venerdì 31 maggio 2013

Melting pot


Passeggiando per i marciapiedi, incontro ovunque il medesimo odore di fritto, effuso dalla miriade di bancarelle ambulanti che vendono hot dog e ciambelle. Per le strade incrocio le stesse facce, le stesse capigliature, gli stessi vestiti, le stesse rughe, gli stessi cenni d’intesa che si ritrovano nella maggioranza dei giovani di Bra, di Torino, delle città italiane, di ogni villaggio del mondo globalizzato dai consumi. Tutt’intorno, l’aria è particolarmente elettrizzante, frizzante, eccitante, vuoi per le temperature rigide della stagione invernale, vuoi per la corrente che il vento oceanico deposita su ogni maniglia, vuoi per l’energia elettrica onnipresente, vuoi per la tensione che i nuovaiorchesi, dinamo del capitalismo, generano ininterrottamente. Attraversando una via, mi imbatto in una insegna luminosa alquanto colorata, che dice: “Museum of sex”; gonfalone paradigmatico della contemporanea mercificazione dell’erotismo. Poco più in là, vedo una maestosa cattedrale in stile gotico, dirimpetto a un mcdonald. Qui, è chiaro più che in altri posti, come l’architettura moderna abbia trascurato quasi in toto i concetti di a-misura-d’uomo, di nicchia ecologica, di funzionalismo nella disposizione degli edifici pubblici e privati nel centro cittadino. D’altro canto, il costruttivismo maniacale, di cui gli Stati Uniti si sono fatti capiscuola a partire dalla loro fondazione e successivamente intensificatosi, a ritmi allarmanti, dal secondo dopo guerra, non avrebbe potuto condurre a un esito differente. Qui, non si incontrano le armoniose planimetrie tracciate dagli umanisti europei, o l’assetto ordinato e strutturale di una piazza, inteso come centro dedito alle attività quotidiane della popolazione, disegnato dagli urbanisti rinascimentali nelle città italiane e poi diffuso in ogni angolo d’Europa. Qui, il melting pot si è verificato non solo nella promiscuità delle razze umane, ma anche nella commistione di stili e funzioni architettonici.


Foto di Federica Boffa

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