l’invidia e una ragionevole dose di scetticismo. In breve, il viaggio soggettivo tocca i sentimenti, le emozioni, l’inconscio; assume tonalità calde, ci aiuta a comprendere meglio il cosmo caotico che abbiamo dentro e scava sotto la nostra pelle ‒ è roba di cuore.

            Il viaggio oggettivo, invece, è una gita alla scoperta del mondo esteriore, una passeggiata circospetta tra gli enti che abitano la realtà, tra le gli esseri viventi e quelli inanimati, tra gli individui e le cose che popolano un determinato sito geografico. E’ perciò composto di passi, di osservazioni, di ascolti che corrispondono alla base sensuale ove fermenterà il concime su cui il cervello, successivamente, lavorerà per dare luogo a concatenazioni argomentative e riflessioni mentali. In altri termini, l’elemento empirico recepito durante il percorso fungerà, assimilato e rielaborato, da materiale teorico per l’attività celebrale vera e propria. A differenza del primo, in cui il soggetto interviene attivamente nelle vicende empiriche scrivendo la propria storia, il viaggio oggettivo prende spesso il sopravvento sul singolo, che rimane passivo nei confronti del reale, a subire l’impatto che gli edifici, i paesaggi e gli abitanti della zona esercitano su di lui. Di conseguenza, mentre il viaggio soggettivo è per lo più legato alle relazioni che l’esploratore instaura con gli altri (oltre che con se stesso), il secondo tipo di viaggio dipende maggiormente dalle suggestioni, dalle impressioni, dalle sensazioni che il nuovo territorio suscita in lui, come input di ragionamento concettuale. In questo senso, la località scelta come meta è molto rilevante, dal momento che a parlarci sono le entità precipue di quel determinato luogo fisico, dalle costruzioni umane alla morfologia naturale, dalle condizioni climatiche alle espressioni culturali del popolo. Di scarso rilievo, invece, appare la comitiva con cui condividiamo l’esperienza. Anzi, il più delle volte, una compagnia troppo rumorosa rischia di coprire le parole del posto visitato, distraendoci dalla nostra attività ricettiva. Per questo, è consigliato viaggiare oggettivamente da soli, al fine di afferrare quanto più possibile dai nuovi spazi occupati. Per questa tipologia di viaggio, la fotografia può rappresentare un ottimo strumento di ricezione, in parecchie circostanze anche più efficace del taccuino, su cui l’apprendista esploratore dovrà annotare idee, spunti, bozze che costituiranno i dati che, una volta assemblati in una forma logica, diventeranno ‒ tu chiamale se vuoi ‒ meditazioni socio-filosofiche. In sostanza, il viaggio oggettivo dovrebbe aumentare la nostra comprensione del mondo esterno, che si mostra nella sua concretezza e ci parla mediante il suo linguaggio specifico, di cui dobbiamo decifrare grammatica e semantica.

            Nella pratica, al di là delle astrazioni teoretiche, in ciascun viaggio autentico è possibile ritrovare sia il momento soggettivo che quello oggettivo. Assai di frequente, infatti, accade che i due aspetti del viaggio sopra esaminati convivano, alternandosi l’uno con l’altro a seconda delle situazioni che si vengono a creare durante il soggiorno in una terra straniera. Ad ogni modo, è anche vero che esistono viaggi maggiormente soggettivi e altri principalmente oggettivi. Tuttavia, questa distinzione non ha un carattere assiologico: è sbagliato sostenere che l’uno è migliore dell’altro o viceversa. Essa è, in verità, semplicemente una divisione teorica, che un aspirante filosofo si sente in dovere di formulare, affinché il suo scritto appaia più sistematico, accademico, autorevole. Chiarisco fin da questo momento, però, che le pagine che seguiranno, come il lettore potrà constatare di persona, hanno davvero poco di sistematico, accademico e autorevole. Il metodo che si è scelto per la composizione del qui presente lavoro, anzi, è piuttosto disarticolato, poiché esso procede in maniera assai irregolare, fatto com’è di proposizioni sconnesse tra loro e di una paratassi ridondante. In ogni caso, non ho potuto fare a meno, soprattutto a livello inconscio, di affidarmi alle indicazioni stradali di alcuni autori classici della sociofilosofia letteraria, quali, tra gli altri, Cesare Pavese, Jean Baudrillard e Alexis de Tocqueville. A tal proposito, nell’errare tra le strade di New York, mi sono spesso sentito come trasportato sulle spalle di questi giganti del pensiero, letteralmente guidato dalle loro acute riflessioni critiche sulla cultura americana, alla stregua di un visitatore che segue attentamente le spiegazioni del proprio gruppo di ciceroni. Più dei caratteristici taxi gialli, sono questi pensatori che mi hanno portato in giro per le strade della Grande Mela. Ciononostante, non era mia intenzione scrivere un saggio canonico ‒ fatto di note a piè di pagina, citazioni dirette e dettagliata bibliografia ‒ sulla società statunitense, anche perché, sinceramente, non ne avrei le competenze e i mezzi adeguati. Perciò, ho volutamente evitato questo approccio, per così dire, ortodosso nella stesura delle pagine che avete davanti agli occhi. Parimenti, non volevo nemmeno che questa opera fosse esclusivamente un mero diario di viaggio, ossia un resoconto descrittivo dei luoghi visitati e delle suggestioni raccolte. Il risultato finale, quindi, è un volume spurio, in cui impressioni personali si intrecciano a speculazioni astratte, delle quali non può dirsi esattamente fino a che punto esse nascano dalla mia originale attività celebrale piuttosto che dal riadattamento di intuizioni già appartenute a precedenti studiosi. D’altro canto, la concezione del sapere che ho maturato sino a oggi è proprio quella che esso non sia un possesso quasi massonico di monopolio dipartimentale, bensì bene collettivo che, di volta in volta, si trasforma, a seconda del fruitore che momentaneamente ne fa uso. Da questo punto di vista, a rigore logico un vero e proprio diritto di copyright forse non esiste, giacché i pensieri non sono proprietà privata di un intellettuale, quanto, piuttosto, assimilazione, digestione e modificazione di concetti altrui ‒ come un’incessante processione di idee, una continua trasmigrazione di categorie della ragione, reincarnazione autenticamente spirituale. Ecco perché, a ben vedere, le nozioni culturali non sono poi così diverse dal cibo di cui ci nutriamo. E se è vero che con la cultura propriamente non si mangia, è altrettanto vero che non si vive di solo pane. Detto ciò ‒ vi era già arrivato Ludwig Feuerbach ‒, provate un po’ voi, se ci riuscite, a ragionare, con lo stomaco vuoto!

Nessun commento:

Posta un commento