venerdì 31 maggio 2013

I mal-viventi


Atterrato all’aeroscalo JFK, mi si manifesta una triste verità: la segregazione razziale é ancora vigente, poiché basta guardare il colore della pelle dei lavoratori nell’aerostazione o degli addetti alla sicurezza nazionale in generale. Ovviamente, essa é esercitata in maniera assolutamente legale e democratica, come tutte le nuove forme di schiavitù volontaria al tempo del capitalismo.      Solitamente a essere visitati sono le grandi città, i musei, i luoghi di culto, vale a dire determinati luoghi fisici per ragioni turistiche, culturali o religiose. Ma si visitano anche gli amici, i conoscenti, i parenti, i malati, i carcerati. E non dimentichiamo che anche i medici specialisti visitano i loro pazienti e le persone degenti. Appena metto piede sul suolo newyorkese, provo a convincermi che quella estesa davanti ai miei occhi è una delle metropoli più grandi al mondo. Subito dopo penso che, nei giorni a venire, probabilmente entrerò in qualità di visitatore in qualche importante museo e, allo stesso modo, varcherò la soglia di edifici religiosi solenni. Tuttavia, il ragazzo di colore che, fuori dall’aeroporto, mi si avvicina per propormi cortesemente una corsa in bus fino al centro cittadino, più che altro mi comunica un senso di fiduciosa amicizia. Anche in questo caso, come mi capita frequentemente quando viaggio all’estero, ho la strana impressione, come un déjà-vu prolungato, di aver già incontrato, da qualche altra parte, questo adolescente nero. In questa occasione, la spiegazione risiede forse nel fatto che il tale rientra ad hoc nella sagoma stereotipata del rapper afroamericano, vista e rivista attraverso miriadi di fiction televisive. Pertanto, afferro che, in fondo, degli U.S.A. e, in particolare, della loro verità storica, conosco già abbastanza, forse anche di più dei fenomeni sociali prettamente italici o, più in generale, europei. La ragione è che il mondo intero parla americano e che gli americani parlano a tutto il mondo ‒ american way. Ciononostante, durante il tragitto in bus, guardando gli scenari suburbani che mi concedono i finestrini del mezzo pubblico, l’idea che più di tutte mi persuade è precisamente quella di visitare un malato. New York è uno squilibrato che cerca di nascondere, prima di tutto a se stesso, i sintomi della sua peculiare patologia. E’ un mal-vivente che si reputa benestante, ignorando imprudentemente i consigli dei medici che si mettono a disposizione per guarirlo. Di conseguenza, voglio sentirmi anche io un po’ nei panni di un tirocinante di medicina che, con tanto di camice bianco e stetoscopio, vaga tra le corsie dei vari reparti nel grande ospedale per consumo-dipendenti, shopping addicted. Ancora, in quanto mal-vivente, New York si è costruita da sola una enorme prigione a cielo aperto, che assume, però, i tratti di una gabbia d’oro, un’utopia/distopia perfettamente realizzata[1]. Sui depliant turistici non mancano affatto gli elogi encomiastici rivolti alle amministrazioni comunali presenti e passate, capaci di aver notevolmente abbassato, mediante drastiche misure di sicurezza a tolleranza-zero, il tasso di criminalità, specialmente in termini di omicidi e reati violenti. Nello stesso tempo, tuttavia, è aumentata una criminalità di altro tipo, vale a dire la mala-vita esistenziale. Inettitudine biologica; inidoneità a delineare un programma di progresso ecosostenibile, una crescita a basso impatto ambientale, che tenga conto dei limiti imposti dalle risorse naturali in esaurimento. Incapacità di abitare adeguatamente il proprio spicchio di pianeta Terra; dappocaggine nello stare al mondo in maniera razionale; inabilità a sopravvivere in equilibrio con la natura. Questa forma particolare di delinquenza, che si sta diffondendo a ritmi allarmanti nei Paesi altamente sviluppati ‒ la società del “benessere" ‒, è testimoniata dall’incompetenza nello svolgere i lavori domestici, le faccende di casa pianificate da tempo dall’eco-logia. In questo senso, l’eco-nomia deve promuovere dei cittadini casalinghi, che si prendano cura della propria dimora, in ogni sua accezione. Ricordo che, da bambino, mi svagavo a intercettare la mia umile posizione nello cosmo, costruendo mentalmente una serie di cerchi concentrici che fungessero da insiemi entro cui circoscrivere, di volta in volta, le mie coordinate geografiche. In un certo senso, applicavo nella pratica la necessità teorica globale della localizzazione: io, singolo individuo, devo avere cura del mio corpo, in quanto casa della mia persona; devo avere cura della mia cameretta; dell’abitazione dove alloggio; della via in cui risiedo; del mio quartiere; della mia città; della mia provincia; della mia regione; del territorio nazionale; del continente; del pianeta Terra (spinto da una fanciullesca attrazione astronomica di proporzioni cosmiche, includevo anche la Via Lattea, giacché nostra Galassia, e l’universo intero. Ma, se si pensa ai rifiuti spaziali che occupano la stratosfera, l’estensione del mio elenco non sembra troppo esagerata!). Il corpo del delitto di questi crimini sono i sacchi neri della spazzatura: i cadaveri abbandonati fuori dai locali, vittime dello zio Sam e del suo killeraggio silenzioso.





[1] v. J. BAUDRILLARD, America, trad. it. Di L. Guarino, SE, Milano, 2009

Nessun commento:

Posta un commento