venerdì 31 maggio 2013

Wine tasting

Durante il soggiorno nella Big Apple ho anche modo di prendere parte a un wine tasting: un’importante degustazione vinicola su scala internazionale, programmata da un noto importatore newyorkese. La fiera si svolge nella sala congressi di un grande hotel nella East Side, allestita a puntino per l’occasione, con numerosi stand riservati ai produttori provenienti da molti Paesi diversi. Agli angoli della stanza sono stati apparecchiati dei tavoli colmi di piatti e vassoi che trasbordano di grissini, focacce, cracker e formaggi di ogni tipo. A ciascuno dei partecipanti (per la maggior parte proprietari di ristoranti, ma non mancano i “collezionisti” e i semplici appassionati) viene fornito un protocollo riportante tutti i dati dei prodotti esposti, sui cui i primi diligentemente appuntano le proprie impressioni circa le caratteristiche dei vari vini. Ma ciò che mi stupisce maggiormente è senz’altro assistere alla gara di sputi collettiva, ingaggiata dopo ogni assaggio enologico. Tutti, in seguito a ondulazioni decantanti, occhiatacce rivolte ai calici, sniffate e smorfie deformanti, sputano (proprietari di locali, “collezionisti” o meri amatori), al punto che non si capisce se il vino con cui hanno appena effettuato dei risciacqui orali gli piaccia davvero oppure no! Sembra di essere dal dentista, con la differenza che il liquido scatarrato è succo d’uva alquanto costoso, ottenuto col sudore e la sapienza di periti viticoltori, e non colluttorio verdognolo che sa di medicina. Premesso che non sono affatto un esperto del settore e che, di conseguenza, non mi soffermo sulla necessità sensoriale-valutativa, oltreché fisiologica di tale prassi (credo che sia assai complicato rimanere sobri dopo aver assaggiato una ventina di vini diversi), mi limito a esporre una considerazione generica su un evento come il wine tasting a cui ho assistito. Trovo che in situazioni come quella sopra descritta il vero protagonista in questione, cioè il vino, finisca, in realtà, per restare completamente fuori dalla scena. Ciò che conta è, piuttosto, l’atmosfera che si viene a creare intorno ad esso, l’aurea di rimandi e significati che ne aleggia sopra come, peraltro, accade con qualsiasi merce al tempo del consumismo. Pare, infatti, che, come intuisce Jean Baudrillard, il valore d’uso dei beni (stabilito in base alla funzione che un certa cosa possiede) e quello di scambio (fissato dalle leggi di equivalenza del mercato), siano stati oramai superati dal valore-segno, l’unico ancora in grado di dare un senso all’articolo. Il valore-segno non ha più nulla a che vedere con lo scopo di un prodotto, né tantomeno con la sua capacità venale: esso dipende soltanto dalle “virtù” che le mode passeggere ed effimere gli imprimono. In altre parole, il succo d’uva, non solo frutto della terra e del lavoro umano, ma anche simbolo di storia e cultura di un luogo, finisce per essere svuotato di ogni sua intrinseca qualità, per divenire quasi un’opera d’arte contemporanea, esposta in una simil-galleria, dopo la cui fruizione parziale, lo spettatore se ne libera con un getto netto all’interno di una sputacchiera. Da nettare degli dei a status symbol di importatori semidivini. Difficile stabilire una volta per tutte a cosa serva una bevanda alcolica ottenuta dal mosto d’uva lascito a fermentare: per dissetarsi, per abbinare ai cibi, per darsi un tono e una tonalità, per fare buon sangue, per combattere il colesterolo alto, per ubriacarsi, per fare cassa, per valorizzare un territorio, ecc. Come quasi ogni cosa autentica non si lascia imbrigliare in una definizione univoca, ma resta pur sempre indiscusso il fatto che il vino generalmente e primariamente si beve.

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