venerdì 31 maggio 2013

Prefazione (2)


Oltre ai viaggi soggettivi e a quelli oggettivi ci sono, inoltre, le vacanze, vale a dire quelle del turista in villeggiatura, dove quasi sempre il viaggio è totalmente assente, oggettivo o soggettivo che sia. Nel dettaglio, le vacanze sono le ferie obbligate, i meritati giorni di riposo (?) che si devono fare per forza, caratterizzati da un faticosissimo lavorio di pianificazione alle spalle, al fine di scongiurare qualsiasi intoppo che possa ostacolare la nostra tranquilla gita fuori porta, votata al relax per curare lo stress accumulato durante l’anno. Sebbene spesso capita che le tanto sognate ferie si trasformino in gite all'inferno a causa di spiacevoli soprese. In particolare, non capisco la ragione per cui, in questi casi, ci si affidi a una rinomata agenzia di viaggio, la quale si preoccupi di organizzare a puntino ogni dettaglio al posto nostro, cosicché, una volta giunti a destinazione, l’impressione sia quella di trovarsi esattamente a casa propria. A questo punto, tanto vale restarci, a casa, non vi sembra? I non-viaggi, a questo punto, sono le vacanze fatte di villaggi turistici, di crociere criminali, di visite guidate, di cartoline ipocrite, di souvenir che nulla hanno di tipico o autoctono. Quelle dove, in fondo, si svolgono le stesse attività che riempiono la nostra quotidianità in patria, come frequentare locali di tendenza, dedicarsi allo shopping, andare a fare apericena e andare a divertirsi nei club; con la sola differenza che nelle mete turistiche si spende, in genere, molto di più, specialmente se si è in alta stagione. Le vacanze rappresentano, dunque, il non-viaggio per eccellenza, in cui non si sperimenta mai l’incontro autentico con l’alterità. Si badi bene che non biasimo affatto il modello appena descritto di ferie e, d’altra parte, non mi permetterei mai di indicare a una persona dove e come svolgere le proprie vacanze! D’altronde, de gustibus non disputandum est, giusto? Durante il grande viaggio terrestre, anche noi siamo stati in vacanza e abbiamo, in certe occasioni, fatto propriamente le ferie. Infatti, da esse imparammo nulla, né su noi stessi né sulla realtà che ci circonda. In conclusione, mi limito solamente a constatare che i viaggi sono tutt’altra cosa e che, in aggiunta, gran parte di coloro che si autoproclamano accaniti viaggiatori, cittadini del mondo ‒ non me ne vogliano, ma è la cruda verità ‒ spesso non sono altro che esotici abitudinari, chiocciole xenofobe che non riescono ad abbandonare la propria dimora quotidiana. Sono certo che Lévi-Strauss si riferisse a ciò, quando redasse il lapidario incipit di Tristi Tropici.


            La mia è la situazione di un cittadino europeo atterrato, per ragioni in qualche modo fortuite, nel Nuovo Mondo: dall’angusta e vetusta Europa, alla gigantesca modernità statunitense. Durante questa esperienza in terra straniera ci sono stati, come capita quasi sempre in tali occasioni, momenti di viaggio squisitamente soggettivo e periodi di viaggio oggettivo in senso stretto, alternati a intervalli di autentica vacanza. Tuttavia, per quanto riguarda i miei propositi socio-filosofici, considero maggiormente interessanti i viaggi oggettivi, data la volontà di capire il mondo in cui siamo immersi al fine di intercettarne i fenomeni preminenti e le contraddizioni che essi manifestano o, il più delle volte, nascondono parzialmente. A tal proposito, riporto fedelmente un promemoria, datato 10 marzo 2013, tratto dal mio sparpagliato e sparuto diario di viaggio:


                N. B. per l’apprendista filosofo: lasciare da parte i propri crucci esistenziali; risparmiare ai possibili fruitori le              magagne con se stesso, le incapacità, l’inettitudine.  


Il breve memorandum esprime l’intenzione di sottrarre il lettore dall’obbligo di doversi sorbire, ancora una volta, i tormenti personali che affliggerebbero un uomo nella sua battaglia esistenziale contro il resto del pianeta e contro se stesso. Concediamo, infatti, questo spazio ‒ insieme all’onere di riempirlo con soluzioni più o meno efficaci ‒ alla letteratura, alla poesia, alla musica, all’arte in generale. Ai filosofi riserviamo, invece, il compito di studiare i problemi del proprio tempo e, in aggiunta, seppur con ampi margini di tolleranza, l’ufficio di proporre delle valevoli strategie per affrontarli. Ciononostante, rileggendo gli appunti sconnessi che mi sono portato a casa in seguito al viaggio, ho pensato che, in fondo, non sarebbe stato corretto epurare, come dopo a un numero di prestigio, alcune considerazioni sul mio conto, sgorgate dall’aver respirato a pieni polmoni l’atmosfera inedita. In primo luogo, proprio perché esse sono scaturite da quella esperienza particolare, appartengono ad essa e, perciò, non è escluso che, fuori dal determinato contesto, non sarebbero mai germogliate. In secondo luogo, ho creduto che, forse, le meditazioni in questione potrebbero andare al di là della mera vicenda personale e, come tali, rivolgersi anche ad altri destinatari, oltre al sottoscritto. In ogni caso, assicuro fin da subito l’intollerante agli aforismi simil-sentimentali o l’allergico agli spiritualismi romantici ‒ come, per certi versi, lo sono anch’io ‒ che, nelle pagine che seguiranno, i monologhi del microcosmo psichico saranno assai minori rispetto alle riflessioni oggettive sulla realtà statunitense. Di conseguenza, il risultato è un testo ibrido, il cui corpo è costituito dalle digressioni socio-filosofiche che i luoghi di New York mi hanno comunicato, agghindato, però, di ponderazioni  più intime, circa l’esistenza.      



Viaggio. Come tutti.

Finché ci saranno esseri umani, ci saranno luoghi.

Finché ci saranno luoghi, ci saranno viaggi.

Finché ci saranno viaggi, io ci sarò.

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